“La Fuliara. Storia di una maledizione” di Anna Chisari, edito Garzanti, è un romanzo che racconta le vite incrociate di diverse donne, le loro cicatrici invisibili e profonde, e la maledizione antica che lue tiene ben strette tra loro: i legami familiari, quelli che si ripetono e che non possiamo recidere, perché fatti di sangue e scelte alle quali non abbiamo mai dato il nostro consenso.
Tra superstizione e maternità, un romanzo siciliano che sfida le maledizioni familiari e accende la speranza
Ambientato nella Sicilia di metà Ottocento, “La Fuliara. Storia di una maledizione” parla soprattutto di eredità emotive, guaritrici non sempre comprese e libertà.
Una guaritrice, una strega, e la forza dell’amore materno
Il cuore del romanzo è Veneranda Balsamo, che tutti chiamano Gnu Ranna o “Fuliara”, nome che prende per via dei suoi capelli scuri come la fuliggine dell’Etna.
La definiscono “strega”, ma in realtà è una guaritrice , una donna che conosce le erbe, i limiti del corpo, i segreti delle credenze contadine.
A lei verrà affidata una bambina orfana, che diventerà a sua volta erede del sapere. Capace di curare ferite reali e interiori. La trama decolla — come se già il romanzo non fosse trascinante nella sua precedente metà! — nel momento in cui Veneranda diventa madre.
Da lì ci sarà un innesco di situazioni a domino: la figlia si innamora di un giovane di una famiglia “maledetta”, i Baruneddu, dando il via alla parte cupa del libro in cui Gnu Ranna decide di abbracciare il ruolo di “strega” che le è stato affibbiato…
Il trauma che si trasmette senza parole
Il tema che attraversa tutto il romanzo è quello del trauma intergenerazionale: rotte invisibili che passano da madre in figlia, da padre a figlio, senza essere raccontate. “Siamo discendenti di chi ci ha preceduto, ma è anche possibile rompere le catene” rivendica l’autrice.
Belpasso e l’Etna fanno da cornice potente: è un paesaggio ritmico, primordiale, che scandisce la vicenda de “La Fuliara.” con il rumore del cratere, le erbe, il dialetto, gli usi quotidiani che adombrano antiche colpe. Tutto parla di violenza patriarcale: padri e maschi che impongono il proprio dominio sulle donne, che negano loro la libertà di scegliere, di amare, persino di partire.
Ci sono violenze che devono essere taciute, in questo libro, perché (dal libro) “se non ha visto non è mai accaduto” e ancora “di quello che è accaduto non ne parleremo mai”.
C’è da dire, però, che i personaggi maschili sono ben costruiti: non sono mostri nel vero senso della parola, non sono dei villain, ma sono uomini intrappolati in modelli culturali duri, i cui gesti riecheggiano nel tempo e nell’anima dei figli.
Cateno, amico e amante, è vittima di un destino, e Michele Cutrona inscena il controllo violento che ancora oggi alcune donne subiscono.
Questa è la magia del romanzo: non condanna o anima buoni e cattivi, ma mostra un sistema — familiare, culturale, affettivo — in cui la sofferenza si radica e si ripete. Solo una coscienza materna, che sceglie consapevolmente, può rompere il cerchio.
Linguaggio palpabile: dialetto, erbe, sapori
Il libro è terra, è dialetto, è lava. Le erbe vengono nominate, i dialetti entrano nei gesti quotidiani, le scene familiari sono punteggiate di sapori e ironia.
Il linguaggio, così carico di radici, diventa strumento di autenticità . Ci sono passaggi pieni di humour silenzioso — anche nelle fatiche — e altri attraversati da annebbia emotiva, tra lacrime e decisioni drastiche. Una lingua che riflette lo scontro tra silenzio e parola: guarisce, ma può anche ferire come un veleno.
Sacrificio, maternità, riscatto
Veneranda, in piena tragedia materna, compie un gesto estremo: sceglie di essere una “strega” e di farsi carico della maledizione. È maternità tossica , ma anche discorso sul potere che una madre ha di proteggere o distruggere — e sull’importanza del limite, del confine tra sacrificio e autodistruzione.
Al contempo, il gesto della strega-guaritrice è una presa di coscienza , una conquista di autorità femminile. Perché guarire vuol dire anche dire di no. E dire di no, certe volte, significa spezzare un copione di dolore.
Cosa può insegnarci “La Fuliara. Storia di una maledizione”
“La Fuliara” non è un romanzo semplice, ma scorre liscio come l’olio e la narrazione è visiva, immersiva. È un invito a pensare, a sentire, a ricordare — e a decidere. Conduce il lettore per mano tra le strade di Belpasso, si ferma nei gesti invisibili delle mamme, nei silenzi ereditati. Chiede di scegliere: spezzare il passato o portarlo per sempre dentro.
È un romanzo storico, ma parla anche del presente. Lo fa nel maschilismo tossico, dove gli uomini sono costretti a indossare dei panni rudi o omertosi, quando picchiano le donne o alzano la voce; ma lo fa anche perché oggi siamo arrivati a capire quanto le vittime hanno bisogno di alzare la voce e fare rumore.
Il libro ci invita a pensare alle donne e agli uomini che oscillano tra ruoli diversi, e all’importanza della responsabilità individuale, ma è pure la storia di una maledizione, di un riscatto. E di un amore grande quanto la paura di perderlo.