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La sicilianità sanguigna e dolente di ieri e di oggi, raccontata dallo scrittore e giornalista Giacomo Pilati

Giacomo Pilati, trapanese, giornalista anche televisivo, scrittore, è autore dei romanzi “Minchia di re” (Mursia, 2004) − dal quale è stato tratto il film “Viola di mare” (regista Donatella Maiorca) − e “Sulla punta del mare”...

Giacomo Pilati, trapanese, giornalista anche televisivo, scrittore, è autore dei romanzi “Minchia di re” (Mursia, 2004) − dal quale è stato tratto il film “Viola di mare” (regista Donatella Maiorca) − e “Sulla punta del mare” (Mursia, 2012) e di numerose altre opere. La sua fatica più recente è ‘In Sicilia rewind’ (Telesud – Editrice Il Sole, 2014), un cofanetto composto da cinque dvd che ripropongono alcune testimonianze di protagonisti della storia siciliana del Novecento.

 

La versatilità è una dote che apprezzo moltissimo. Quando l’autore che intervisto ha spaziato nei campi più disparati mi piace andare in cerca del comune denominatore delle varie espressioni della sua creatività. In Giacomo Pilati è evidente l’attaccamento alle radici isolane: non solo perché i due romanzi che ha scritto sono ambientati in Sicilia, ma anche perché si è occupato di cucina trapanese e delle isole, in un libro curato insieme ad Alba Allotta, pubblicato nel 2013 dalla casa editrice Le Orme, e di donne siciliane, in due libri di storie vere pubblicati a un decennio di distanza l’uno dall’altro, nel 1998 e nel 2008. Cos’altro accomuna, Giacomo, le tue opere?

Il momento. L’essere presente dentro una idea che prende forma e serve a raccontare qualcosa che non è la solita paccottiglia  finalizzata a vendere un libro, una idea o  un pensiero. Un prodotto insomma. Cerco la forma dell’idea piuttosto. Che  ha un peso specifico perché c’è una storia da raccontare, la mia storia, quella che ha bussato dentro di me e mi ha chiesto di darle  vita.  Senza alcun  legame col mercato, senza alcuna costrizione, una idea  libera perché è mia. Il momento, quello della creazione, accomuna tutte le cose che faccio, la scintilla che illumina una storia e la fa diventare racconto, la fa diventare mia.

 

Immagino che per uno scrittore la trasposizione teatrale o cinematografica delle sue opere di narrativa debba essere un’esperienza forte. Hai interloquito in qualche modo nella realizzazione del film e dell’opera teatrale “Viola di mare”, tratte dal tuo romanzo “Minchia di re”? Hai riconosciuto i personaggi che avevi delineato, o in qualche modo la scena li ha trasformati, facendone “altro” rispetto alle immagini che avevi in mente tu mentre raccontavi le loro storie?

Ho avuto la fortuna di poter collaborare sia con gli  sceneggiatori (Pina Mandolfo e Donatella Diamanti in testa) e la regista del film (Donatella Maiorca) che con la protagonista e la regista dello spettacolo teatrale (Isabella Carloni). Lo considero un grande privilegio. Ho visto diventare gesti e volti le mie parole, quelle stesse che avevo evocato davanti lo schermo del pc. Una magia. Perché certe volte le immagini che avevo dentro di me mentre scrivevo il libro erano esattamente quelle che  i registi avevano messo su. Una vera stregoneria.  Che capita quando l’amore per la storia è condiviso.

 

I sapori, la storia del territorio attraverso le ricette sono al centro di un libro sulla cucina trapanese che hai scritto con Alba Allotta. Da dove nasce questo tuo interesse?

La cucina  è un medium straordinario per raccontare le storie della gente, il cibo ha una sua partitura che somiglia molto alla  scrittura, con gli ingrediente che sono le regole,  il menu  la sintassi, gli aggettivi i condimenti, gli avverbi le spezie, e c’è perfino una retorica che sono i comportamenti conviviali. Io e mia moglie abbiamo raccontato, attraverso il cibo, la fatica per procurarlo, la narrazione di una sequela di mestieri che si arrampicano sulla vetta della necessità per fronteggiare la fantasia  del palato.

 

Nelle due raccolte dedicate alle siciliane ci presenti donne speciali, di solito donne con un progetto forte che sono riuscite a realizzare, o che sono sopravvissute a dolorose esperienze con grande coraggio e dignità. Secondo te la femminilità siciliana ha ancora caratteristiche peculiari, nel mondo globalizzato contemporaneo?

Le donne siciliane urlano o stanno in silenzio. Poche le abitanti della terra di mezzo.  Le donne siciliane amano gli estremi, l’apertura o la chiusura degli usci. Basta fare un giro nei villaggi oppure nei quartieri delle città grandi.  Le porte  delle case governate dalle donne sono spalancate. Oppure sono chiuse, con le imposte serrate, giusto un filo di luce. Quelle  aperte mostrano le camere da letto, con i quadri di san Giuseppe sul capezzale, i bambini che  allungano la strada fino  alla cucina.  Esibiscono la vita di dentro. Oppure sono chiuse. E allora  fuori arrivano gli  odori, appena un soffio, le  voci attutite dagli altri rumori. Qualche volta si indovinano due occhi che si affacciano fra le fessure.  Urla o silenzio, il resto appartiene  al mondo sconosciuto. Protagoniste oppure comparse, difficilmente interpreti della loro vita.   Occupano  spazi ingombranti in una società costruita dagli uomini per gli uomini. E  l’unico rimedio alla rassegnazione è l’urlo. Straziante, angosciante, coraggioso, talvolta perfino seducente. Un urlo spiantato dal cuore, dalle viscere dello stomaco, per affermare una storia, una identità,  a volte   soltanto un pensiero. 

Hanno spezzato una certa cultura siciliana patriarcale. Hanno demolito l’antico per costruire il moderno, hanno trasformato e nello stesso tempo custodito.  Si riconoscono nella cultura del loro gruppo di appartenenza, ma senza complicità.

La distruzione del vecchio per costruire il nuovo non ha però significato abbandono del passato, ma capacità di selezionare e di trovare in esso cosa c’è da salvare. Cambiare e conservare: la grande capacità mediatrice delle donne siciliane sa operare ogni giorno questo miracolo. Ed è questa la loro peculiarità.

 

Rivisitare il Novecento siciliano, attraverso le interviste di “In Sicilia rewind”, è un’operazione culturale molto interessante. Cosa è cambiato nel tuo modo di guardare alla storia recente dell’isola, da quando, negli anni Ottanta e Novanta, facevi le interviste che adesso fanno parte di questo lavoro appassionato di recupero della memoria? Com’è cambiata − se è cambiata − questa terra che a volte può sembrare immobile, destinata a restare in eterno inchiodata alle sue contraddizioni?

Sono cambiamenti lenti, talvolta solo di facciata. C’è dentro ciascuna storia un patrimonio genetico difficile da cancellare. Una memoria che scarta il presente e guarda al futuro come una minaccia, in cagnesco, con gli occhi puntati altrove. Per fare finta che quello che c’è stato è caduto nell’oblio. Un modo per ricominciare ignorando da dove veniamo, quello che siamo stati. Un capovolgimento di fronte che non tiene conto del vissuto che ci appartiene e che in maniera ingombrante si fa spazio nella memoria  quando questa pretende di essere raccontata, di venire fuori ad ogni costo.

 

Grazie, Giacomo, per il tuo tempo e le tue risposte.

Rosalia Messina

24 maggio 2014
 
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