La scena che mi accingo a descrivervi si verificò poco più di un anno fa, agli esordi del mese di maggio, quando, sotto il cielo di Dubai, per un’italiana come me, fa già molto caldo.
Non ero in vacanza, ma neppure nella fase iniziale di un trasferimento.
Sono partita all’avventura, come un cavaliere indomito che si appresta, munito di sola lancia, a salvare la propria amata dalla prigionia del drago, o come Davide, che armato di un’umile fionda, ha sfidato, con coraggio, il gigante Golia.
Noi tutti conosciamo l’evolversi delle vicende che ho appena citato, che si concludono con la vittoria dell’eroe. Ma la mia storia era ancora da scrivere e non ne potevo immaginare lo svolgimento.
Era, dunque, una sera di afosa primavera emiratina, mentre stavo seduta su una panchina, nel quartiere di Dubai Marina, rapita dallo scenario fantastico e surreale di enormi grattacieli, di fogge e colori diversi, che paiono cresciuti come piante selvatiche, l’uno accanto all’altro senza una geometria precisa, e che si riflettono sulla superficie dell’acqua di un lago artificiale. Acqua nel deserto: ecco il paese dove tutto è possibile.
Indossavo un tubino rosa cipria, avevo le parti di pelle scoperta accuratamente cosparse di crema ad alta protezione solare, inforcavo occhiali con lenti scure, tenendoli leggermente calati sul naso, e stringevo un libro fra le mani: “Emma” di Jane Austen.
Non era un caso che avessi portato con me, dall’Italia, proprio un romanzo che narrava le vicissitudini di una mia omonima, con la quale, però, ho ben poco in comune. Io sono, infatti, a differenza della signorina Woodhouse, una donna votata agli amori romantici, che all’esistenza sicura e prevedibile, preferisce il turbinio delle passioni, e che, dal momento che è solo intimamente e velatamente ottocentesca, si propone di capire la vita senza il filtro redentore di un uomo, sia esso un padre o un marito.
Ho inserito nella mia valigia, diretta verso la mitica Dubai, il romanzo della Austen probabilmente perché sono una creatura complessa che ama la coincidentia oppositorum, il fecondo contrasto fra retaggi ancestrali ed innovazioni tecnologiche, la stimolante osmosi di culture distanti nel tempo e nello spazio, il connubio, a mio avviso vincente e inscindibile, fra fragilità e forza.
E perché, fondamentalmente, mi affascina l’imperscrutabilità degli abissi dell’animo, mio ed altrui, e adoro la cosiddetta ‘commedia degli equivoci’ e la descrizione, condotta con un tocco di sapiente ironia, del processo, inarrestabile, di presa di coscienza dei fatti e della veridicità della vita da parte un essere umano, in questo caso Emma Woodhouse. A tale figura non si può non affezionarsi e benevolmente comprenderne i difetti, nel corso della lettura del libro, in quanto essa è, suo malgrado, figlia ed emblema di una società fondata sull’apparenza, sul narcisismo, sulla presunzione, sulla mancanza di profonda ed intima comunicazione, sull’ostentazione di un comune “buon senso”, ossia, sinteticamente, sul nulla. Ovviamente alcune di queste problematiche non sono pertinenti al solo periodo della Reggenza dell’Inghilterra ottocentesca, non vi pare?
“Così va spesso il mondo … voglio dire così andava nel secolo decimosettimo‘.
Alessandro Manzoni, I Promessi Sposi, Cap. VIII.
Emma Fenu
26 maggio 2014
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