Alcuni romanzi mettono al centro l’energia che l’enigma libera quando entra nella vita di tutti i giorni; “La donna che visse due volte”, di Pierre Boileau e Thomas Narcejac è uno di questi: nasce quando il sospetto smette di essere esercizio mentale e diventa una dipendenza emotiva.
Seguire una persona, ricostruirne i gesti, inseguire un’ombra fino a sentirla quasi viva, come se potesse voltarsi e ricambiare lo sguardo.
In Italia il titolo è perlopiù conosciuto grazie al film di Hitchcock, che a sua volta ha fatto la storia e per una parte del pubblico il contenuto “suona” già cinematografico, ancora prima di aprire il libro. Tuttavia, il romanzo resta un oggetto con una temperatura tutta sua, più ruvida e più severa; e al lettore sembra chiedere: che cosa accade quando l’amore diventa un progetto e una persona diventa materiale?
Un noir a quattro mani “La donna che visse due volte”
Boileau e Narcejac funzionano come un dispositivo a due velocità. Da una parte c’è la struttura: l’enigma che tiene, la progressione che stringe. Dall’altra c’è l’atmosfera: la psicologia, la sensazione di straniamento, la realtà che comincia a comportarsi come un luogo contaminato. Il loro thriller nasce spesso da qui: invece del detective impeccabile, un uomo esposto; invece della verità come traguardo, la verità come trappola.
È un noir dell’identità, prima ancora che dell’azione. Il punto non è “risolvere”, il punto è capire quanto si può deformare una mente quando si aggrappa a un’immagine e pretende che il mondo la confermi.
Un uomo che segue una donna, poi la perde due volte
Parigi, primavera del 1940, sullo sfondo della “strana guerra”. Roger Flavières è un ex ispettore che porta addosso un trauma e una colpa: una vertigine gli ha impedito un gesto decisivo, e quella mancanza è diventata un marchio. Un conoscente, Paul Gévigne, gli chiede di sorvegliare la moglie Madeleine, attraversata da vuoti che sembrano scarti d’identità: silenzi improvvisi, derive, comportamenti che paiono appartenere a un’altra.
Flavières la segue. E la sorveglianza cambia subito natura: diventa abitudine, pensiero fisso, innamoramento che cresce dentro lo sguardo. Madeleine sfiora il suicidio, poi precipita davvero. Quando la Storia accelera e il mondo cambia pelle, anche l’anima di Flavières cambia ritmo: colpa e desiderio cominciano a confondersi, e il dopoguerra gli riconsegna un paesaggio in cui i morti continuano a circolare, almeno come immagini, tracce, possibilità.
Chi conosce “Vertigo” riconosce alcuni punti cardinali, ma nel romanzo la tensione è diversa: interessa meno la suspense e di più la febbre di chi vuole convincersi di poter riavere ciò che ha perduto.
La vertigine come posizione: l’amore trattato come prova
Nel film la vertigine è anche spettacolo: scala, altezza, immagine che gira. Nel romanzo è prima di tutto una faccenda di sguardo. Chi osserva, chi viene osservata, e quanto potere si nasconde in quella distanza. Flavières non incontra Madeleine come si incontra una persona intera: la incontra come si incontra un segnale. Lei cambia registro, entra ed esce da sé, si muove come se avesse una vita parallela. E proprio quel movimento lo aggancia. Lo accende e lo destabilizza insieme.
Più Madeleine diventa sfuggente, più lui intensifica l’inseguimento. La sorveglianza si trasforma in bisogno: non più “capire”, ma tenere la donna dentro una cornice. Quando la realtà si fa ambigua, Flavières la stringe fino a farla diventare interpretabile, ordinata, quasi addomesticata. È qui che il romanzo dice la sua cosa più precisa: la mente, quando soffre, cerca un disegno. Cerca un ordine che abbia la forma di una soluzione.
Boileau e Narcejac spostano così il centro del noir. La domanda “chi era davvero Madeleine?” perde importanza rispetto a un’altra, più scomoda: che cosa fa un uomo quando decide che il mondo deve piegarsi al suo desiderio? E quel desiderio, mentre la storia avanza, cambia sostanza: smette di somigliare a una passione e prende la forma di una procedura, di una strategia, di un progetto.
Il doppio e la messa in scena: quando un corpo diventa destino
La materia più inquietante del romanzo è il doppio, non come trovata, ma come idea morale. Una persona può essere trattata come un ruolo. Un volto può diventare un incarico. La femminilità può trasformarsi in costume cucito addosso da qualcun altro, con la precisione di una sartoria e la violenza di una proprietà.
Non sorprende che il romanzo richiami, per atmosfera, “Bruges-la-Morte” di Georges Rodenbach: anche lì c’è un lutto che cerca una replica, e la città diventa camera di risonanza del desiderio. Boileau-Narcejac innestano quell’ossessione dentro un noir moderno dove la colpa non chiede espiazione: chiede una seconda possibilità. E quella seconda possibilità, per Flavières, prende una forma tossica: trasformare l’amore in ricostruzione, trattare una persona come una prova da far tornare.
Da “D’entre les morts” a “Vertigo”
Quando l’ossessione diventa mito
Che Hitchcock abbia trasformato “D’entre les morts” in “Vertigo” è un fatto di storia culturale, ma vale la pena guardare la direzione della trasformazione. Il film inventa un linguaggio visivo per la vertigine e sposta l’immaginario; il romanzo resta aggrappato a una nudità psicologica più aspra, quasi più umiliante, perché lavora sul pensiero fisso senza offrire bellezza come schermo.
Il punto che resiste, in entrambe le versioni, è l’idea centrale: un uomo tenta di ricreare un’immagine impossibile. Cambiano le soluzioni narrative, cambiano i paesaggi, cambia la mitologia, ma resta la spirale che stringe identità e colpa. E resta anche la differenza più dolorosa: nel film, l’icona (Kim Novak, la silhouette, la luce) rischia di assorbire tutto; nel romanzo, invece, la donna porta addosso l’impronta del progetto maschile, e proprio lì si vede quanto l’uomo sia disposto a forzare il reale pur di non sentirsi sconfitto.
Una morale “alla Boileau-Narcejac”
Il desiderio che chiede potere
L’ossessione, in questo libro, perde presto l’alibi del romanticismo tragico e prende la forma di qualcosa di più comune: il tentativo di governare l’altro per evitare il proprio vuoto. Boileau e Narcejac colpiscono perché mostrano, con freddezza, come certi bisogni sappiano travestirsi bene. La gelosia può vestirsi da amore. Il controllo può vestirsi da premura. La ricostruzione di un volto può vestirsi da fedeltà. Sotto, lavora una fame più antica: trasformare una persona in risposta, usare un corpo come argomento, pretendere che qualcuno risolva al posto nostro ciò che fa male.
La forza di “La donna che visse due volte” sta qui: lascia una domanda nuda, che continua a mordere anche dopo l’ultima pagina. Quanta realtà sei disposto a perdere pur di salvare l’immagine che ti serve?
