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”Lettera ad un bambino mai nato”. Interrogarsi sulla Vita sotto il cielo di Copenhagen

Si discorreva amabilmente di letture, sotto il cielo di Copenhagen, sdraiati sull’erba, appena umida, del parco di Bakken. I piedi scalzi, le braccia intrecciate sotto la testa, gli occhi verso l’azzurro...

Si discorreva amabilmente di letture, sotto il cielo di Copenhagen, sdraiati sull’erba, appena umida, del parco di Bakken.
I piedi scalzi, le braccia intrecciate sotto la testa, gli occhi verso l’azzurro intenso del cielo attraversato da nuvole piccole e rade, simili a batuffoli di cipria candida, distrattamente dimenticati sul comò da trucco di una dama.
Ora che l’estate dona un clima dolce come un abbraccio e la brezza ricorda il respiro sulla pelle, nell’attimo che precede un bacio, è bello essere consapevoli di essersi ritrovati, in terra straniera, con amici con cui non ci pare di aver condiviso meri mesi delle nostre vite, ma ci si sente come vecchi compagni di panini alla nutella, cassette di musica da riavvolgere con la bic, leggins chiamati fuseaux.
Ho raccontato che uno dei primi libri che ho letto, fra la seconda e la terza elementare, è stato “Lettera ad un bambino mai nato”, di Oriana Fallaci.
Stupore generale: è un testo forte e drammatico per un lettore di ogni età, come può essere metabolizzato da una bambina?
Ricordo tutto con estrema precisione. Il libro apparteneva a mia madre, ed era stipato nella libreria, privo di sovracopertina, nudo nella sua carta telata color marrone. Evidentemente mia madre lo aveva amato e riletto, fino a lederne l’aspetto esteriore. Era collocato nella zona proibita, quella a cui non dovevo accedere, posto ben in alto, accanto a romanzi, saggi e tomi di medicina.
I ripiani deputati ad ospitare quanto era ritenuto idoneo alla mia educazione letteraria erano posti in basso, e si distinguevano a colpo d’occhio, per i formati più grandi e i colori più accesi dei libri. Ma le sedie non servono solo per accomodarsi ed intraprendere una lettura, ma anche per, eludendo occhi vigili, scalare le montagne del sapere.
Così il libro, sottile e leggero, redatto anni prima che io venissi alla luce, arrivò nelle mie mani. Esercitò su di me un’attrazione magnetica. E’ uno dei pochi di cui ricordo interi brani a memoria.
Si tratta di un monologo sulla vita e sul suo significato, sul darla o meno, ereditando il potere arcano della Dea Madre o delle Parche, con le conseguenze che questo atto responsabile comporta, interrogandosi sulla valenza del nascere come scelta coraggiosa, non come diritto, né come dovere.

L’amo con passione la vita, mi spiego? Sono troppo convinta che la vita sia bella anche quando è brutta, che nascere sia il miracolo dei miracoli, vivere: il regalo dei regali. Anche se si tratta d’un regalo molto complicato, molto faticoso, a volte doloroso”.

Il libro fu scritto nel mezzo di un clima politico molto intenso, in cui ci si interrogava, dibatteva e batteva in merito all’aborto, legalizzato in Italia nel 1978.
Ma io, a sette anni, non sapevo affatto cosa fosse un’interruzione volontaria di gravidanza, e su questo tema, in tale sede, non intendo approfondire.
Con i capelli pettinati in trecce castane, sempre un po’ scomposte, e le mani sporche di pennarelli, immaginavo, dal titolo, che si raccontasse di un bambino ancora in fila per ricevere il dono della vita, come si fa a scuola per la merenda, con le mani vuote in attesa che essa venga consegnata da chi svetta, di almeno 60 cm, sulla massa in grembiule blu.
Ero convinta di leggere in merito ad un possibile fratellino, tutto per me, che sono figlia unica.
Scoprii, invece, che prima di essere partoriti dalle viscere della mamma, conosciamo già l’intimo del suo cuore, le sue gioie, le sue incertezze e le sue paure, e parliamo con lei in un linguaggio segreto, fatto di misteriose vibrazioni. Siamo due delfini, entrambi in quel liquido amniotico, così legati, eppure così distanti, ma capaci di comunicare tramite ultrasuoni. Due in uno.

Mai due estranei legati allo stesso destino furono più estranei di noi. Mai due sconosciuti uniti nello stesso corpo furono più sconosciuti, più lontani di noi”.

E appresi, ancora, che non siamo “vivi” solo a partire dal momento in cui mani estranee ci afferrano e, dopo averci deterso del sangue, ci avvolgono in una soffice copertina e ci consegnano, rossi e rugosi, fra le braccia di chi ci amerà per sempre. Abbiamo già percorso un viaggio e ci trasciniamo una valigia colma di emozioni e conoscenze arcaiche: siamo “vita” nel momento in cui qualcuno ci pensa tali e ci pone domande a cui, solo allora, potremo attingere risposte intrise di assoluto. Solo allora, in quel limbo fra essere e non essere ancora…o non essere mai.

Perché avrei dovuto, mi chiedi, perché avresti dovuto? Ma perché la vita esiste, bambino! Mi passa il freddo a dire che la vita esiste, mi passa il sonno, mi sento io la vita. Guarda s’accende una luce. Si odono voci. Qualcuno corre, grida, si dispera. Ma altrove nascono mille, centomila bambini, e mamme di futuri bambini: la vita non ha bisogno né di te né di me. Tu sei morto. Forse muoio anch’io. Ma non conta. Perché la vita non muore”.

Queste parole, che suggellano l’epilogo del libro della Fallaci, oggi mi commuovono, quasi fino alle lacrime, forse mi lacerano.
Ma, oggi, io sono una Donna, e so cosa vuol dire dare la vita, non solo urlanti e madide di sudore, grazie alle spinte del parto, ma in tutte le molteplici accezioni, e so cosa è il gelo dell’assenza di chi avresti voluto fosse presenza tangibile e invece, disperatamente, non hai potuto strappare alla voragine del nulla.
Ma, all’epoca, pensai che fosse meraviglioso.
La vita non muore, è una cascata in piena, un seme che si dischiude nel nero della terra, un universo infinito di stelle che ci trascende. Mi sentivo in bilico su una vetta talmente alta che percepivo le vertigini. Siamo fatti di infinito, “gocce di vita scappate dal nulla”, ma, senza nemmeno una delle quali, l’oceano non sarebbe lo stesso.

Nessun uomo è un’Isola,
intero in se stesso. [..]
E così non mandare mai a chiedere per chi suona la Campana:
Essa suona per te”.
John Donne

Emma Fenu

14 agosto 2014

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