C’è una foresta dove ogni passo è un enigma, dove la realtà vacilla e il tempo si piega su se stesso. Si chiama Vorrh, ed è il cuore pulsante di una trilogia che ha segnato la narrativa fantastica contemporanea con un impatto silenzioso, ma devastante. Lo scrittore e artista britannico Brian Catling, poeta, scultore, performer, ha costruito un mondo che non ha nulla da invidiare a Lovecraft, Borges o Burroughs, ma che li ingloba e li reinventa in un’opera che sfida ogni classificazione.
La trilogia del Vorrh (Vorrh, Gli ancestrali, I divisi), pubblicata in Italia da Safarà Editore, è un labirinto di corpi, memorie, armi e rivelazioni. Ambientata in un’Africa immaginaria, premoderna e metastorica, la saga mescola fantasy, horror metafisico, avventura postcoloniale e mito religioso. È un’opera oscura e straniante, ma anche profondamente letteraria: una sfida per il lettore, che deve abbandonare ogni certezza e accettare di essere inghiottito dalla foresta.
Viaggio nell’incubo visionario di Brian Catling: la trilogia del Vorrh tra sogno, carne e mitologia
Leggere la trilogia del Vorrh è come entrare in un rituale di metamorfosi. Non ne uscirete uguali. Brian Catling non vuole compiacere né rassicurare: vuole disorientare, scuotere, evocare. Il suo è un horror che non ha bisogno di sangue, perché sa che la vera paura è nella perdita del controllo, nella dissoluzione dell’identità, nella consapevolezza che forse siamo noi la foresta.
In un’epoca letteraria sempre più omologata, questa trilogia rappresenta un atto di resistenza immaginativa. Un richiamo a ciò che la letteratura può ancora essere: un territorio inesplorato dove corpo, mito e linguaggio tornano a essere mistero.
Il Vorrh non si legge. Il Vorrh si attraversa.
Nel primo volume, Vorrh, il protagonista è un soldato che ha subito un intervento chirurgico per rimuovere la memoria. Il suo nome è Peter Williams, e con un arco costruito da un albero sacro si inoltra nella foresta. Da lì, tutto si frantuma. Realtà e allucinazione si fondono in un vortice che coinvolge creature artificiali, angeli caduti, città decadenti, bambini eterni, e persino figure reali come Raymond Roussel e Eadweard Muybridge, che appaiono come personaggi all’interno di un affresco surreale.
Nel secondo volume, Gli ancestrali, la foresta e la città di Essenwald diventano protagonisti in senso pieno. I confini dell’orrore si fanno più porosi: Catling lavora su un’epica nera, raccontando le origini della Vorrh, le sue creature ibride e il suo legame con l’origine stessa del linguaggio e della coscienza. È qui che il lettore inizia a intuire che la foresta non è solo un luogo fisico, ma un organismo psichico e collettivo, un dio-mondo, un archivio delle contraddizioni umane.
Infine, I divisi chiude la trilogia con un tono più catastrofico e lirico. La dimensione cosmica si intensifica, le sottotrame si moltiplicano e l’autore inserisce persino riflessioni sull’arte, sul potere della narrazione e sull’immaginazione come forma di resistenza. Nessuna domanda riceve una risposta chiara, eppure tutto converge in una conclusione disturbante e coerente.
La scrittura di Catling è sensoriale, carnale, pittorica. Non si accontenta di raccontare: trasfigura. Le sue frasi sembrano cesellate come sculture, i dialoghi affondano in un’atmosfera che ricorda il teatro della crudeltà di Artaud, la poesia visiva di Blake, l’incubo strutturale di David Lynch. È un fantasy per chi detesta le formule; un horror per chi cerca il sublime più che il terrore.
Brian Catling scrive come se il romanzo fosse una reliquia sacra da disintegrare e ricostruire. La sua trilogia non è semplicemente una storia: è una mitologia creata ex novo, che invita il lettore a perdersi. Le sue creature, come la bambina con la testa trasparente o il corpo vivente di una biblioteca, non sono metafore: sono simboli viventi, impossibili da spiegare senza impoverirli.