C’è un momento, a fine anno scolastico, in cui si chiudono i libri di testo e si apre finalmente la possibilità di scegliere cosa leggere davvero. Non perché è in programma, non perché serve per l’interrogazione, non perché lo ha chiesto la prof di lettere. Leggere, finalmente, per il puro piacere di scoprire, emozionarsi, perdersi. Per chi ha appena chiuso un ciclo come quello delle superiori, inizia anche una stagione simbolica: quella dell’estate che segna un passaggio, un confine da attraversare. E allora perché non farlo con una storia che lasci il segno?
In questa selezione abbiamo raccolto dieci libri contemporanei, romanzi e saggi, italiani e internazionali, di formazione, sentimentali, distopici o sorprendenti, che parlano con la lingua di oggi ma lasciano addosso qualcosa di più duraturo: una riflessione, una svolta, un brivido. Sono titoli perfetti per chiudere un anno intenso e prepararsi al futuro, che sia università, lavoro o semplicemente crescita personale.
10 libri da leggere finita la scuola
Leggere d’estate non è un compito, ma una forma di libertà. È l’occasione per scegliere una voce che ci somigli, che ci sfidi, che ci apra mondi nuovi o ci racconti qualcosa che ancora non sapevamo di pensare. I dieci titoli che vi abbiamo proposto sono ideali per chi vuole salutare l’anno scolastico con una lettura che non si dimentica facilmente: alcuni vi faranno ridere, altri commuovere, altri ancora vi terranno svegli la notte per “ancora una pagina”.
Qualunque sia la vostra estate, in viaggio, sotto l’ombrellone, in camera vostra con la finestra aperta, sappiate che ci sono libri che vi stanno aspettando. E che, proprio come voi, hanno voglia di cambiare pelle.
Takoua ha quattordici anni, il volto determinato, la mente affilata e un’identità complessa come le sue giornate: a scuola con compagni italiani, a casa tra precetti religiosi, moschea e aspettative che sembrano non concederle mai un margine d’errore. Italiana, con permesso, graphic novel autobiografica firmata da Takoua Ben Mohamed, è il racconto visivo e ironico di una doppia appartenenza difficile da tenere insieme, eppure incredibilmente potente.
Con uno stile fresco e diretto, Takoua ci mette dentro la sua vita, le sue frustrazioni e le sue rivoluzioni quotidiane. È italiana, ma per restare nel paese in cui è nata e cresciuta deve periodicamente “chiedere il permesso”. È musulmana, ma non sempre come gli altri si aspettano che lo sia. Tra stereotipi, controlli in aeroporto, doppi standard culturali e l’ansia di dover sempre dimostrare qualcosa, il racconto si trasforma in una cronaca brillante di resilienza e affermazione.
Accanto a lei, c’è Marco, il migliore amico “italianissimo”, che scopre a sua volta quanto difficile possa essere se stessi in un mondo che etichetta tutto. Insieme formano una coppia perfetta per raccontare l’adolescenza di chi non vuole scegliere tra un’identità e l’altra, ma costruirne una nuova, propria, fatta di sogni, rabbia, ironia e speranza.
Con tratti semplici e colori netti, Italiana, con permesso ci ricorda che la graphic novel può essere uno strumento potente per raccontare il reale, e che crescere diversi, tra pregiudizi e domande non fatte, può diventare un atto di rivoluzione silenziosa. Ma mai solitaria.
Takoua Ben Mohamed è pioniera del graphic journalism in Italia. Nata a Douz, in Tunisia, ma cresciuta a Roma, ha iniziato a raccontare attraverso il fumetto temi sociali, identità, convivenza e diritti umani. Italiana, con permesso è il suo libro più personale, ma anche uno dei più politici: il diritto a esistere senza dover chiedere il permesso è, forse, la più universale delle battaglie.
Cosa significa restare liberi, anche quando tutto intorno tenta di spezzarti? La biografia scritta da Giuseppe Fiori su Antonio Gramsci non è soltanto un omaggio a una delle figure più luminose e contraddittorie del Novecento italiano: è un’immersione potente e commovente nella vita di un uomo che ha saputo trasformare la prigionia in resistenza, il dolore fisico in lucidità intellettuale, la solitudine in riflessione collettiva.
Giornalista, intellettuale, fondatore del Partito Comunista d’Italia, Gramsci attraversò le fiamme del suo tempo, dalla Sardegna rurale fino al Parlamento, dall’esilio interno alla cella, lasciando dietro di sé un pensiero che oggi è più vivo che mai. Giuseppe Fiori, con un rigore documentario che non rinuncia alla forza narrativa, riesce nell’impresa rara di umanizzare una figura spesso santificata, restituendocene il corpo fragile, le lotte interiori, le lettere struggenti ai figli mai conosciuti.
È un libro che non idealizza, ma che illumina: Gramsci non è solo il teorico dell’egemonia culturale, ma il figlio del sottoproletariato, lo studente affamato, l’uomo che discute con sé stesso mentre il fascismo tenta di cancellarne l’identità. Eppure, pagina dopo pagina, si avverte che la sua grandezza non sta solo nelle Lettere dal carcere, ma nella coerenza di una vita vissuta con dignità feroce.
Con un linguaggio limpido e appassionato, Fiori costruisce una narrazione incalzante, che si muove tra fatti politici e intimità quotidiane, svelando il Gramsci padre, il Gramsci amico, il Gramsci militante. Un’opera che andrebbe letta (e riletta) non solo per conoscere l’uomo, ma per capire l’Italia, il potere, la memoria.
Antonio Gramsci fu arrestato nel 1926 dal regime fascista e tenuto in carcere per oltre dieci anni, fino alla morte. È in prigione che scrisse i celebri Quaderni del carcere, fondamentali per la filosofia politica e culturale contemporanea. Giuseppe Fiori, giornalista e deputato, pubblicò questa biografia nel 1966, inaugurando un nuovo modo di raccontare i protagonisti della storia con approccio narrativo e indagine critica. Un libro che ha aperto la strada alla “biografia civile”, dove la politica è sempre anche un fatto umano.
Cosa significa avere coraggio, quando tutto attorno ti insegna la paura? Pubblicato nel 1940, Il coraggio delle donne di Anna Banti non è solo un libro pionieristico per il suo tempo, è un vero atto di disobbedienza letteraria. In un’epoca in cui la parola “eroismo” apparteneva saldamente all’universo maschile e bellico, Anna Banti osa ridare voce a quel coraggio intimo e silenzioso, quotidiano e femminile, spesso cancellato dalla Storia.
Cinque racconti, cinque donne, cinque battaglie invisibili. Amina che beve vino per sfidare il marito violento, Felicina che affronta la condanna sociale della solitudine, Sofia che scala montagne per non essere scalzata da una vita già scritta. Queste protagoniste non alzano la voce: la usano. Non scappano: resistono. Sono figure scavate nel reale, dentro abiti stretti e rituali domestici, eppure capaci di lacerare il velo del conformismo con un solo gesto. Anna Banti, con la sua prosa cesellata e intensa, restituisce a queste donne non solo la parola, ma la scelta.
Il valore del libro non sta solo nel contenuto, ma anche nel contesto. Scritto in pieno regime fascista, Il coraggio delle donne è il primo gesto di libertà dell’autrice, come lei stessa lo definì. Un gesto che oggi risuona con forza, proprio per il suo stile sobrio, mai declamatorio. Perché, come scrive Daniela Brogi nella nuova introduzione, «le opere novecentesche d’autrice non vanno solo recuperate, ma rilette con nuovi occhi».
Banti non costruisce archetipi, ma relazioni. Nei suoi racconti c’è l’eco di generazioni, di vincoli, di obblighi che diventano abitudini e abiti mentali. Ma c’è anche la forza, a volte minuscola, del gesto che rompe. Una ribellione che non ha bisogno di grandi parole, ma si consuma tra le mura di casa, nei silenzi taciuti, nei passi che nessuno applaude.
Anna Banti, pseudonimo di Lucia Lopresti, fu scrittrice, storica dell’arte, critica e moglie di Roberto Longhi. Oltre al celebre Artemisia, è autrice di romanzi e saggi che mettono al centro la figura femminile, con uno sguardo raffinato e profondamente moderno. Il coraggio delle donne fu pubblicato nel 1940 da Bompiani e oggi torna in edizione Oscar Moderni con una nuova introduzione che ne valorizza la potenza letteraria e politica. Un libro da leggere (o rileggere) con attenzione: perché la libertà, come insegna Banti, è una conquista quotidiana.
«Bisogna sventrare Napoli!» disse Depretis nel 1884. Ma a farlo davvero, con uno scalpello fatto di parole e uno sguardo che non chiude mai gli occhi davanti al dolore, fu Matilde Serao. Il ventre di Napoli non è solo un’opera fondamentale della letteratura civile italiana, ma un grido lucido e disperato lanciato da una delle più grandi penne del nostro giornalismo.
Con la forza di una cronista e la sensibilità di una narratrice, Serao si inoltra nei bassifondi partenopei senza alcun filtro. Non si limita a registrare la povertà, la sporcizia, il colera. La scrive, la fa toccare, la mette davanti al lettore con uno stile asciutto e potente, scavando tra le viscere di una città splendida e dannata. I bambini abbandonati, le donne che lottano per un pezzo di pane, i vicoli che puzzano di miseria e di rassegnazione. È Napoli, ma è anche l’Italia che si fa finta di non vedere.
Accanto al testo originario del 1906, questa nuova edizione Mondadori raccoglie una preziosa selezione di altri scritti della Serao. Dalla drammatica eruzione del Vesuvio all’ipocrisia del Risanamento, dalle riflessioni sulle ragazze e i non detti femminili fino alla critica feroce della borghesia, ogni pagina conferma la sua voce: nitida, libera, profondamente empatica. Una voce che, come scrive Montesano, “è politica fino all’osso”.
Il ventre di Napoli è un testo che ancora oggi taglia come un bisturi. E nel panorama italiano, fatto spesso di narrazioni maschili sul potere e la miseria, Matilde Serao è stata la prima, e forse ancora la più grande, a parlare di giustizia con la penna come arma e l’osservazione come metodo.
Matilde Serao è stata la prima donna italiana candidata al Nobel per la Letteratura e la fondatrice del quotidiano Il Mattino. In un’Italia che la voleva silenziosa e decorativa, fu una pioniera: giornalista d’inchiesta, imprenditrice editoriale, scrittrice sociale e femminista ante litteram. Il ventre di Napoli, uscito per la prima volta nel 1884, è considerato il primo grande reportage narrativo della nostra storia.
Dimenticate l’austero fascino delle enciclopedie e le sacrosante nozioni delle riviste accademiche: Mostrologia applicata è una creatura editoriale mutante, un ibrido tra trattato scientifico, saggio pop e stand-up comico che vomita ironia intelligente ad ogni pagina. Curata da Barbascura X (il chimico, youtuber e autore che ha fatto del sarcasmo uno stile epistemologico), questa rivista-libro edita da Mondadori è il primo “manuale di sopravvivenza contro zombie, vampiri, alieni e altre entità brutte, cattive e… scientificamente sorprendenti”.
Con la precisione di un saggio e la demenzialità di un meme ben riuscito, Mostrologia applicata ci accompagna tra i meandri dell’immaginario orrorifico, per scoprire che dentro ogni kaiju c’è un’equazione nascosta, che i vampiri pongono inquietanti interrogativi metabolici e che la fisiologia di un alieno può insegnarci qualcosa sull’evoluzione terrestre. Il tutto condito con parolacce ben piazzate, citazioni colte travestite da battute da bar, e una schiera di autori che spaziano dal divulgatore al comico con straordinaria disinvoltura.
Ogni contributo, da Lorenzo Monaco a Federica Cacciola, da Michele Bellone a Jacopo De Luca, aggiunge un pezzo al puzzle delirante della mostrologia, senza mai perdere il rigore di fondo. Perché il paradosso è questo: si ride di gusto, ma si impara per davvero. Anzi, più che imparare, si sopravvive. Ai cliché, ai pregiudizi scientifici, ma soprattutto alla noia.
Mostrologia applicata non è solo un libro: è un invito a guardare il mondo con lo sguardo del mostro, cioè da fuori. Ed è proprio in questo sguardo altro, scomposto e buffonesco, che si nasconde la forma più acuta di divulgazione: quella che ti prende a schiaffi per farti pensare.
Barbascura X, autore cult e “chimico di bordo”, ha trasformato l’arte della divulgazione scientifica in puro intrattenimento. Il Satiro Scientifico è il primo esperimento editoriale che fonde scienza pop, satira nerd e follia metodologica: un progetto seriale che promette nuovi volumi con temi ogni volta più imprevedibili, dal caos quantistico all’amore tra batteri.
C’è una dolcezza antica e pungente che si posa su ogni pagina di The Honey Witch. Sydney J. Shields firma un esordio incantato, morbido come una carezza e profondo come una scelta difficile, mescolando stregoneria, amore WLW e atmosfere da cottagecore in un romanzo che è insieme racconto di formazione, storia queer e fiaba di resistenza.
Marigold Claude ha ventun anni e una consapevolezza rara: non desidera l’amore convenzionale, né la vita che altri immaginano per lei. Preferisce la compagnia degli spiriti del prato, delle api e delle erbe. Così, quando la nonna le offre di diventare la nuova Strega del Miele sull’isola di Innisfree, Marigold accetta un destino solitario ma libero, consapevole del prezzo: la rinuncia all’amore.
Finché alla sua porta non bussa Lottie Burke. Cinica, disillusa, scettica fino al midollo, Lottie è la scintilla che incrina la sicurezza di Marigold. La loro storia nasce da un contrasto, si alimenta di curiosità e cresce in una tensione lenta, poetica, fatta di mani che sfiorano foglie e parole che curano più delle pozioni. Ma se l’amore è una forma di verità, la magia più potente non è forse quella che ci obbliga a cambiare rotta?
Shields costruisce un universo incantato e gentile, dove l’indipendenza delle donne passa attraverso gesti quotidiani, cura, eredità, ma anche rinuncia e rischio. La magia, qui, è metafora: di legami autentici, di identità che sbocciano fuori dalle aspettative, di sentimenti che sfidano ogni tabù.
Con una scrittura fluida e delicata, The Honey Witch è una lettera d’amore alla libertà femminile, al potere dell’empatia e alla possibilità di scegliere un’altra strada, anche quando costa. E forse proprio per questo, è impossibile non innamorarsi di questa strega.
Il romanzo è ambientato a Innisfree, nome che richiama l’isola amata da W. B. Yeats e tutta la tradizione celtica della natura come rifugio sacro. The Honey Witch è il primo volume di una serie sulle eredi della stregoneria naturale: ognuna con il suo dono, ciascuna con un segreto da custodire. Il romanzo è stato accolto con entusiasmo dalla community internazionale per la sua rappresentazione romantica queer senza trauma e per il tono dolce.
Più che un semplice tributo, Nel nome della luna è un atto d’amore intellettuale. A cura di Anna Specchio, questo volume collettivo segna la prima vera indagine interdisciplinare italiana su Sailor Moon, uno dei fenomeni più travolgenti della cultura pop globale, che continua, a distanza di trent’anni, a influenzare generazioni, immaginari e lotte identitarie.
Non si tratta solo di un viaggio nostalgico nella “Generazione Sailor Moon”, ma di un’opera corale che fonde letteratura, sociologia, studi sui media, cultura queer e rappresentazioni di genere. Perché dietro la trasformazione di una ragazzina impacciata in paladina dell’amore e della giustizia si cela una rivoluzione: estetica, narrativa, politica.
Il libro analizza con lucidità l’impatto che l’anime e il manga di Naoko Takeuchi hanno avuto sulla percezione del femminile, sulla legittimazione dell’ibrido tra forza e sensibilità, e sulla diffusione di un linguaggio queer ben prima che certi discorsi fossero mainstream. Le guerriere Sailor non combattono solo mostri, ma stereotipi. E lo fanno con gonne corte, lacrime autentiche e alleanze affettive che ridefiniscono cosa significhi amare e scegliere chi essere.
Ogni contributo arricchisce il quadro con una prospettiva nuova: si parla di fandom e fanfiction, di femminismo transgenerazionale, della mitologia reinterpretata al femminile, di intersezionalità, trasformazioni e media transnazionali. In questo senso, Nel nome della luna diventa un vero oggetto di studio, ma accessibile anche a chi cerca nel saggio uno strumento per comprendere meglio sé stessə.
Sailor Moon è stato uno dei primi anime a introdurre personaggi esplicitamente LGBTQ+ in fascia pomeridiana, seppur censurati in molte edizioni occidentali. Il volume include saggi di docenti universitari, esperti di cultura pop, giornalisti e attivisti, tutti cresciuti con le guerriere Sailor.
Il titolo stesso richiama il celebre incipit della trasformazione: “Nel nome della Luna, ti punirò!”, ma oggi, più che punire, queste pagine illuminano.
Cosa accade quando il destino di un impero poggia sulle spalle di un fallito? Viaggio dei Dannati, romanzo d’esordio di Frances White, è un’avventura fantasy ad alta tensione che unisce mistero, potere magico e atmosfere da thriller claustrofobico. Un romanzo che fonde le dinamiche da whodunit alla Knives Out con l’immaginario di un impero solenne, diviso in province, Benedizioni e segreti.
Nel cuore della storia troviamo Ganymedes Piscero: non è un nobile, non è un mago, non è nemmeno rispettato. È il classico personaggio di cui nessuno si aspetta nulla, e proprio per questo diventa il più interessante. Invitato per errore sul lussuoso vascello imperiale, si ritrova circondato da dodici rampolli con poteri sovrannaturali, ciascuno potenzialmente coinvolto nell’omicidio della più amata tra loro. In un crescendo di tensione, sospetti e alleanze fragili, Ganymedes dovrà scoprire se può davvero essere qualcosa di più del ruolo che gli hanno cucito addosso.
Con uno stile scorrevole e visivo, White costruisce una narrazione ad incastro in cui ogni dialogo è una trappola, ogni gesto una pista. Il viaggio si fa metafora politica e personale: in gioco non c’è solo la sopravvivenza del protagonista, ma anche la fragilissima pace di un impero che si regge sulla mistica delle Benedizioni… e su un equilibrio sempre più precario.
Ganymedes Piscero deve il suo nome al simbolo araldico della sua provincia: il pesce. Ma sarà davvero lui il pesce fuor d’acqua o l’unico capace di nuotare controcorrente? Il romanzo si ispira, per struttura e ritmo, ai gialli di Agatha Christie, con un tocco di The Hunger Games e The Traitors.
Viaggio dei Dannati è il primo volume di una possibile serie ambientata nel mondo di Concordia, e promette di rinnovare il fantasy mystery con una voce ironica, queer e piena di sorprese.
Cosa hanno in comune il poema epico Beowulf e una casa sull’albero? Apparentemente nulla. Ma Bea Wolf, reinterpretazione geniale firmata da Zach Weinersmith e illustrata da Boulet, dimostra che l’eroismo non ha età, e che la battaglia più importante si combatte proprio nel passaggio tra infanzia e adolescenza.
In questo adattamento poetico, la protagonista è Bea Wolf, fiera custode di un regno fatto di fionde, biscotti e giochi proibiti. Quando il terrificante Grindle, incarnazione dell’adulto che vuole reprimere ogni gioia infantile, minaccia di demolire la loro fortezza, Bea e i suoi compagni dovranno difendere non solo il loro spazio fisico, ma anche un’idea: quella che l’infanzia, con la sua libertà sfrenata, non è solo una fase, ma una visione del mondo.
Scritto con una struttura metrica che echeggia l’antico anglosassone, Bea Wolf è un atto d’amore per la parola orale, il ritmo, le leggende e la memoria collettiva. E allo stesso tempo è uno sguardo ironico e profondo sulla crescita, sul rischio di spegnersi, sull’eterna lotta contro la noia e la normalizzazione. Con le illustrazioni dinamiche, oscure e scintillanti di Boulet, degne di un graphic novel per adulti ma accessibili anche ai più piccoli, il libro esplode in un’epica moderna e tenera, dove ogni bambino è un guerriero e ogni biscotto una reliquia.
Non solo un omaggio a Tolkien e ai cantori del passato, ma una storia simbolica e potente che ci ricorda quanto sia necessario proteggere la meraviglia, il gioco, l’immaginazione. E forse, anche i grandi potranno riconoscersi nel terrore di essere diventati grigi. E voler tornare, almeno per un attimo, alla casa sull’albero.
Bea Wolf nasce come parodia intelligente e amorevole del Beowulf, ma Zach Weinersmith ne conserva la solennità linguistica, alternando versi epici a invenzioni giocose degne dei migliori albi per l’infanzia.
Il libro è il secondo titolo della collana Cherry Bomb, curata da Zerocalcare, pensata per progetti fuori dagli schemi ma pieni di cuore, resistenza e ribellione.
Un volume da collezione: rilegatura cartonata, dettagli metallizzati e illustrazioni che sembrano scolpite nel buio. Una piccola saga da leggere ad alta voce, per tutte le età.
Cosa succede quando il confine che separa due mondi così vicini è invisibile solo sulla mappa, ma assordante nella vita quotidiana? Keum Suk Gendry-Kim, una delle voci più intense del graphic journalism contemporaneo, prova a rispondere con Il mio amico Kim Jong-un, opera lucida, dolorosa e coraggiosa, che intreccia biografia, indagine storica e resistenza emotiva.
Il titolo, ironico e inquietante, introduce subito l’ambiguità narrativa: quella di un’amicizia impossibile con l’uomo più temuto della Corea, e di un popolo diviso che da settant’anni si guarda da lontano, attraverso filo spinato, propaganda e silenzi forzati. L’autrice racconta da vicino la tensione quotidiana che si vive sull’isola di Ganghwa, dove la Corea del Nord è più che una minaccia astratta: è una presenza fisica, sonora, psicologica. Le esercitazioni militari, le esplosioni, le ombre sulla vita civile sono dettagli che Gendry-Kim raccoglie come un diario dalla trincea.
Attraverso un tratto essenziale ma potentissimo, il graphic novel diventa un’opera di denuncia e insieme di empatia. Ogni vignetta è un frammento di memoria, un tentativo di comprendere non solo la figura di Kim Jong-un, ma soprattutto la tragedia collettiva di una nazione spezzata, prigioniera di un conflitto ereditato e mai risolto. Non c’è retorica, non c’è didascalismo: solo una voce sincera che chiede attenzione.
Come Persepolis ha raccontato l’Iran dall’interno, Il mio amico Kim Jong-un fa lo stesso per la Corea, portando al lettore europeo il peso di una divisione che sembra lontana, ma di cui condivide inconsciamente logiche e derive. È una lettura necessaria, perché la pace si costruisce prima di tutto guardando in faccia le ferite.
Keum Suk Gendry-Kim è già autrice di capolavori come Jun e Le Malerbe, sempre dedicati alle memorie dolorose della Corea. Con Il mio amico Kim Jong-un raggiunge un nuovo livello di intensità politica e personale.
L’autrice racconta che una delle motivazioni principali per realizzare quest’opera è stata la paura: non quella spettacolare da thriller, ma quella lenta, quotidiana, che attraversa la vita civile e scolora i confini tra guerra e normalità.
Il libro è stato accolto con entusiasmo dalla critica internazionale, che lo ha definito “una testimonianza fondamentale sul XXI secolo che abbiamo deciso di non guardare”. Una voce che mancava, e che ora è impossibile ignorare.