Jordan Harper dialoga apertamente con Shakespeare nel suo nuovo romanzo edito Neri Pozza. Un figlio sfidato dall’ombra paterna, un regno ridotto a carcassa morale, un mondo che finisce nell’odore di bruciato: “L’ultimo re di California”.
Il romanzo si apre nel nulla californiano, tra carovane, strade dritte e aria rovente. Luke Crosswhite, diciannove anni, scappa da una stanza senza finestre, abbandona libri e pentole, e torna verso casa; ma “casa” non è un rifugio: è Devore, una città fantasma dominata dal Combine, la gang che comanda tutto — droga, armi, giuramenti.
Il padre di Luke, Big Bobby, ne è il capo, il “re” del titolo. Un uomo enorme, carismatico e spietato, che ha trasformato il sangue in legge e la violenza in linguaggio.
Luke torna per ragioni confuse — vendetta, identità, amore — ma finisce nel vortice: una faida tra bande, un padre che pretende la fedeltà e un mondo dove il potere si misura in cicatrici.
Un ragazzo, un padre, un deserto che brucia
Harper costruisce un romanzo di padri e figli, ma anche di territori corrotti, in cui la California è letteralmente in fiamme. Ogni incendio nel libro — e ce ne sono molti — ha due facce: quella del disastro ambientale e quella del crollo morale: la natura brucia, ma anche l’anima.
Un noir che guarda “Amleto”
Molti critici americani hanno letto “L’ultimo re di California” come una tragedia shakespeariana travestita da crime.
Luke è un Amleto contemporaneo: un figlio che torna in un regno devastato, cerca giustizia, ma trova solo sangue.
Big Bobby è il padre-re che detta la legge, anche dal carcere. Il deserto è l’Elsinore del XXI secolo: un luogo dove non esistono più regole, solo clan, polvere e memoria.
Il libro non è però una semplice riscrittura: è una riflessione sulla lealtà, sull’eredità del male e su cosa significhi sopravvivere al proprio destino.
Il motto del Combine, “Il sangue è amore”, è l’idea che Harper vuole distruggere: la violenza non è amore, e la famiglia non è salvezza.
Harper scrive con la rabbia di un reporter e la pietà di un figlio
Jordan Harper viene dal giornalismo e dalla sceneggiatura televisiva (The Shield, Gotham). La sua prosa è visiva, asciutta, piena di nervi: ogni frase è un colpo, ogni dialogo pesa. Ma dentro questa violenza Harper inserisce qualcosa di raro nel noir: una tenerezza senza sentimentalismo.
Il risultato è un romanzo che non feticizza la crudeltà: la analizza.
Quando Harper descrive un omicidio o un incendio, lo fa per mostrare la fame di appartenenza che spinge i personaggi, non per compiacerla.
In questo senso “L’ultimo re di California” è meno un romanzo “di genere” e più un romanzo morale: un libro sul desiderio di cambiare il proprio destino quando tutto ti ha insegnato che non puoi.
Cosa dice la critica estera
Le recensioni americane sono state entusiastiche e hanno contribuito a consolidare la reputazione di Harper come uno dei grandi nomi del noir contemporaneo:
- Kirkus Reviews lo ha definito “un romanzo violento e straziante, eppure pieno di speranza”, lodando il modo in cui Harper “infonde umanità ai suoi personaggi immersi nella spietatezza del mondo”. (“Un romanzo che sanguina e respira, dove perfino i mostri conservano un battito d’umanità.”)
- Publishers Weekly ha scritto che Harper “intreccia motivi mitici e trope hardboiled”, fondendo Shakespeare e Don Winslow, costruendo “una California apocalittica dove la legge è solo un’eco”.
- Crime Fiction Lover ha parlato di “scrittura esplosiva e compassione sotto la cenere”, notando come Harper “eviti il nichilismo e scelga la redenzione”.
- Bookreporter ha descritto il libro come “un ritratto implacabile del crimine organizzato e dei legami familiari pronti a implodere”.
Tutti concordano su un punto: Harper non giudica, ma illumina il buio. Non c’è eroismo, solo la possibilità di scegliere di non ripetere il male.
Chi è Jordan Harper
Nato nel Missouri, Harper è una delle voci più originali della nuova scuola americana del noir. Con il romanzo d’esordio “She Rides Shotgun” (2017) ha vinto l’Edgar Award, il massimo riconoscimento del genere, e conquistato lettori come Megan Abbott e S.A. Cosby.
È uno scrittore “geologico”: scava nelle fratture morali dell’America e mostra cosa succede quando il sogno si disintegra.
Vive a Los Angeles, dove ambienta quasi tutte le sue storie, e considera L’ultimo re di California il suo libro più “personale e politico insieme”.
Un’America in fiamme
Al di là della trama, “L’ultimo re di California” è un romanzo sul collasso di un Paese: la California che brucia nel libro è quella reale delle ultime estati — fatta di deserti, polizia corrotta, povertà mascherata da libertà.
Ogni incendio è una metafora del capitalismo americano, un sistema che promette il paradiso ma consegna solo ceneri.
Nessuno ne “L’ultimo re di California” si salva completamente, ma tutti — anche i più perduti — hanno il diritto di provarci. È questo che rende il romanzo umano: un racconto di peccati ereditati, ma anche della possibilità di rifiutare l’eredità.