Quando la vita procede a tentoni e le giornate arrancano, c’è bisogno di una svolta, una voce, qualcuno che sia in grado di prenderci per mano e sollevarci dal torpore in cui siamo finiti; e spesso, noi lettori abbiamo la fortuna di trovare quella mano nelle pagine dei libri, tra le storie di altri che, in un modo o nell’altro, ce l’hanno fatta.
4 libri di rinascita
Scopriamo insieme di che parlano i titoli di oggi.
“Aspettami al Caffè Napoli” di Chiara Gily
“Aspettami al Caffè Napoli” comincia da un ritorno che ha l’aria di una formalità: Lidia vive a Trieste da anni, Napoli è rimasta lì come restano certi parenti nella rubrica del telefono, un nome che si evita di premere. L’invito al matrimonio della cugina Alice la costringe però a rimettere piede in città. Un weekend, qualche foto di rito, una presenza gentile, poi di nuovo via. È questo il piano.
Napoli, naturalmente, ha un’altra idea. E non serve un colpo di scena rumoroso: basta una porta che si riapre, una chiave passata di mano, una bottega che chiede di essere guardata. In poche ore Lidia diventa l’erede dell’attività del padre Felice, un rigattiere conosciuto nel rione come si conoscono i luoghi che fanno comunità: non solo perché vendono oggetti, ma perché raccolgono storie. E dentro quella bottega c’è la sostanza del romanzo: il passato che non sta fermo, le cose che sembrano “soltanto cose” e invece sono prove, indizi, promesse, debiti affettivi.
La bottega, però, non è un album dei ricordi. È un nodo. C’è un’aria di segreti e questioni lasciate in sospeso, problemi pratici che diventano morali, una rete di persone che per anni ha ruotato attorno a Felice e ora si domanda cosa resterà. Lidia, che credeva di poter attraversare Napoli senza sporcarsi le mani, scopre che certe città sono fatte apposta per smentire chi pensa di poter essere solo spettatore.
A tenerla dentro la storia non è un destino astratto, ma un trio tutto umano: Alice, nel momento fragile e luminoso in cui una vita cambia nome; Mila, fotografa, che sa vedere i dettagli prima ancora di capirli; e Lidia, che deve decidere se la sua è una visita o un ritorno. Il romanzo si muove così, tra la leggerezza di una commedia di affetti e la densità di ciò che si eredita davvero: un luogo, una reputazione, un vuoto.
E in mezzo c’è il caffè, quasi una firma: la promessa che qualcosa di buono può tenere insieme le persone, anche quando non sanno più come parlarsi. Napoli non “cura”, non consola: mette alla prova. E proprio per questo, a un certo punto, diventa difficile andare via come se niente fosse.
“Attraverserò il tempo per te” di Lee Kkoch-nim
“Attraverserò il tempo per te” parte da una scena che molte famiglie conoscono fin troppo bene: un padre che annuncia un secondo matrimonio e una figlia che, invece di sentirsi inclusa, si sente spostata di lato. Eunyu reagisce come reagiscono i quindicenni quando il mondo degli adulti decide per loro: rabbia, chiusura, quella sensazione di essere diventata improvvisamente un ingombro.
Poi arriva la lettera. Non una trovata romantica, piuttosto un gesto imposto: scrivere alla se stessa del futuro, come se bastasse mettere nero su bianco per rimettere in fila i pensieri. Solo che qui la carta si comporta come un varco. Il messaggio finisce nel 1982 e a riceverlo è un’altra Eunyu, che vive in un tempo diverso e legge quelle righe come si leggerebbe una minaccia o una prova truccata. Dall’altra parte, nel presente, la risposta sembra l’ennesima crudeltà: qualcuno sta giocando con lei.
Il romanzo prende quota proprio in questa diffidenza. Non corre subito verso la “magia”, resta invece addosso a quel momento in cui due persone – che in teoria sono la stessa persona – si scrutano a distanza. Le lettere diventano un patto, ma anche un rischio: ogni riga consegna qualcosa che non si può più riprendere. E lentamente, come succede quando si scrive davvero, le parole cambiano tono: meno difesa, più precisione. Eunyu comincia a raccontarsi senza fare scena, l’altra comincia a rispondere senza recitare.
La parte interessante è che il tempo, qui, non serve per stupire. Serve per mettere in luce ciò che normalmente resta coperto: come si cresce quando si è convinti che la propria storia sia già stata decisa da altri; come si trova una forma di alleanza quando intorno ci sono solo adulti che “fanno il loro meglio” e intanto lasciano fuori i pezzi più fragili. Lettera dopo lettera, le due Eunyu si offrono qualcosa che non è consolazione: è uno sguardo. Uno che non giudica, che non corregge, che non minimizza.
E a un certo punto la domanda si sposta: non “com’è possibile?”, ma “cosa cambia, quando qualcuno risponde?”. Perché è lì che il libro lavora davvero: nell’idea che l’incredibile non sia attraversare il tempo, ma trovare finalmente un interlocutore capace di reggere la verità di una ragazza. E da quel momento, inevitabilmente, anche il futuro smette di sembrare una sentenza.
“La cassetta delle lettere per i cari estinti” di Lorenza Stroppa
“La cassetta delle lettere per i cari estinti” parte da un oggetto: una scatola, una fessura, un gesto che si ripete. In un paese dove le cose sembrano sempre uguali, qualcuno decide di dare alle parole un posto fisico, un indirizzo che non pretende risposta. È già una piccola rivoluzione, perché il dolore di solito non ama i contenitori: straborda, oppure si secca e resta lì, duro, in fondo alle giornate.
Arturo, che di mestiere insegna storia dell’arte, ha lo sguardo di chi è abituato a leggere le superfici. Sa riconoscere quando una crepa è solo una crepa e quando invece è la prima forma di un cambiamento. Ha anche quel tipo di intelligenza pratica che sposta i problemi di lato, li rende maneggiabili: un oggetto riparato, un’idea rimessa in moto, una passeggiata attorno a Pordenone con Napoleone, cane e bussola.
Poi la cassetta comincia a riempirsi. Dentro non ci sono soltanto lettere: ci sono ritardi, rimorsi, frasi lasciate a metà, gratitudini che arrivano tardi, richieste che non hanno avuto il coraggio di diventare voce. Arturo aveva immaginato una regola semplice, quasi igienica: raccogliere senza guardare. Ma le comunità, quando trovano un varco, fanno sempre di testa loro. E anche lui, a un certo punto, si accorge che esiste una differenza sottile tra custodire e ascoltare.
Intanto, come spesso succede nelle storie che sembrano leggere e invece hanno un nucleo scuro, qualcosa si incrina: un’assenza che pesa troppo, un dettaglio che torna, un ragazzo che cambia passo, un lutto che chiede spazio proprio mentre tutti fingono di non averne più. La cassetta resta lì, in mezzo, come un oggetto innocente che però obbliga a guardare meglio. E più Arturo guarda, più capisce che certe cose si risolvono solo quando smettono di essere private.
“Il tempo delle ciliegie” di Montserrat Roig
A Barcellona, certe primavere arrivano con un rumore basso, quasi domestico: un portone che si riapre, una valigia appoggiata a terra, il corpo che cerca di ricordarsi come si cammina “a casa” dopo dodici anni altrove. In “Il tempo delle ciliegie” Natàlia Miralpeix torna nel 1974 con addosso Parigi e Londra, e scopre che il vero viaggio non è il rientro: è l’attraversamento di ciò che la famiglia chiama normalità.
La città le fa da specchio: sembra ferma, eppure vibra. L’ordine resiste, ma nei corridoi (quelli delle università, dei palazzi, delle cucine) circola già un’altra elettricità. Intanto, in casa, ognuno recita la propria parte con una precisione che fa paura. Zia Patrícia col suo teatro privato, Silvia con la grazia delle cose “a posto”, Lluís con l’architettura fredda di chi ha trasformato il futuro in una carriera. E poi Màrius, adolescente con la poesia in tasca e Jimi Hendrix nelle orecchie: l’unico che tratta l’aria come se fosse davvero respirabile.
Roig guarda tre generazioni come si guardano i salotti dopo una festa: tutto è ancora lì, ma qualcosa è stato spostato. Natàlia si muove tra affetti e fratture, tra desideri e convenienze, e capisce che certe ferite – quelle della Storia, quelle dell’amore, quelle del corpo – continuano a parlare anche quando in famiglia si è deciso di non ascoltarle più.
“Il tempo delle ciliegie” ha la crudezza dolce delle cose mature: la promessa di una stagione di gioia, e il prezzo di arrivarci. Perché la libertà, qui, non è uno slogan: è una scelta che chiede coraggio ogni mattina, davanti allo specchio, prima ancora che in piazza.
