“L’autunno del patriarca” di Gabriel García Márquez: il romanzo che smaschera il potere

8 Ottobre 2025

Un viaggio nell’anima del potere assoluto: in "L’autunno del patriarca", García Márquez racconta la solitudine, la corruzione e l’eterno ritorno della tirannia.

“L’autunno del patriarca” di Gabriel García Márquez: il romanzo che smaschera il potere

Il potere, l’ossessione dell’uomo di un tempo e dell’uomo moderno, teorizzato da molti in tomi bestseller come “Le 48 leggi del potere”, o raccontato attraverso le microespressioni dei volti che passano in televisione, è anche la rovina di popoli, come ci racconta la Storia e come sempre ci mostra Gabriel García Márquez.

Ne “L’autunno del patriarca”, pubblicato nel 1975, Márquez si focalizza proprio sul tema del potere e della solitudine — la solitudine di un popolo. Non racconta di un regime in particolare, ma spiega la meccanica dell’autocrazia. Non fa nomi, non si sofferma su date o coordinate: tutto sfuma, eppure tutto sembra riconoscibile. È il paradosso del libro: quanto più sfuma i contorni, tanto più la sua verità narrativa arriva nitida al lettore.

Il mito del “patriarca”

Nasce così il mito del patriarca: tante figure reali vengono passate al setaccio dell’immaginazione del lettore fino a creare un solo e unico figuro. Non è una biografia mascherata, quella di Márquez: è il profilo universale di un tiranno, l’uomo che coincide col suo palazzo, con la sua voce, con il rituale che lo circonda, e che sopravvive a se stesso attraverso proclami, cortigiani e menzogne fino a confondere i confini tra realtà e rappresentazione.

A raccontarlo non è mai un unico narratore: le voci si accavallano, cambiano persona, riscrivono gli stessi eventi, come in un paese dove la versione ufficiale vale più dei fatti.

Il libro che inizia e inizia…

L’incipit è una scena indimenticabile: la folla entra nelle stanze del palazzo e trova il cadavere del dittatore. L’odore, gli avvoltoi, gli arredi in rovina, simbolo della decadenza materiale come metafora del disfacimento morale.

Da lì in avanti, però, la morte diventa un inganno. Il libro procede per grandi movimenti circolari: ogni volta torniamo a quella morte e ogni volta la storia la rimonta da capo, con angolature diverse, come se il potere non finisse mai davvero, ma si rigenerasse nella memoria di chi deve raccontarlo.

A scandire il racconto non sono “colpi di scena” da thriller politico, bensì gesti ripetuti: decreti, parate, udienze, favori e punizioni, amministrati con la calma glaciale di chi domina tempi, corpi e parole. Le trame familiari – la madre, gli amori mai liberi, i figli veri o presunti – non riscattano nulla: sono sussidi emotivi che il potere trasforma in protocollo, come se persino l’affetto dovesse passare dalla segreteria.

La propaganda, la solitudine e la normalità

Il potere, in questo libro, non è soltanto violenza; è soprattutto organizzazione dell’ignoranza. La superstizione – presagi, santi, miracoli di palazzo – serve a piegare il caso a favore del capo; la propaganda satura l’aria, sostituisce i fatti con annunci, crea una “verità performativa”: è vera perché proclamata, festeggiata, ripetuta.

Ma la parola chiave è “solitudine”. Il patriarca è solo perché nessuno può contraddirlo; è solo perché nessuno lo vede più per quello che è; è solo perché vive in un ecosistema di consenso dove il reale gli arriva filtrato. La sua solitudine, però, contagia: diventa l’aria che respira la nazione, un silenzio educato a forza dove si impara a mentire per abitudine e dove la prudenza vale più della memoria.

Questa “solitudine istituzionale” produce nostalgia. Non la nostalgia romantica del passato, ma una malinconia politica: un paese sospeso, che teme ogni cambiamento e accetta la messinscena perché l’incertezza fa più paura della menzogna. È il centro terribile del romanzo: la dittatura non sopravvive solo grazie alla brutalità, ma anche grazie a un desiderio diffuso di quiete e di normalità apparente.

Il corpo del tiranno, il corpo della nazione

Il patriarca è un uomo stanco, malato, circondato da servitori che gli prestano forze e volontà; eppure il suo corpo decrepito coincide con il corpo della nazione: decide chi invecchia e chi ringiovanisce, chi vive all’ombra e chi alla luce, chi ha diritto al tempo e chi no. La sua carne usurata è la metafora di un paese esaurito, che continua a funzionare per inerzia, negli uffici, nei cortili interni, nelle stanze in cui si firma e si timbra. È un romanzo di organismi: la malattia personale diventa patologia collettiva, come se la biologia del capo facesse da metronomo alla vita pubblica.

Il femminile sotto giudizio: madre, amanti, eredità

Intorno al patriarca si muovono figure femminili decisive, ma mai libere. La madre – archetipo di autorità arcaica e radice – spiega più di mille trattati: racconta l’origine di un culto fondato non sulla legittimità, ma sull’eccezione. Le amanti non sono personaggi d’evasione; sono funzioni dentro il cerimoniale del potere, corpi che certificano la forza del capo e insieme la sua impossibilità d’amare. L’eredità, infine, è il fantasma ricorrente: nessuno può succedergli, non per legge ma per logica—il suo regno non prevede futuro, solo autunno che non finisce.

Tradizione e differenze: il “romanzo dei dittatori”

“L’autunno del patriarca” si colloca nella linea dei grandi romanzi del dittatore latinoamericani, da Asturias a Roa Bastos, fino a Vargas Llosa. Con una differenza sostanziale: Márquez non chiude il suo tiranno in una cornice storica. Prende elementi da tanti regimi, li distilla e crea una figura-tipo, un mito laico riconoscibile in più paesi e in più epoche. Questo gesto sposta il romanzo dalla denuncia al laboratorio: non dice “chi è stato”, ma come accade. E quella che all’inizio sembra un’astrazione diventa, pagina dopo pagina, una lente potentissima.

Perché è un libro “politico” senza essere un pamphlet

La politica, qui, non sta nelle tesi; sta nella forma. La frase lunga che ti toglie il fiato è il respiro del comando; la confusione di pronomi è la perdita del confine tra individuo e coro; il ritorno ossessivo a una scena è l’economia circolare dell’ideologia, che non procede per prove e confutazioni ma per rituali. Il romanzo chiede un lettore che ascolta più che dimostrare, che sente la differenza fra un linguaggio che apre e uno che chiude, fra un racconto che accoglie l’errore e uno che pretende infallibilità.

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