“Il quinto figlio”: regalo disturbante per lettori difficili

18 Dicembre 2025

Doris Lessing ha scritto un libro profondo e disturbante che utilizza il cliché del bambino mostruoso per affrontare il tema della maternità: "Il quinto figlio"

“Il quinto figlio”: regalo disturbante per lettori difficili

C’è qualcosa di profondamente disturbante ne “Il quinto figlio” di Doris Lessing, e non è solo la presenza di un bambino “mostruoso”, cliché che possiamo ritrovare in opere come “Il signore delle mosche” di William Golding, “Notre-Dame de Paris” di Victor Hugo, “Rosemary’s Baby” di Ira Levin o “Lapvona” di Ottessa Moshfeg. È la posizione in cui il romanzo mette il lettore, costretto a oscillare continuamente tra empatia e rifiuto, piuttosto.

“Il quinto figlio”: il classico moderno più disturbante

Pubblicato nel 1988, breve al punto da sembrare quasi una novella, “Il quinto figlio” arriva in una fase matura della carriera di Lessing – la stessa scrittrice che nel 2007 riceverà il Nobel – e condensa in poco più di 150 pagine molte delle sue ossessioni: il sogno comunitario che implode, la violenza nascosta nel privato, l’esclusione di chi non rientra nelle regole condivise.

La storia di Harriet e David Lovatt, coppia tradizionalista che sogna una casa piena di figli “come una volta” nella periferia londinese, viene spesso descritta come un incrocio fra realismo domestico e gotico contemporaneo. È un romanzo sull’orrore in famiglia, ma senza demoni o fantasmi: tutto accade in cucina, in salotto, nelle camerette, dentro un’idea di normalità che si sgretola.

Dal sogno della famiglia perfetta alla crepa del quinto figlio

Una casa troppo grande, quattro figli e un’idea di felicità

Quando si conoscono a una festa, negli anni Sessanta, Harriet e David si riconoscono subito. In una Londra che corre verso il ’68, loro rivendicano gusti “all’antica”: matrimonio, tanti figli, una casa grande in campagna. È un progetto quasi programmatico, in controtendenza rispetto ai coetanei che cercano libertà, sperimentazioni, relazioni meno vincolate.

Compravano una villa fuori città, troppo costosa per le loro reali possibilità, ma perfetta per diventare il cuore di un piccolo clan. Arrivano uno dopo l’altro quattro bambini sani, due maschi e due femmine, e la casa si riempie: pranzi, feste, parenti che vanno e vengono, Natali affollati, la sensazione di aver costruito un rifugio contro il caos del mondo. Alcuni familiari storcono il naso per quella maternità ininterrotta e per le difficoltà economiche evidenti, ma Harriet e David tengono duro: il loro ideale di famiglia numerosa sembra valere qualsiasi fatica.

Lessing però, già in queste prime pagine, lascia filtrare una nota d’inquietudine. La gioia è reale, ma la pressione sulle spalle dei due protagonisti è enorme; la casa “felice” sembra sul punto di diventare un peso insostenibile, più che un porto sicuro.

Qualcosa di sbagliato già nel ventre

La crepa arriva con la quinta gravidanza. Harriet, già stanca per le gravidanze ravvicinate, sente fin da subito che c’è qualcosa di diverso. Il bambino si muove con violenza, la spinge, sembra colpirla dall’interno; il dolore è continuo, il sonno impossibile. È come se il corpo rifiutasse ciò che sta crescendo, e questo rifiuto la terrorizza.

Quando Ben nasce, la sensazione di estraneità diventa immagine concreta. Il neonato non ha l’aria fragile degli altri: è compatto, muscoloso, di un giallo innaturale, con occhi verdastri e un’espressione dura. Mangia in modo vorace, non si lascia cullare, piange come un animale in gabbia. Le descrizioni di Lessing, riprese da molte letture critiche, insistono su una fisicità quasi “atavica”, come se Ben appartenesse a un altro stadio dell’evoluzione.

Harriet prova ad attaccarsi all’idea di poterlo amare come gli altri, ma la fatica quotidiana la sfinisce. Gli occhi del marito e dei parenti registrano la stessa paura che lei non osa dire ad alta voce: quel bambino li mette in pericolo.

Lo smantellamento progressivo dell’idillio

Con la crescita di Ben, la casa dei Lovatt cambia volto. Il quinto figlio è sproporzionatamente forte, fatica a parlare, non stabilisce un contatto affettivo, ha scatti di violenza improvvisi. Spaventa i fratelli, gli animali, gli ospiti. Alcuni incidenti sono inequivocabili: animali domestici morti, compagni di gioco feriti. La diagnosi non arriva mai; nessuno sa dire se si tratti di una forma di disabilità, di un disturbo del comportamento, di altro. Proprio questa assenza di nome alimenta la percezione di mostruosità.

La famiglia, schiacciata, ricorre a una soluzione estrema: Ben viene affidato a una struttura dove di fatto viene sedato e contenuto. È una scelta che spezza Harriet, che alla fine cede al senso di colpa e decide di riportarlo a casa. È il gesto che scompagina definitivamente l’assetto: il ritorno di Ben segna la disgregazione del nucleo. I quattro figli “normali” si allontanano, David si chiude in una distanza rancorosa, la grande casa si svuota e sembra improvvisamente troppo grande, troppo fredda.

Alla fine del romanzo, tutti sono in qualche modo in fuga. Ben stesso, ormai adolescente, gravita verso una banda di ragazzi marginali, quasi un’avvisaglia di futuro sequel, quello che Lessing scriverà anni dopo in “Ben in the World”.

Ben, il “mostro”

Il figlio che sfugge alle definizioni

Gran parte del carattere disturbante del libro sta nel modo in cui Lessing costruisce Ben. Lo sguardo della famiglia lo percepisce come “altro” fin da prima della nascita; molte analisi accademiche parlano del “monstrous child”, il bambino mostruoso che manda in frantumi l’immagine del figlio desiderato.

Ben è spesso descritto con termini che lo avvicinano all’animale o al primitivo: la forza eccessiva, la goffaggine, l’assenza di empatia, il modo in cui divora il cibo. Ma allo stesso tempo non è mai un “mostro” da romanzo dell’orrore. Non trama, non manipola, non ha una mente maligna nascosta. È, piuttosto, una presenza opaca, insondabile, che agisce senza motivazioni leggibili.

Qui il romanzo lascia volutamente aperto lo spazio dell’interpretazione. Ben è un essere “nato così” oppure è il prodotto di una famiglia già al limite, che scarica su di lui le proprie tensioni? È malato, neurodivergente, semplicemente inadatto al modello familiare che gli è toccato? Lessing non lo dice, e questa ambiguità è uno degli elementi che inquietano di più il lettore.

Disabilità, alterità, abiezione: ciò che la famiglia non sa contenere

Negli anni, “Il quinto figlio” è stato letto anche alla luce degli studi sulla disabilità e sull’abiezione. In più di un saggio, Ben incarna ciò che la famiglia e la società vogliono espellere per mantenere intatta l’immagine di sé: il corpo non conforme, il bisogno che non si lascia gestire, la richiesta di cura che non entra nei tempi e negli spazi prestabiliti.

La comunità di parenti che all’inizio accorre felice alle feste nella grande casa, davanti a Ben si ritrae. Nessuno vuole assumersi il rischio di convivere con lui; tutti suggeriscono soluzioni che lo allontanino, lo nascondano, lo neutralizzino. In questo senso Ben è capro espiatorio perfetto: diventa il contenitore di ogni paura e frustrazione, l’elemento che “guasta” ciò che era stato costruito con tanta fatica.

La domanda scomoda, però, resta sul tavolo: se Ben è mostruoso, lo è solo per ciò che è o anche per come gli altri lo guardano? Il romanzo non assolve né condanna del tutto nessuno, ma mostra il danno prodotto da una comunità che, di fronte alla differenza, conosce solo due opzioni: negarla o espellerla.

Harriet e la maternità disturbata

Il corpo che rifiuta, la mente che resiste

Harriet è il vero centro emotivo del romanzo. Una lettura molto citata del “New Yorker” ha parlato della “madre ambivalente”: già in gravidanza lei sente Ben come qualcosa che la aggredisce dall’interno, non come una presenza per cui provare tenerezza.

Lessing la segue da vicino, dal dolore fisico alla fatica quotidiana, fino alla colpa per i pensieri inconfessabili. Harriet non smette mai del tutto di sentirsi madre di Ben; è l’unica che, a più riprese, si oppone alla sua rimozione definitiva. Ma è anche colei che, per sopravvivere, partecipa a decisioni che la divorano dall’interno. La scena in cui lo lascia nella struttura che lo sedarà è uno dei passaggi più spietati del libro: non c’è tono melodrammatico, solo la constatazione di un limite raggiunto.

La colpa e i limiti dell’abnegazione materna

“Il quinto figlio” mette a nudo una tensione che ancora oggi attraversa il discorso sulla maternità: fino a che punto una madre è obbligata a sacrificarsi? C’è un confine oltre il quale prendersi cura di un figlio significa annientare se stessi e il resto della famiglia?

La figura di Harriet è disturbante proprio perché non consente semplificazioni. Non è la madre mostro che odia il figlio “difettoso” e basta; non è nemmeno la santa martire pronta a tutto. È una donna che sente nel proprio corpo la minaccia, prova a opporre resistenza, cede, si pente, torna indietro, sbaglia. È, in altre parole, una madre che l’immaginario collettivo fatica a sopportare: né idealizzata né demonizzata, ma descritta nel pieno della sua ambivalenza.

In questo senso il romanzo ha qualcosa di profeticamente contemporaneo. Interroga il mito della maternità incondizionata, mostra quanto sia violento pretendere che una donna non conosca paura, rabbia, rifiuto, quando la realtà la schiaccia.

Gotico domestico e allegoria sociale

Una fiaba nera sul benessere inglese

Molte letture definiscono “Il quinto figlio” una storia di gotico domestico: niente castelli o lande brumose, ma una casa della buona periferia inglese che si trasforma lentamente in luogo ostile.

All’inizio la villa è il simbolo del sogno borghese: un luogo dove crescere una grande famiglia, lavorare, ospitare parenti. Alla fine è uno spazio semivuoto, costoso, difficile da mantenere, in cui restano solo Harriet, Ben e un’eco lontana di ciò che era stato.

In filigrana si riconosce una critica al mito della “famiglia ideale” resa celebre dalla retorica del benessere postbellico e poi rimessa in scena negli anni del Thatcherismo: casa di proprietà, figli ben educati, distanza di sicurezza dalle zone degradate. Ben arriva come incarnazione di ciò che questo modello non vuole vedere: la fatica economica, la violenza, la marginalità, l’impossibilità di controllare tutto.

La paura del diverso tra politica, demografia e ansia collettiva

Alcuni saggi hanno messo in relazione il romanzo con le ansie demografiche e sociali degli anni Ottanta: il timore per la “bomba demografica”, il discorso sui costi dei figli, la crescente distanza fra chi può permettersi una famiglia numerosa e chi no. In questo contesto, i Lovatt insistono su un ideale numeroso quasi programmatico, mentre il mondo intorno spinge verso nuclei più piccoli e gestibili. Ben, con la sua voracità e la sua insaziabilità, diventa una sorta di personificazione dell’eccesso che il discorso pubblico vorrebbe scoraggiare.

Non è un romanzo a tesi, ma il paesaggio sociale di fondo conta. I ragazzi “selvaggi” con cui Ben finirà per orbitare appartengono alla città-ombra, quella che non entra nelle cartoline di Natale della classe media. Il timore che lui li raggiunga – che diventi uno di loro – è anche il timore che il fuori irrompa dentro: che la linea di demarcazione fra “noi” e “loro” non regga.

La scrittura di Lessing e lo status di classico moderno

Essenzialità, freddezza, ambiguità etica

Lo stile contribuisce in modo decisivo all’effetto disturbante del libro. Lessing sceglie una prosa asciutta, quasi cronachistica, evita psicologismi ridondanti, taglia sul non necessario. Le scene più dure – la gravidanza dolorosa, gli attacchi di Ben, le discussioni familiari – sono raccontate con una misura che non concede sfoghi emotivi. Proprio questa freddezza lascia al lettore lo spazio per reagire, senza essere guidato.

L’ambiguità etica è costante. Nessuno è innocente, nessuno è totalmente colpevole. Harriet e David sono sinceramente affezionati ai primi quattro figli, sinceramente incapaci di gestire il quinto. I parenti oscillano fra solidarietà e fuga. Gli esperti, quando compaiono, parlano un linguaggio che non consola nessuno. Ben stesso resta un enigma. Qui Lessing rifiuta categoricamente la tentazione del romanzo a tesi: non indica una strada giusta, mette in scena un fallimento collettivo.

Perché regalare o leggere “Il quinto figlio”?

A quasi quarant’anni dalla pubblicazione, “Il quinto figlio” mantiene intatta la sua capacità di mettere a disagio il lettore: è un libro perfetto per chi cerca qualche lettura torbida, ma non mainstream. Continua a essere ristampato, studiato, discusso, spesso accostato ai grandi testi sul “figlio impossibile” e sulla famiglia che non regge l’urto della differenza.

È un classico moderno non per l’età, ma per il modo in cui ha aperto una serie di domande che la narrativa successiva ha continuato a esplorare: cosa succede quando un figlio non corrisponde all’immagine progettata? Fin dove arriva il dovere di cura? Che cosa succede alle famiglie costruite su ideali rigidi quando il reale li smentisce?

Disturbante non come “Cadavere squisito” e simili, ma sul piano dell’effetto che suscita. È un libro che si legge velocemente e continua a lavorare a lungo. Mostra una famiglia che si spezza e una madre che rimane accanto al figlio che nessuno vuole, senza che questo gesto venga incorniciato come eroismo o condannato come follia.

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