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“L’amuleto”, una storia dove l’antica magia rivive nel presente

Non vivo in Sardegna da anni. Nemmeno in Italia.
Forse un giorno vi farò ritorno, magari con i capelli color di luna e impronte di tele di ragno intorno alle palpebre.
Eppure, ogni volta che, dopo la traversata in volo, poggio il primo piede nell’Isola dove sono nata e cresciuta, me ne sento parte, come se fossi una roccia, un albero, un’onda, un granello di sabbia.
Come se non fossi mai andata via, anzi, come se vi fossi immobile da sempre, da prima di venire alla luce annunciandomi con un vagito, da prima di essere cellule nell’utero materno.
Miei sono i misteri dei nuraghi, mie i ruderi delle costruzioni di epoca romana, bizantina, araba, aragonese. Miei i pozzi sacri, le terme dalle acque guaritrici, le chiese di campagna, i manufatti apotropaici.
Mio il sangue che conserva una storia antica e misteriosa e che mi conduce, in ipnosi, a frugare negli scaffali delle librerie in cerca di trasfusioni di identità, perché sono vampira assetata di tradizione e memoria.

Il mio ultimo acquisto è “L’amuleto”, un romanzo di Claudia Zedda, edito con Condaghes nel 2014. La scrittrice, con uno stile fiabesco ed evocativo, racconta la storia di Virginia, una donna quasi trentenne, residente a Cagliari, che, a seguito della prematura morte della madre, raggiunge il paesino semisconosciuto in cui vivono i nonni. Il lettore si trova proiettato in un luogo fra casette, lande e montagne, dove le giovani indossano abiti alla moda e laccano le unghie e, in alcune zone c’è campo per connessioni internet e telefonate con il cellulare, ma dove il tempo si è fermato, nascondendosi nelle pieghe delle vesti nere delle anziane.
Fra boschi suadenti, abitati da fate e spiriti maligni, fra acque che, sotto il riverbero della luna, mettono in contatto con il pulsare femmineo della terra, Madre ancestrale, la protagonista scoprirà i segreti di famiglia, disseminati dalla mamma morta, come le briciole che gli anziani gettano fuori dal portone per le anime errabonde.
Forse è per essere complici al cospetto di una natura, al contempo benevola e crudele, che gli uomini si salutano tutti, anche senza conoscersi, e che si appellano “zii” anche gli anziani che non sono parenti. Perché tutti siamo in tutto, una cosa sola.
Il romanzo della Zedda inizia con una chiave che apre una cassapanca di legno intarsiato nella quale sembra non esserci nulla di particolare, ad una prima occhiata, ma che, invece, si rivela un pozzo oscuro, denso di risposte a domande mai davvero formulate, che sono destinate a restare racchiuse e protette in quel tempo mitico, come sirene che popolano magici abissi preclusi alle genti.

«Picchiettò contro la parete, quasi per avvertire della propria discesa, per spaventare gli animali che vi avevano trovato alloggio, per domandare il permesso alla Dea Madre e alle sue sacerdotesse che per lunghi secoli avevano custodito quel segreto divino, fatto d’acqua che inumidiva la pietra e fecondava la terra. Non ottenne risposta e discese nel cuore della Terra.
Improvvisamente fu avvolta dalla sacralità del luogo, tutta nascosta dietro quell’assordante silenzio e circondata da quei simboli antichi dal significato nascosto che tatuavano la parete fin nel profondo. Il buio la inghiottì, catartico e purificatore».

Emma Fenu
16 settembre 2015

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