Dimenticate le trame rassicuranti e i generi convenzionali: l’estate 2025 ci regala un panorama letterario decisamente fuori dagli schemi. In un momento in cui la narrativa sembra cercare nuove forme per raccontare il presente e le sue ombre, arrivano in libreria titoli che sfidano il senso comune, rielaborano i generi, smontano le certezze. Che si tratti di saggi visionari, romanzi grotteschi, memoir trasformativi o storie letterarie surreali, questi libri sorprendono per audacia, stile e potenza immaginifica. Sono letture che non chiedono solo attenzione, ma complicità: ideali per chi, sotto il sole o nell’ombra, ama sfogliare pagine che bruciano, divertono, disturbano e illuminano.
Libri in uscita da leggere subito: sette romanzi, sette traiettorie imprevedibili
Ognuno di questi titoli è una piccola rivoluzione letteraria, capace di offrire qualcosa di diverso: un punto di vista inedito, un linguaggio che vibra, una storia che resta incollata alla pelle. In un’estate dominata dalle repliche e dai déjà-vu editoriali, queste uscite spiccano per originalità e coraggio. Se state cercando letture che non si dimenticano facilmente, queste pagine eccentriche e profonde sono pronte ad accogliervi. Lasciatevi sorprendere, disorientare, sedurre: la letteratura fuori rotta ha ancora molto da raccontare.
La fame del suo cuori di Antonella Ossorio
“Non ho mai ucciso né donne, né bambini, né uomini giusti. Sono innocente.” Così si apre la confessione, o meglio, il testamento morale, di Alexe Popova, figura oscura e affascinante della Russia zarista, condannata per l’omicidio di oltre trecento uomini.
Ma cosa si nasconde dietro quei numeri, dietro quella voce ferma, quel volto impassibile? È questa la domanda che guida il romanzo di Antonella Ossorio, una delle narrazioni più perturbanti e necessarie degli ultimi anni. Con una scrittura densa e teatrale, Antonella Ossorio ci trascina dentro una delle storie di cronaca più clamorose dell’inizio del Novecento.
Ma Ossorio non si limita a raccontare i fatti. Li interroga, li smonta, li fa brillare alla luce cruda della coscienza femminile. Ciò che emerge è il ritratto di una donna fuori dal tempo, fuori dalla morale comune, sospesa tra mito e verità storica, tra giustizia privata e follia. Alexe Popova non chiede perdono. Rivendica.
Rivendica le sue scelte, i suoi delitti, ma soprattutto la necessità di averli compiuti per liberare altre donne da un destino simile al suo. È stata una sterminatrice o un’eroina tragica? Un mostro o una martire del patriarcato? Il romanzo non offre risposte facili, e proprio in questo sta la sua forza.
Ci costringe a guardare l’orrore da dentro, dal punto di vista di chi lo ha vissuto e, forse, anche agito per amore. Attraverso una narrazione a tratti febbrile, a tratti lirica, Antonella Ossorio costruisce una fiction documentaria intensa e disturbante, in cui si intrecciano storia, giustizia, maternità simbolica e dolore sommerso.
Alexe non è una figura da assolvere o da condannare: è una ferita che brucia ancora oggi, una voce che si alza dalle nebbie del Volga per ricordarci quanto poco siamo disposti ad ascoltare la furia delle donne.
Un romanzo che lacera e interroga , dove il mostro è sempre il frutto di un mondo che crea mostri. Dove la violenza non è spettacolarizzata, ma attraversata come un labirinto morale. E dove il sangue non è solo quello versato, ma anche quello che ribolle sotto la pelle di chi ha subito troppo e troppo a lungo.
Claudia Lux firma un debutto letterario audace, irriverente e sorprendentemente profondo. Firma qui è un fantasy contemporaneo che mischia la satira sociale con l’urban fantasy, il gotico aziendale con l’assurdo esistenziale.
Il risultato è un romanzo che si legge d’un fiato e lascia un brivido di piacere, certo, ma anche di inquietudine sottile. Il protagonista, Peyote Trip , è un demone. O quasi. Lavora all’Inferno, più precisamente, al Reparto Acquisizioni, Quinto Piano, da oltre un millennio. È bravo nel suo mestiere: convincere gli umani a firmare contratti infernali in cambio di “piccoli” desideri terreni.
Ma ha anche un piano. Ha trovato una scappatoia, un modo per uscire dall’Inferno. Gli manca solo una cosa: l’ultima firma. L’ambientazione è una delle prime meraviglie di questo romanzo.
L’Inferno non è fatto di catene e torture, ma di scartoffie, macchinette del caffè rotte e riunioni eterne . È una burocrazia tossica, impersonale e crudele, che ha il sadismo delle multinazionali e l’ironia dell’impotenza quotidiana.
Pey e la sua collega Calamity , brillante, caotica e ambigua, navigano questo mondo grigio come due impiegati al collasso psichico. Solo che al posto dei benefit aziendali ci sono penne che smettono di scrivere e scrivanie che inghiottono l’anima. La narrazione si sposta poi sulla Terra, in una villa borghese in riva al lago, dove la famiglia Harrison si rifugia per le vacanze. Ricchi, rispettabili, eppure profondamente guasti.
Qui, Claudia Lux orchestra un dramma familiare teso e raffinato , che gradualmente si tinge di inquietudine. Le dinamiche tra genitori e figli, tra sorelle, tra amici, e tra Ruth, l’amica “precocemente sveglia” della giovane Mickey, sono piene di tensione, sottintesi e fratture invisibili. L’apparente normalità si sgretola lentamente, e mentre il piano di Pey entra in azione, l’oscurità che serpeggia tra le pareti della villa diventa sempre più reale.
La domanda non è più “chi firmerà?”, ma “quanto male è già stato fatto?” Claudia Lux scrive con un tono che ricorda Neil Gaiman, Christopher Moore e Ottessa Moshfegh . È tagliente, divertente, ma anche profondamente empatica. Riesce a dare spessore anche ai personaggi minori, a farci ridere in una riga e riflettere nella successiva.
Il personaggio di Pey, con il suo sarcasmo da millennial eterno e il suo desiderio fragile di redenzione, è straordinario: un antieroe che si ama nonostante tutto. La costruzione narrativa è doppia e ben intrecciata: l’Inferno come ufficio grigio e la Terra come casa da cartolina con cadaveri nell’armadio.
Entrambi i mondi si contaminano, si specchiano e si contraddicono. U n fantasy diverso, brillante, che non ha bisogno di spade o draghi per essere epico. Racconta l’inferno che conosciamo tutti: quello del lavoro alienante, delle maschere sociali, delle famiglie che non si ascoltano mai davvero.
Un libro su libero arbitrio, compromessi e redenzione , con il guizzo di un grande romanzo noir esistenziale travestito da commedia demoniaca. Pey e Calamity sono la coppia diabolica più riuscita dai tempi di Crowley e Aziraphale.
Claudia Lux ha lavorato come assistente sociale in ospedali psichiatrici: la sua conoscenza del disagio umano e delle micro-dinamiche familiari è evidente in ogni riga.
L’Inferno del romanzo ha regole precise, orari, badge, gerarchie. Un’idea che strizza l’occhio alla burocrazia infernale del Kafka più grottesco. Il libro è perfetto per chi ha amato Good Omens, The Midnight Library o Il maestro e Margherita ma desidera un approccio più caustico e pop.
Il titolo Firma qui è tanto ironico quanto inquietante: ogni contratto ha conseguenze, anche quando non si legge tutto il testo in piccolo. Firma qui è una commedia nera, un fantasy burocratico e una tragedia familiare tutti mescolati in un cocktail infernale dal retrogusto amarissimo.
Claudia Lux costruisce un microcosmo perfetto in cui nulla è come sembra, né le famiglie perfette, né l’Inferno, né i desideri umani. Un libro che si firma con il sorriso, ma si legge con la consapevolezza di avere venduto qualcosa. E forse è proprio questo il punto.
La bestia che cercate di Stefano Tofani
Un colpo di pistola spezza la pace della provincia. Ma è il silenzio, più del rumore, a raccontarci la verità. Siamo a Cuzzole , immaginaria cittadina toscana dove “non succede mai niente”, almeno finché una maestra viene uccisa nel cortile della scuola durante la ricreazione, sotto gli occhi invisibili di un intero paese.
Da quel momento inizia un’indagine che non è solo giudiziaria ma sociale, intima, quasi antropologica. Stefano Tofani mette in scena un noir che si traveste da commedia di costume per poi spogliarsi, con feroce ironia, e mostrare le brutture e le ipocrisie di una comunità “normale”. La maestra Sonia sembra un personaggio irreprensibile. Moglie, madre, docente: nessun mistero, nessuna zona d’ombra. Eppure, come nei migliori gialli, nessuno è davvero innocente, solo bravo a sembrare tale.
I sospetti cadono presto su tutti quelli che la circondano: il marito taciturno, il figlio introverso, la suocera troppo presente, i colleghi ambigui. E in mezzo a tutto, una giarrettiera nera abbandonata nel cortile e un tizio con l’eskimo che sembra uscito da un film di Kaurismäki.
L’omicidio scuote la sonnacchiosa routine di Cuzzole e la trasforma in una mappa di piccoli segreti e grandi rimozioni. Le chat di paese ribollono, le bugie si mescolano ai pettegolezzi, e gli inquirenti, il brigadiere Caso e l’appuntato Pozzessere, si muovono a tentoni tra piste improbabili, intuizioni bizzarre e continui depistaggi emotivi. Tofani scrive con ironia misurata e malinconia feroce.
Il tono del romanzo è scorrevole, quasi leggero in superficie, ma capace di scavare nel profondo. La lingua è limpida, densa di espressioni quotidiane, evocativa nella sua semplicità, ma con guizzi improvvisi che sorprendono.
La Toscana di La bestia che cercate non è quella da cartolina, ma quella dei campetti da calcetto, dei segreti sepolti, dei paesi che sanno tutto di tutti ma non vedono mai niente.
Il titolo è emblematico: la “bestia” non è solo il colpevole da trovare, ma il lato oscuro che ognuno di noi nasconde sotto la superficie del perbenismo. La bestia che cercate è un giallo “in minore”, nel senso più nobile del termine.
Niente detective sopra le righe, niente serial killer da copertina. Solo un piccolo paese e la sua lenta, ossessiva digestione di un trauma. I personaggi non sono caricature, ma ritratti affettuosi e spietati di chi vive nella provincia italiana di oggi, dove ogni tragedia personale finisce per diventare una faccenda collettiva, da risolvere tra la messa, il calcetto e le chiacchiere al bar.
Il brigadiere Caso e l’appuntato Pozzessere sono tra le coppie investigative più umane e credibili del noir italiano recente: non eroi, ma uomini perplessi, goffi, reali.
Cuzzole non esiste, ma è uno specchio perfetto di tante cittadine italiane dove ogni finestra è una telecamera e ogni pettegolezzo è un atto d’accusa. Perfetto per chi ha amato Il commissario Bordelli di Marco Vichi, Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte , o i noir popolari con sfumature esistenziali.
Il tono oscillante tra ironia e dolore fa pensare alla commedia all’italiana con un corpo nel mezzo : un po’ Monicelli, un po’ Camilleri, con una punta di Andrea Vitali.
La bestia che cercate è un piccolo gioiello del noir italiano contemporaneo. Tofani confeziona una storia di provincia dalla suspense crescente , ma anche una riflessione sottile e amara sulla collettività, sulle maschere che portiamo e sulla violenza nascosta dietro l’apparente normalità. Un giallo umano, empatico, che fa sorridere mentre ci mostra quanto sia facile trasformarsi in mostri… quando nessuno guarda.
La radice del male di Adam Rapp
Elmira, stato di New York. Estate 1951. Una ragazzina di tredici anni, Myra Larkin, sale su un’auto. Al volante c’è un giovane affascinante che dice di essere Mickey Mantle, il futuro campione degli Yankees.
Il sogno americano è lì, in quel sorriso luminoso, nella velocità dell’auto, nella promessa di un’avventura. Ma poche ore dopo, i vicini di casa di Myra vengono brutalmente assassinati.
Quel volto amato, idealizzato, diventa un sospetto. La realtà si spezza. E l’infanzia finisce. Da questo incipit folgorante si dipana una delle storie familiari più disturbanti e struggenti che il panorama letterario statunitense abbia offerto negli ultimi anni.
La radice del male non è solo un noir, non è solo un romanzo familiare: è una dissezione emotiva del trauma, della colpa e del silenzio, condotta con uno stile teso, psicologico e feroce.
Adam Rapp, drammaturgo, scrittore, sceneggiatore, costruisce una narrazione che avanza come un’infiltrazione in una casa crepata, insinuandosi nelle vite dei Larkin per mostrarci ciò che si finge di non vedere: l’ombra lunga della violenza domestica, le ferite dell’infanzia mai sanate, i tabù che stringono le famiglie come corde.
Myra diventa madre da giovane, e cresce da sola il figlio Ronan, cercando di non replicare gli stessi errori, di proteggere almeno lui da quel passato che ha marchiato a fuoco ogni membro della sua famiglia.
Le sorelle Lexy e Fiona hanno preso strade diverse, una verso il successo, l’altra verso il fallimento artistico, ma entrambe portano addosso l’impronta della madre, Ava: una donna glaciale, intransigente, devota solo alla propria maschera cattolica. E poi c’è Alec, figura spezzata e sfuggente, forse il personaggio più tragico del romanzo: l’unico maschio della famiglia, ma anche il più vulnerabile, segnato da abusi mai confessati e da una rabbia muta che lo corrode.
Il male, ci suggerisce Rapp, non arriva dall’esterno come un mostro sconosciuto: è già lì, dentro casa. Vive tra le foto appese, tra le risate di circostanza, nei pranzi della domenica. Si trasmette come una malattia, in silenzi, in omissioni, in carezze mancate.
L’autore gioca magistralmente con la cronologia: il romanzo si muove tra passato e presente, alternando voci e prospettive. Il punto di vista di Ronan, ancora bambino, si intreccia a quello adulto di Myra, che osserva con lucidità e dolore i destini dei suoi fratelli, i propri tentativi di salvarli, e le occasioni perdute.
Quando Ava inizia a ricevere cartoline anonime, messaggi inquietanti che sembrano preannunciare una vendetta o forse una confessione, il romanzo vira verso il thriller psicologico, ma non abbandona mai la sua struttura intima.
Non è il mistero a dominare, ma le sue conseguenze emotive. La radice del male è un libro cupo, ma non senza speranza. È un romanzo che mostra la possibilità di resistere, di rompere i cicli, di scegliere la luce.
Ma non edulcora mai il dolore. Non salva tutti. Alcuni personaggi si perdono, altri fuggono, altri ancora restano a combattere contro le eredità che non hanno chiesto ma che si sono ritrovati sulle spalle.
E nel farlo, Adam Rapp ci consegna una delle rappresentazioni più oneste e brutali della famiglia americana contemporanea. U na radiografia letteraria del trauma familiare , con scrittura precisa, empatica e mai retorica, riesce a essere romanzo di formazione, thriller e saga famigliare senza mai perdere coerenza o ritmo.Uno di quei libri che restano addosso : ti fanno rileggere il concetto di bene, di male, e di cosa davvero voglia dire amare qualcuno.
Adam Rapp è stato finalista al Premio Pulitzer per la drammaturgia , ed è autore della sceneggiatura di serie TV come The Looming Tower e Dexter: New Blood.
La radice del male è stato tra i libri più discussi dalla critica americana per la sua potenza narrativa e il modo spietato con cui scava nella psicologia familiare. La copertina NNEditore, come sempre, è un piccolo manifesto narrativo: l’immagine retro anni ’50 si spezza sotto il logo, come la patina di perfezione della famiglia Larkin.
Tommaso (Rossi) in Giappone: Tokyo in treno
Cosa succede quando un appassionato di cultura giapponese, da anni residente a Tokyo, decide di raccontare la città non da turista ma da pendolare? Succede Tokyo in treno, il nuovo libro di Tommaso Rossi , conosciuto sul web come “Tommaso in Giappone”, che ci accompagna lungo la linea Yamanote, una delle arterie ferroviarie più famose e simboliche del mondo, per offrirci una guida narrativa, visiva e affettiva di una metropoli in continua trasformazione.
Ma attenzione: chiamarla guida sarebbe riduttivo. Tokyo in treno è un memoir urbano , un diario di viaggio circolare (proprio come il tracciato della Yamanote), che si muove tra i grattacieli di Shinjuku e le atmosfere retrò di Sugamo, tra le boutique avveniristiche di Harajuku e i sobborghi quieti attraversati da fili elettrici che disegnano il cielo.
Tommaso Rossi sceglie il treno non solo come mezzo fisico di spostamento, ma come dispositivo narrativo: ogni fermata è una storia, ogni quartiere un microcosmo.
E così, pagina dopo pagina, incontriamo i mille volti di Tokyo: quello pop di Akihabara, tra manga e idol; quello sacro di Ueno, tra templi e musei; quello romantico di Ebisu e quello sfavillante di Shibuya. A ogni tappa, l’autore condivide aneddoti personali, dritte pratiche, curiosità gastronomiche e osservazioni culturali, riuscendo nell’impresa di rivolgersi sia ai neofiti del Giappone sia agli appassionati di lunga data.
Chi non è mai stato a Tokyo lo sentirà come una mappa emozionale, mentre chi ci è già stato potrà ritrovare luoghi noti illuminati da una nuova luce. La forza del libro è proprio questa: Tommaso scrive come uno che ci vive, ma con lo sguardo incantato di chi ancora si sorprende.
Racconta gli odori delle stazioni, le abitudini dei salaryman, il contrasto fra l’antico e il futuristico, i mercatini di quartiere e le architetture progettate da nomi internazionali.
Ma sa anche mostrare il lato più autentico della città, quello che sfugge alle narrazioni da brochure: le periferie silenziose, i vicoli con i ristorantini a conduzione familiare, le serate di karaoke ubriaco e le riflessioni solitarie tra una corsa e l’altra.
“Tokyo in treno” è un viaggio a binario unico, dove le emozioni scorrono come il paesaggio dai finestrini. Non mancano riflessioni più intime: sul concetto di casa, sull’identità, sull’essere stranieri in un paese dalle regole rigide ma anche dalle infinite possibilità.
Rossi non ha paura di raccontare anche le contraddizioni del Giappone , ma lo fa sempre con rispetto, passione e spirito critico. Il suo sguardo è curioso, ironico, affettuoso.
Il libro si legge con piacere, anche grazie a uno stile accessibile ma mai banale, ricco di ritmo e immagini. Ogni capitolo è strutturato attorno a una fermata, e l’impaginazione colorata e chiara ne facilita la consultazione.
Che si voglia usare come guida di viaggio o come lettura da divano, “Tokyo in treno” funziona perfettamente.
Tokyo è più di una città: è un’esperienza, e questo libro te la fa vivere con i piedi ben piantati sul marciapiede della stazione. Il libro unisce concretezza e poesia, informazione e racconto, curiosità pop e dettagli urbanistici. È scritto da chi ci vive e ci respira ogni giorno, ma con la voglia di condividere, non di insegnare.
Tokyo scorre una ferrovia e dentro quella ferrovia scorre una narrazione. La linea Yamanote è una delle più affollate al mondo: ogni giorno, milioni di persone la usano per spostarsi tra i 29 quartieri collegati.
Tommaso Rossi è il creatore di uno dei profili social più seguiti sul Giappone in Italia, e da anni racconta con video e post il suo quotidiano nipponico.
La copertina del libro richiama graficamente una mappa ferroviaria, e l’interno contiene sezioni grafiche, illustrazioni e icone per orientarsi in modo pratico. Tokyo in treno è un libro da portare nello zaino, da sfogliare in viaggio o da rileggere sul divano, magari mentre si sogna la prossima avventura.
È un omaggio a una città che non si può comprendere in una visita, ma che si può amare in ogni sua fermata.
We could be so good di Cat Sebastian
In un’America che ancora vive sotto l’ombra del maccartismo e del conformismo, We Could Be So Good ci regala una storia d’amore dolce, malinconica e luminosa come un’alba a Brooklyn.
Cat Sebastian, autrice queer amatissima per i suoi romanzi storici e le sue coppie fuori dal tempo, torna con un romanzo che è al tempo stesso una lettera d’amore al giornalismo, agli anni Cinquanta e alla possibilità di scegliere se stessi.
La storia si apre nella redazione del Chronicle di New York, dove Nick Russo, giornalista pragmatico e ostinato, cresciuto nei quartieri duri di Brooklyn, si ritrova suo malgrado a fare da guida ad Andy Fleming, rampollo viziato di un impero editoriale, spedito in redazione dal padre per “imparare il mestiere”.
L’incontro tra i due è, all’inizio, un urto tra mondi: uno scrive di notte e con le mani sporche d’inchiostro, l’altro è abituato a essere servito e protetto. Eppure, qualcosa scatta. Un sentimento sottile, tenero, impossibile da ignorare. Ma siamo nell’America del dopoguerra, e l’omosessualità è un segreto da nascondere sotto più strati della giacca e cravatta.
La redazione è un campo minato di sguardi, sospetti, tensioni sociali. Eppure, tra una riga battuta a macchina e un caffè rubato all’alba, Andy e Nick si trovano sempre più vicini.
Quella che comincia come una complicità nasce presto come una protezione reciproca, poi come una casa. Una casa che però, per esistere davvero, ha bisogno di verità, coraggio e soprattutto scelte dolorose ma necessarie.
Sebastian non scrive solo una storia d’amore. Scrive un romanzo politico nel senso più umano del termine . Il lavoro redazionale diventa specchio di una società che cambia lentamente, i ruoli di potere si intrecciano a dinamiche familiari e professionali, e le barriere sociali, tra classi, generi, desideri, diventano veri protagonisti invisibili.
Andy non ha mai lavorato un giorno in vita sua, ma è più fragile di quanto sembri. Nick è tutto nervi e silenzi, ma è anche profondamente leale, protettivo, affamato d’amore.
Cat Sebastian riesce nell’impresa di creare una tensione affettiva e narrativa senza cedere al melodramma, ma costruendo passo dopo passo un’intimità fatta di piccoli gesti: una sigaretta condivisa, un giornale lasciato sulla scrivania, una passeggiata in silenzio lungo l’East River.
È un amore lento, fatto di rinunce e di battaglie interiori, che ci ricorda quanto sia stato difficile, e per molti ancora lo è, essere se stessi senza nascondersi.
Il romanzo è narrato con uno stile pulito, evocativo, che sa essere ironico senza mai diventare cinico, malinconico senza mai indulgere nella disperazione. L’ambientazione, la New York anni ’50, è viva, credibile, immersiva : sembra di sentire il ronzio delle rotative, l’odore dell’asfalto bagnato, le voci nelle redazioni dove le notizie si rincorrono più veloci del tempo.
La traduzione di Giulia Zuddas è attenta, scorrevole, fedele al tono tenero e tagliente dell’originale. U na storia d’amore tra uomini che non si basa sul trauma, ma sul desiderio di costruire qualcosa insieme.
Il libro estituisce con grazia e precisione un’epoca storica ancora poco raccontata in chiave queer.
Cat Sebastian scrive personaggi vulnerabili, complessi, mai idealizzati ma sempre profondamente vivi. Racconta anche l’amicizia, la cura, il diritto alla felicità senza sensazionalismi.
L’autrice ha dichiarato di aver preso ispirazione dalle coppie segrete del mondo dello spettacolo e della stampa anni ’40-’50, come Cary Grant e Randolph Scott. Il romanzo è anche un omaggio al film His Girl Friday e alla commedia screwball, con dialoghi brillanti e atmosfere retrò.
We Could Be So Good non è solo un romanzo romantico. È una dichiarazione d’amore verso chi ha dovuto nascondersi per vivere, verso la possibilità di riscrivere la storia a partire da dentro, verso quei piccoli atti di coraggio che cambiano le vite. Cat Sebastian ci regala una storia intensa, elegante e necessaria. E ci ricorda, con dolce fermezza, che l’amore è un lavoro quotidiano, ma è anche il miglior titolo a cui si possa aspirare.
Long Live evil di Sarah Rees Breennan
C’è un piacere colpevole, ma neanche troppo colpevole, nell’affezionarsi ai villain. I loro mantelli neri, i piani machiavellici, il sarcasmo pungente, la determinazione incrollabile.
In Long Live Evil, Sarah Rees Brennan ci invita a smettere di fare il tifo da bordo campo e a scendere direttamente nell’arena, nei panni della regina malvagia. Il risultato? Un fantasy metanarrativo, esilarante, spietato, queer e profondamente liberatorio.
La protagonista, Rae , è una donna stanca della sua vita reale, delusa, sconfitta e sola, ma ancora visceralmente legata a una cosa: i suoi amati libri. Quando si presenta l’occasione, un patto magico, di quelli che sembrano usciti da una fanfiction oscura, Rae accetta senza indugio.
Si risveglia così dentro la sua saga fantasy preferita , in un corpo nuovo, in un castello sospeso su un abisso, in mezzo a mostri, battaglie e intrighi. Ma non è l’eroina. È la villain.
Quella che, di solito, finisce morta, esiliata o tradita. Rae capisce subito che l’unica via per sopravvivere, e magari vincere, è cambiare le regole del gioco. Riunisce i “cattivi” della storia , quelli condannati da sempre a essere carne da macello per far brillare gli eroi, e li trasforma in un esercito di outsider, un’armata del riscatto.
Maghi vendicativi, creature emarginate, streghe decadute: Brennan li rende vivi, divertenti, tragici e imprevisti. Questa non è solo una rivincita narrativa, ma una riflessione tagliente su chi decide cosa è bene e cosa è male.
Rae non è buona, ma non è nemmeno crudele. È una donna che ha sofferto, che sa cosa vuol dire essere giudicata, esclusa, respinta. È ironica, impulsiva, teatrale, una Regina Malvagia con l’autoconsapevolezza di chi ha letto troppi tropi per crederci davvero.
Sarah Rees Brennan scrive con uno stile brillante, moderno, irriverente , perfetto per chi ama The School for Good and Evil , Nimona o Once Upon a Time . Il linguaggio è pop e letterario insieme, disseminato di riferimenti meta, battute memorabili, riflessioni sulla narrativa e sulla scrittura dei personaggi femminili.
Non mancano momenti di pathos e di emozione autentica, che rendono Rae e i suoi comprimari più che semplici caricature. C’è dolore, c’è desiderio, c’è fame di giustizia . Ma anche voglia di sangue, potere e un bel vestito nero con lo strascico.
Il libro capovolge il classico schema dell’eroina prescelta e lo trasforma in una parata gotica di outsider determinati a non morire mai più come carne da tropo. U no dei pochi fantasy recenti che mette al centro la cattiveria come forma di sopravvivenza e autodeterminazione , senza edulcorarla.
Il libro è diivertente da morire, a tratti commovente, e pieno di frasi da sottolineare con l’evidenziatore viola glitter. Rae è l’anti-Bella Swan che aspettavamo, e la sua banda di malvagi potrebbe tranquillamente diventare una serie Netflix cult. Sarah Rees Brennan è nota per i suoi romanzi YA gotici e per aver collaborato con Cassandra Clare nella saga di Shadowhunters. Il libro è un inno ai lettori “nerd da divano” che hanno sempre immaginato di vivere dentro le proprie saghe fantasy preferite.
La protagonista rilegge i ruoli classici del fantasy: “eroe” non è sempre sinonimo di “giusto” e “cattivo” non è sempre sinonimo di “sbagliato” .
Long Live Evil è una dichiarazione d’amore ai lettori queer, dark, outsider e sarcastici . Una storia sulla riscrittura dei ruoli, sull’ironia come arma e sulla vendetta come forma di cura. Sarah Rees Brennan ci ricorda che non sempre dobbiamo salvare il mondo: a volte basta prendercene una parte e farla nostra, con il rossetto sbavato e un trono di spine.