L’estate non è solo mare, gelati e lunghi tramonti: è anche il momento perfetto per leggere. Quando le giornate rallentano e il caldo impone una tregua, i libri diventano rifugi, avventure, specchi e fessure sul mondo.
Che siate lettori voraci sotto l’ombrellone o esploratori di storie serali al fresco, questa selezione è pensata per voi: romanzi che sorprendono, commuovono, fanno ridere, tremare o riflettere.
Tra distopie poetiche e noir psicologici, vite marginali e fantasie supereroistiche, vi portiamo in un viaggio tra fantasy queer, satire sociali, romanzi storici e cronache femministe, per dimostrarvi che anche d’estate la letteratura sa essere rivoluzionaria, tenera, scomoda o ironica. Non resta che scegliere da dove iniziare.
7 Libri da leggere per non rimanerne senza ad Agosto
Ogni estate ha la sua colonna sonora, e la sua pila di libri. In queste pagine si agitano desideri taciuti, giustizie negate, amori impossibili, mondi in fiamme e comunità che resistono.
Ogni storia è una scintilla, ogni voce un invito a guardare le cose da un altro punto di vista. Portateli con voi in valigia o sul comodino, leggeteli ad alta voce o in silenzio, ma soprattutto lasciate che vi trasformino. Perché, lo sappiamo, l’estate perfetta è anche quella in cui un libro vi ha lasciato qualcosa addosso.
“Isabella Nagg e il vaso di basilico” di Oliver Darkshire
Benvenuti a East Grasby, dove la realtà ha una consistenza irregolare, il tempo non obbedisce ai calendari e i defunti sbadigliano nelle tombe come pendolari in ritardo.
In questo villaggio ai margini dell’assurdo, Isabella Nagg e il vaso di basilico di Oliver Darkshire tesse una storia ironica, macabra e teneramente rivoluzionaria. Pubblicato in Italia da Mercurio Books, è un romanzo che rilegge la fiaba con occhio gotico e humour britannico, mescolando negromanzia dilettante, amori in decomposizione e piante che crescono sotto lo sguardo della repressione domestica.
Isabella Nagg è una donna apparentemente insignificante, una figura che sembra cucita addosso al ruolo di casalinga invisibile. Vive con un marito detestabile e passivo-aggressivo, nel più classico dei matrimoni disfunzionali in salsa rurale, fatto di silenzi carichi e gesti sempre uguali.
Eppure, sotto questa routine desolata pulsa qualcosa: un desiderio di emancipazione, una sete di trasformazione che trova radici (letteralmente) in un vaso di basilico.
Quando suo marito ruba un libro di incantesimi da uno stregone locale, Isabella coglie l’occasione per compiere il gesto più sovversivo della sua vita: disobbedire. Non per eroismo, ma per pura, sacrosanta disperazione.
Darkshire costruisce un mondo in cui ogni elemento, dai maggiolini che trainano il sole ai goblin capitalisti, sembra uscito da un incubo felliniano con venature dickensiane. Il tono è quello surreale della fiaba dark, ma con una scrittura moderna, tagliente e insieme malinconica.
Isabella non è l’eroina di un’avventura epica, ma la testimone e l’agente di una rivoluzione intima: quella che nasce nella noia, nella solitudine e nella voglia di smettere di aspettare.
I dialoghi brillano di ironia e il romanzo è disseminato di trovate deliziose e bizzarre: animali parlanti, incantesimi che si inceppano, frutti velenosi e rituali improvvisati con il candore di chi sfoglia un ricettario per la prima volta. Ma è soprattutto la voce narrante, scanzonata e compassionevole, a dare ritmo e profondità a una storia che riflette con leggerezza sul potere invisibile dell’insoddisfazione.
Il vaso di basilico, che rimanda al racconto tragico di Isabella e il vaso di basilico di Keats, qui diventa simbolo di una sopravvivenza che è anche gesto di resistenza.
Isabella, nel silenzio e nella cura, coltiva la possibilità di un altrove. Non importa quanto piccolo, quanto strano, quanto pericoloso: purché non sia l’eterno ritorno della cena mal cotta e delle parole non dette.
Isabella Nagg e il vaso di basilico è un romanzo che profuma di erbe aromatiche e magia maldestra, ma sotto la superficie umoristica vibra una riflessione acuta sul genere, sulla solitudine e sulla possibilità di reinventarsi. Una fiaba postmoderna che farà sorridere, inquietare e, perché no, anche sperare.
In “Legs”, primo e folgorante capitolo della celebre «trilogia di Albany», William Kennedy non racconta soltanto la vita di Jack “Legs” Diamond, gangster realmente esistito e icona della criminalità americana degli anni ’20, ma mette in scena la creazione stessa del mito.
Pubblicato in Italia da Minimum Fax con l’introduzione di Emiliano Morreale, questo romanzo è molto più di una biografia romanzata: è una discesa nell’ombra della modernità, una meditazione sulla gloria effimera, la violenza come linguaggio sociale e la tragica estetica del fuorilegge.
Jack Diamond è stato davvero tutto: bandito, dandy, seduttore, re della stampa scandalistica e del contrabbando, uomo di spettacolo e di ombre, capace di incantare il pubblico tanto quanto di terrorizzarlo. Ma Kennedy non si accontenta di elencarne le imprese: preferisce inseguirne il fantasma, costruendo un racconto in prima persona che mescola fedeltà storica, ambiguità percettiva e una malinconia avvolgente, quasi da tragedia shakespeariana.
A raccontare la storia non è Diamond, ma Marcus Gorman, il giovane avvocato che lo accompagna nella sua ascesa e ne diventa in parte complice, in parte spettatore attonito. Questa scelta narrativa è fondamentale: attraverso gli occhi di Marcus, incantati, esitanti, spesso sedotti ma sempre più consapevoli, il lettore assiste alla costruzione e alla disgregazione di un’icona, di un eroe criminale che pare sapere di essere protagonista di una storia più grande di sé.
È il gangster che si guarda allo specchio e si vede già nella leggenda. Il linguaggio di Kennedy è essenziale ma lirico, infuso di un realismo sporco che non rinuncia a momenti di profondità filosofica. Ogni dialogo è calibrato come una danza tra i vivi e i morti, tra ciò che è accaduto davvero e ciò che avrebbe potuto accadere.
La prosa scorre come il whisky nei bar clandestini in cui Legs si muove con passo felino: densa, tagliente, spesso torbida, ma sempre affascinante. Alice, la moglie fedele e silenziosa, e Kiki, l’amante folgorante, non sono solo figure sentimentali: incarnano due volti dell’America stessa, quella che sogna la famiglia e quella che brucia di desiderio e spettacolo.
Entrambe, come lo stesso Legs, sembrano consapevoli di far parte di una messinscena che ha il sapore della tragedia annunciata. C’è, in Legs, una tensione continua tra la verità e la sua narrazione, tra ciò che Jack è stato e ciò che si dice di lui, tra l’uomo e il mito. Kennedy è maestro nel tenere il lettore sospeso tra questi due poli, costruendo un affresco in cui la violenza non è solo un fatto, ma un codice culturale, un’estetica, un destino.
Il romanzo non cerca mai di redimere il suo protagonista, ma nemmeno di condannarlo: lo osserva nella sua gloria effimera, nella sua vanità infantile, nella sua rabbia, nella sua fame insaziabile di essere qualcuno. Forse, di essere eterno. Quando infine giunge la morte, Kennedy la racconta con una freddezza quasi sovrumana.
Legs muore così come ha vissuto: in modo spettacolare, assurdo, al centro della scena. E tuttavia, resta inafferrabile. Il romanzo si chiude come si era aperto: con un’eco di leggenda, un volto sfocato tra i fumi dell’alcol e della polvere da sparo.
“Legs” è un romanzo che non si limita a narrare una vita criminale: ne esplora il fascino perverso, la retorica mitologica, la tragica umanità. William Kennedy ha scritto un libro che brucia di realismo e insieme di nostalgia per un’epoca in cui anche il crimine sapeva raccontarsi come fosse letteratura. È la storia di un uomo che non ha mai voluto essere dimenticato, e che forse, proprio per questo, non potrà mai davvero morire.
“Sono il re del castello” di Susan Hill
In “Sono il re del castello”, Susan Hill ci conduce tra le mura imponenti e opprimenti di Warings, una magione vittoriana che sembra custodire nei suoi corridoi la memoria di ogni dolore.
La dimora, ereditata da Joseph Hooper dopo la morte del padre entomologo, diventa teatro di una vicenda tanto silenziosa quanto devastante: l’arrivo di Helena Kingshaw come governante, insieme al figlio undicenne Charles, dovrebbe rappresentare un nuovo inizio.
Ma non sempre le aspettative degli adulti trovano riscontro nella realtà. Edmund Hooper, il figlio di Joseph, accoglie il nuovo arrivato con ostilità e violenza passiva: «Non volevo che venissi qui», recita il biglietto che lascia a Charles, una frase che suona come una condanna.
È l’inizio di una lenta e spietata campagna di persecuzione, una guerra psicologica che trasforma il quotidiano in un campo minato. Edmund, sicuro della propria posizione di “padrone di casa”, esercita su Charles un potere corrosivo, fatto di minacce sottili, atti intimidatori e una continua negazione di ogni possibile rifugio emotivo.
Susan Hill esplora con lucidità chirurgica la crudeltà infantile, senza mai banalizzarla o ridurla a un capriccio. Edmund non è semplicemente un “bambino cattivo”, ma il prodotto di un’educazione rigida, di un ambiente familiare freddo e distante, che lascia spazio alla nascita di dinamiche predatorie.
Charles, dal canto suo, è una vittima incapace di trovare alleati: né la madre né Joseph Hooper riescono a vedere ciò che accade sotto i loro occhi, troppo presi dalle loro fragilità e ambizioni personali. La forza del romanzo sta nell’atmosfera. Warings è una casa che inghiotte, un luogo fisico e simbolico che amplifica la solitudine dei protagonisti.
Le descrizioni degli interni vittoriani, dei boschi che circondano la tenuta, dei silenzi sospesi sono specchi dell’oppressione che Charles vive ogni giorno. La scrittura di Hill, sobria e penetrante, si concentra sui dettagli: un’ombra che si allunga sul muro, un passo leggero sulle scale, il fruscio delle tende che sembra sussurrare segreti.
Acclamato per la magistrale analisi psicologica, “Sono il re del castello” è un romanzo che parla di infanzia ma non è mai consolatorio. Affronta il tema della sopraffazione come una realtà che germoglia spesso nel silenzio degli adulti, incapaci di riconoscere i segnali.
Edmund Hooper incarna un male privo di spettacolarità, fatto di sottili manipolazioni che finiscono per logorare e annientare la vittima. Incluso nella prestigiosa collana Penguin Decades come una delle opere che hanno plasmato il volto dell’Inghilterra moderna, il libro è oggi considerato un classico del secondo Novecento.
Non solo per il tema che affronta, ma per il modo in cui lo fa: Hill riesce a catturare le dinamiche di potere che spesso sfuggono agli adulti e a mostrare come la crudeltà possa insinuarsi tra le pieghe più ordinarie della vita. Sono il re del castello è un romanzo scomodo, che lascia un segno profondo.
È un viaggio nell’oscurità dell’infanzia, un racconto che non offre riscatto facile ma costringe il lettore a guardare in faccia le proprie paure. Hill ci ricorda che il male non sempre ha bisogno di grandi gesti per manifestarsi: spesso basta un biglietto lasciato sul letto di un bambino per segnare l’inizio di una tragedia.
“Come far incazzare gli uomini” di Kyle Prue
“Come far incazzare gli uomini”: 109 modi per disinnescare la mascolinità tossica con sarcasmo chirurgico è a metà strada tra pamphlet satirico e manuale di autodifesa quotidiana, “Come far incazzare gli uomini” è un libro che fa ridere, riflettere e soprattutto vendica.
Non in senso violento, ma nel senso liberatorio che solo l’ironia può offrire quando si è costrette a navigare ogni giorno tra mansplainer, uomini che “ti interrompo solo un attimo” e colleghi convinti di essere nati per spiegarti la tua stessa esperienza.
Tradotto da Edoardo Zaggia e Alberto Sacco, due penne affilate della comicità contemporanea (note per il progetto “Inchiostro di Puglia” e varie collaborazioni satiriche), il libro raccoglie 109 “massime comiche”, ma sarebbe meglio dire armi contundenti travestite da battute, pronte all’uso contro ogni variazione del maschio medio inopportuno.
Non solo: è anche un piccolo esercizio di potere, una forma di vendetta intellettuale contro le microaggressioni quotidiane che le donne (e non solo) sono costrette a subire.
Il bersaglio? Chiunque abbia mai avuto l’ardire di spiegarti il tuo lavoro senza che tu glielo abbia chiesto. Chi ha indossato la maglia del suo calciatore preferito con la serietà di un prete in processione.
Chi ha avuto il coraggio di monopolizzare la conversazione a una cena parlando di Fantacalcio, blockchain o il suo viaggio in Giappone come se fosse l’unico ad averlo scoperto.
Le frasi proposte non sono solo battute: sono strategie di sopravvivenza, colpi di fioretto, provocazioni brillanti che smontano l’autorità maschile con una leggerezza che non lascia scampo. Prendiamo ad esempio una delle più riuscite: «Mi piace come ti vesti: sembri un cosplayer del calcetto del lunedì.» Oppure: «No no, mi fido di Google Maps. È più preciso del tuo istinto.» Con stile affilato e ritmo perfetto, è stato creato un vademecum per ogni occasione di emergenza tossica: dal collega paternalista all’amico del tuo ragazzo che “non è sessista, ma…”.
Ogni battuta è una mina pronta a esplodere sotto l’ego maschile, con il fine non solo di zittire, ma di rivelare l’assurdità e l’arroganza di certe dinamiche ancora troppo normalizzate.
Eppure, dietro il tono scanzonato, il libro ha un’anima profondamente politica. È un testo che rivendica il diritto di dire “basta”, di non ridere per forza alle battute, di smascherare il potere là dove si cela dietro sorrisi ammiccanti e spiegoni non richiesti. E lo fa con il linguaggio più disarmante possibile: quello dell’umorismo intelligente.
Perché a volte la rivoluzione comincia con una frase detta al momento giusto. Perché l’ironia può essere affilata come un bisturi. Perché abbiamo bisogno di più strumenti, e più libri, che ci aiutino a smontare la retorica maschile dominante senza scendere a compromessi.
E perché, ammettiamolo, riderne insieme è molto più liberatorio che restare zitte. Una serata tra amiche con gin tonic e memorie condivise di mansplainer. Un regalo “velenoso” per un addio al nubilato. Tenere il libro in borsa come un talismano da sfoderare in treno, in ufficio o su WhatsApp.
“La Guardiana della notte” di Diamela Eltit
La notte è un tempo sospeso. Uno spazio di soprusi, ma anche di sogni, visioni e veglie. In “La guardiana della notte” , romanzo potente e simbolico della scrittrice cilena Diamela Eltit, la notte diventa teatro di uno scontro tra violenza e memoria, tra potere e comunità, tra cemento e radici.
Pubblicato per la prima volta nel 2022 e ora finalmente tradotto in italiano, questo libro si inserisce nella migliore tradizione della narrativa latinoamericana contemporanea che unisce realismo politico e suggestione poetica. Nel cuore di una comunità operaia minacciata da uno sgombero coatto, la protagonista assoluta non è un essere umano, ma una figura liminale e visionaria: una civetta, guardiana della notte e coscienza collettiva.
È attraverso i suoi occhi: antichi, lucidi, mitologici, che osserviamo lo sradicamento imminente, la preparazione di una “Deportazione” mascherata da speculazione edilizia, e la dignità ostinata degli abitanti che cercano di opporsi.
Quella messa in scena da Eltit non è solo una storia di quartiere. È una radiografia spietata e commovente del Cile post-dittatura , ma anche di ogni luogo in cui la marginalità viene spazzata via in nome del profitto. E in questo senso, il romanzo dialoga con molte realtà contemporanee, dall’America Latina all’Europa gentrificata.
Ogni abitante del quartiere ha una storia, una ferita, un’ombra. Dai lavoratori silenziosi ai giovani inquieti, dai disabili agli anziani che hanno visto tutto, il romanzo costruisce una coralità di voci che si incrociano e si sovrappongono come in una partitura musicale.
Ognuno è protagonista per un frammento, mentre la Civetta, muta e incantatoria, continua a vegliare, presenza totemica in un mondo che sta crollando.
Con il suo stile audace e incandescente, Eltit attraversa generi e registri: lirismo visionario, denuncia sociale, flussi interiori, cronaca nuda.
Ogni frase è densa, stratificata, spesso ambigua. Non concede al lettore vie di fuga: lo costringe a stare dentro, come la comunità, come la Civetta, come chi ha troppo da perdere per andarsene. “La guardiana della notte” non è una lettura semplice, ma è necessaria.
Perché parla di noi, dei nostri quartieri, delle nostre città, e della fragilità delle persone che le abitano. È un romanzo che dà voce a chi non ce l’ha, che chiama per nome l’ingiustizia, e che soprattutto ci ricorda che la resistenza non sempre ha il volto dell’eroe, ma spesso quello dell’animale notturno, del corpo fragile, della parola collettiva. Leggetelo la sera, magari in silenzio, mentre fuori tutto dorme e il mondo sembra distratto. È proprio allora che la Guardiana arriva, e ci insegna ad ascoltare.
“Ragazze Morte” di Selva Almada
Ci sono libri che non si leggono per piacere, ma per dovere etico. Libri che ti prendono per la nuca e ti costringono a guardare ciò che spesso la società evita, rimuove, anestetizza.
“Ragazze Morte” di Selva Almada, ora tradotto anche in italiano da Polidoro, è uno di quei libri.
Tre nomi: María Luisa Quevedo, Sarita Mundín, Andrea Danne. Tre giovani donne argentine, brutalmente uccise tra la fine degli anni Ottanta e i primi Novanta.
Tre casi rimasti senza colpevoli. Tre vite che, nel tempo, si sarebbero trasformate in una massa indistinta nel rumore bianco della cronaca nera. Ma Selva Almada si rifiuta di lasciarle scivolare nel silenzio. Le riporta a galla, con rispetto, con dolore, con furia. E insieme a loro, riporta a galla una società intera che ha fallito nel proteggere le proprie figlie.
Il romanzo, o meglio: la testimonianza narrativa, non si sviluppa secondo i canoni classici del true crime. Non c’è suspense, né colpi di scena. Almada non rincorre il colpevole, perché il colpevole è dappertutto.
È nella cultura che colpevolizza le vittime, nei tribunali che archiviano, nei villaggi che dimenticano, nei genitori che abbassano lo sguardo. Con una lingua cruda e allo stesso tempo poetica, l’autrice intreccia la propria vita a quella delle tre ragazze, costruendo una sorta di “negativo autobiografico” in cui si osserva da fuori e da dentro.
Cosa succede quando una donna si riconosce nei volti delle uccise? Quando realizza che l’unica differenza tra lei e loro è stata un caso, un orario, un passaggio mancato, una porta chiusa?
“Ragazze Morte” è un libro che brucia. Non solo per il tema, ma per la scelta stilistica: non è reportage, non è fiction, non è memoir, ma qualcosa di ibrido, di feroce, che ricorda Truman Capote in A sangue freddo, o John Hersey in Hiroshima, ma con un’urgenza interiore diversa, da sorella sopravvissuta, da testimone per vocazione, da donna che si assume la responsabilità di raccontare il non detto.
Il testo procede a scatti, con flash di memoria, scorci familiari, dialoghi mozzati e piccoli frammenti lirici che emergono dal fango come pietre lucide.
Non c’è retorica, non c’è autocommiserazione. Solo la verità. Che, detta così com’è, fa molto più male di qualsiasi artificio letterario. In un momento storico in cui i femminicidi sono ancora all’ordine del giorno: in Argentina, come in Italia, come ovunque, “Ragazze Morte” si impone come una lettura civile, una denuncia narrativa, un atto d’amore per chi non può più parlare.
È un libro che andrebbe letto nelle scuole, discusso nei circoli, portato nelle mani di chi pensa che la violenza di genere sia solo un’emergenza passeggera o una questione di cronaca.
Selva Almada ha scritto un libro che non offre consolazione, ma pretende memoria. Che non chiude, ma spalanca. E soprattutto, che chiede una cosa semplice e radicale: guardare in faccia l’orrore e scegliere da che parte stare . “Ho paura per me e per tutte. Paura delle strade, degli uomini, dei silenzi. Ma più di tutto, ho paura dell’oblio.”
“Brucia il paradiso offerto sulle mani” di Pol Guasch
Molti libri sembrano scritti sul margine tra ciò che brucia e ciò che fiorisce, che trattengono la poesia nel momento in cui tutto si disgrega. “Brucia il paradiso offerto sulle mani” di Pol Guasch, pubblicato da Fandango libri, è uno di questi. Un’opera che vibra tra distopia e lirismo, corpo e terra, fuoco e desiderio.
In un mondo devastato da catastrofi ambientali, tra una miniera morente e una foresta che prima affoga e poi arde, si muove Rita, una giovane donna che osserva, vive e sogna dalla Colonia: un luogo fuori dal tempo, forse allegorico, forse tragicamente reale.
Con lei, Líton, l’amico d’infanzia, il complice, il doppio, il testimone. Il romanzo di Guasch è un’intensa educazione sentimentale queer immersa in un contesto post-apocalittico che ricorda La strada di Cormac McCarthy, ma con la grazia e la sensualità della prosa poetica francofona.
Rita cresce, ama, sbaglia, scopre il corpo e il dolore, si lega prima a Fèlix, poi a René, mentre attorno a lei la natura diventa ostile, l’aria si fa tossica e il futuro una rovina già scritta.
Tuttavia, Brucia il paradiso non è un romanzo della rassegnazione. È il racconto, frammentario, onirico, viscerale, di una resistenza emotiva, affettiva, immaginativa.
Rita e Líton non cercano vie di fuga: cercano un modo diverso di abitare il mondo che resta. Lo stile è una delle forze più potenti del romanzo: una lingua che scolpisce immagini come visioni, senza mai cadere nell’astratto. Ogni pagina è una ferita che canta, ogni dialogo è sospeso tra la realtà e il sogno, tra ciò che è stato e ciò che poteva essere.
Il tempo narrativo si spezza e si ricuce, alternando passato e presente, infanzia e maturità, sogno e desolazione. Il lettore è trascinato in un’esperienza sensoriale e malinconica, dove l’identità sessuale, l’amicizia, l’amore e la rabbia si intrecciano alla distruzione del pianeta e delle illusioni collettive.
In un panorama letterario sempre più attento alle tematiche ambientali e all’identità di genere, “Brucia il paradiso offerto sulle mani” è un libro profondamente politico, ma mai didascalico. Non cerca soluzioni facili, non impone slogan: accompagna il lettore nella complessità, nel dubbio, nel desiderio di un altro mondo possibile.
La relazione tra Rita e Líton diventa una forma di cospirazione intima contro l’inevitabilità: contro il collasso del pianeta, contro il fatalismo sociale, contro la morte dei sentimenti. Insieme, questi due giovani resistono non solo per sopravvivere, ma per immaginare ancora.
“Bruciava tutto, la valle, il cielo, le nostre bocche. Ma in quel calore ci promettemmo di non morire da soli.”
“Brucia il paradiso offerto sulle mani” è un piccolo gioiello incandescente, un romanzo di formazione, resistenza e desiderio che attraversa le rovine del nostro presente con una lingua capace di accendere il cuore e interrogare la coscienza.
Una lettura per chi ama la letteratura che osa, che sperimenta, che accarezza il dolore con la stessa mano con cui scrive la speranza.