Per chiunque sia nato prima del 1995, leggere “Il mio primo libro” fa quasi l’effetto di guardare la chat di un’adolescente lasciata aperta sullo schermo: notifiche che esplodono, slang che cambia ogni tre righe, meme, emoji, riferimenti a thread (post) di Reddit o a utenti più o meno famosi di TikTok che non avete mai sentito nominare.
Se invece siete parte della gen z, la musica cambia e una parte del piacere sta proprio in quel riconoscimento immediato: “questa cosa potrei averla scritta io, o la mia amica, o il tizio che seguo su X”.
L’esordio di Honor Levy, classe 1997, è una raccolta di racconti brevi e brevissimi che nasce in inglese come “My first book” e arriva in Italia per Mercurio Books con una traduzione quasi letterale del titolo, “Il mio primo libro”.
Molti testi erano già apparsi su riviste e siti americani; altri sono inediti, cuciti insieme in un’operazione che è narrativa ma anche, dichiaratamente, discorso generazionale.
Levy è cresciuta a Los Angeles, ha studiato alla Bennington e ha pubblicato sul New Yorker quando aveva poco più di vent’anni. Prima ancora che il libro uscisse, un profilo virale su The Cut e l’attenzione di autori come Bret Easton Ellis hanno contribuito a trasformarla nell’ennesima “voce di una generazione” proclamata dall’industria editoriale.
Ma cosa c’è davvero, dentro questo oggetto bianco e rosa pieno di emoji? E perché ha diviso così tanto lettori definiti “boomer”, i famigerati “millennial” e la tanto rinomata “gen z”?
Di cosa parlano i racconti
Una trama sola: essere giovani e “cronicamente online”
“Il mio primo libro” non è un romanzo, né un saggio, ma una costellazione di voci: ragazze e ragazzi giovanissimi, quasi sempre americani, quasi sempre bianchi, quasi sempre immersi fino al collo in quella che Levy stessa e molti critici definiscono una condizione “chronically online” – vite vissute quasi interamente attraverso lo schermo.
Le storie spaziano da quelle relazioni nate e morte via chat, dove l’“io ti amo” arriva sempre seguito da un “lmao” (un acronimo inglese che sta per “Laughing My Ass Off”, un’espressione usata online per indicare una risata molto intensa, equivalente a “pisciarsi sotto dalle risate”) o da un’emoji per smontare ogni serietà, fino alle ragazzine che entrano in chat-roulette, su Omegle, su forum tossici, e si scoprono osservate, desiderate, minacciate — tutti siti internet dove una web-cam può portarti in qualunque parte del mondo e farti parlare con un interlocutore casuale con un semplice click.
Nel libro si parla anche di aspiranti intellettuali che parlano di politica, “cancel culture” e identità di genere come se fossero thread infiniti da aggiornare più che questioni che toccano la carne, e feste a Brooklyn piene di droga, costumi di Halloween, investitori di startup travestiti da cowboy che pontificano sul Far West come “primo internet libero”.
C’è pochissima trama tradizionale: lo scrittore Leland Cheuk nota che chi cerca “archi narrativi meticolosi, personaggi pienamente sviluppati o epifanie emozionali” resterà deluso, perché la maggior parte dei racconti “assomiglia a un flash fiction molto lungo, scritto in una voce densa del gergo caotico della rete”.
Tuttavia non è l’intreccio il fine del libro, ma la voce: quello che la Cleveland Review of Books chiama “primato della voce disincarnata come personaggio a sé stante, che lotta nel vuoto per essere la più rumorosa”.
Una lingua che sembra una chat
La prima, vera esperienza leggendo Levy è linguistica. Le frasi sono brevi, sincopate, piene di emoji, liste, disclaimers fra parentesi, parole prese pari pari da 4chan e Tumblr (i siti più usati all’estero dalla gen z): “looksmaxxing”, “edgelord”, “thinspo”, “femcel”, “waifu”, “Laincore”.
Un blog italiano riassume bene l’effetto: uno stile “quasi alla Twitter, con frasi brevi, emoji, elenchi e flussi di coscienza”, capace di restituire “la confusione e le ansie della Generazione Z”.
Rivista Blam insiste sul fatto che è proprio il lavoro sul linguaggio a rendere il libro interessante: internet degli anni Dieci viene trapiantato sulla pagina sotto forma di gergo, meme, sottoculture – un codice perfettamente trasparente solo a chi, come Levy, è nato nel web o lo abita ogni giorno.
Per un lettore più grande, questo significa due cose: leggere è faticoso, perché ogni frase è intrisa di riferimenti; ma è anche illuminante, perché si entra davvero nel modo in cui una parte della Gen Z pensa, desidera, si deprime.
I temi: ansia, identità, apocalisse digitale
Doomscrolling verso la fine del mondo
Fra i tanti fili che percorrono la raccolta, uno è particolarmente potente: l’idea che la nostra routine di scroll infinito ci stia portando, letteralmente, verso la fine. La recensione di Rolling Stone Italia sintetizza così la sottotrama generale: l’umanità, connessa 24/7, “arriverà all’Apocalisse” seguendo il nastro trasportatore dello scrolling sul cellulare, mentre “il mondo digitale ci ucciderà come una bomba nucleare”.
Nel capitolo “La fine”, accompagnato dall’emoji del mietitore, Levy immagina una divinità olmeca del mais che, dopo secoli di violenze, si vendica contaminando il sangue umano con microplastiche e scatenando una sorta di Big Bang rigenerativo: alla fine rimangono solo la stessa Honor e un guerriero mormone gigante. Un’Apocalisse pulp che sembra uscita da un meme, ma che contiene tutto: cambiamento climatico, tossicità del capitalismo, colpa coloniale, ansia escatologica.
L’idea di fondo è chiara: siamo talmente bombardati da news orribili — guerre, crisi climatica, disastri — che non siamo più in grado di reagire. Restiamo paralizzati “come cervi abbagliati dai fari dell’ecatombe imminente”, per citare un passaggio molto efficace ricordato dalla critica italiana.
Corpo, sesso, violenza simbolica
Un altro nucleo forte del libro riguarda i corpi, soprattutto femminili. Nel racconto d’apertura, Love Story, una relazione nata su internet consiste quasi solo nello scambio di foto nude e messaggi ironici. La ragazza è fragile, piena di “barcode wrists”, tagli sulle braccia che sembrano codici a barre; le sue immagini girano per sempre nel cloud, su cavi sottomarini, in uno spazio digitale che non dimentica mai.
Cheuk cita una frase dove Levy mette in scena una mente undicenne travolta dalla simultaneità di video scioccanti, catastrofi, pornografia e webcam: tutto accade “all at once”, dall’11 settembre al famigerato two girls one cup, fino alla consapevolezza di essere osservata da uno sconosciuto dall’altra parte dello schermo.
Il sesso, in Il mio primo libro, è sempre intrecciato a potere e vulnerabilità: revenge porn, catcalling, mansplaining, “ragazzi Ivy League con denti da gattini e pelle da Accutane” che teorizzano sul woke e sul cancel.
È il modo in cui la raccolta parla di genere – la libertà assoluta concessa ai “beautiful boys” rispetto alle ragazze che fanno i conti con peso, storia, aspettative familiari – a colpire un critico come Martin Dolan, che sottolinea come il “boyhood” descritto da Levy sembri “l’opposto della responsabilità: libertà di prendere e sfruttare senza dover spiegare”.
Privilegio bianco, clausole di esclusione
Una delle obiezioni più frequenti mosse al libro riguarda il suo orizzonte sociale limitato. Cheuk nota come, in oltre duecento pagine, le presenze non bianche si contino sulle dita di una mano – a meno di non considerare anime e Kanye West. Il mondo di Levy è dichiaratamente “bianco e privilegiato”; quando funziona, lo fa come satira proprio di quell’ambiente, ma è difficile ignorare i buchi.
Qui la lettura generazionale si complica. Per un critico “boomer” o “gen X”, questo limite è un difetto macroscopico, che rende il libro poco rappresentativo. Per molti lettori “gen Z”, invece, esiste una consapevolezza duplice: da un lato il fastidio per l’ennesima narrazione centrata su ricchi bianchi; dall’altro il riconoscimento che l’autrice non finge di parlare per tutti, ma mette sotto lente il proprio milieu, con una spietatezza spesso rivolta contro sé stessa.
Come l’hanno letto boomer e millennial
Tra fascinazione e sospetto
Guardando le recensioni “tradizionali”, scritte da giornalisti quarantenni o cinquantenni, si percepisce un misto di curiosità e diffidenza.
Da un lato c’è l’attrazione per una scrittura che sembra il primo tentativo davvero riuscito di trasportare il linguaggio dei meme sulla pagina. Rolling Stone Italia parla di “libro-doomscrolling”, dove ogni racconto è come un video successivo nel feed: alcuni importanti, altri spazzatura, tutti raccontati in un «linguaggio social perfetto e frenetico».
Silenzio, sto leggendo sottolinea la “scrittura rapida e vivace” e accosta Levy a Ellis per il modo in cui fotografa superficialità, relazioni tossiche, ossessioni.
Dall’altro lato, tanti critici più adulti faticano a capire se siano davanti a un esperimento davvero innovativo o a un’operazione di marketing ben confezionata.
Cheuk definisce il libro “divertente ma diseguale”: alcune storie – Internet Girl, Love Story, Halloween Forever – sono centrate, satiriche e commoventi; altre si riducono a un flusso di opinioni sull’ultima polemica online, indistinguibili da quello che si può leggere su X o Reddit.
Martin Dolan va oltre: ammette di aver reagito con “istinto di durezza” e si chiede se “My First Book” sia davvero il debutto rivoluzionario che la pubblicità promette, o piuttosto “lo stesso vecchio malessere ventenne infarcito di internet che leggiamo da vent’anni, solo più giovane e più cool”.
In filigrana c’è un certo fastidio generazionale: l’idea che l’industria abbia scelto Levy come “Zoomer girl” perché tatuata, online, pop, più che per un’autentica novità letteraria.
Il rischio “it girl” e l’etichetta generazionale
Un altro tema caro ai critici nato prima degli anni ’90 è il timore che Levy venga schiacciata nella figura di “it girl letteraria”, un po’ come è successo per molte autrici della cosiddetta sad-girl lit.
Il saggio su Substack Decentralized Fiction parla apertamente di “persona-based writing”: per l’autore, l’industria avrebbe incentivato Levy a performare sulla pagina la versione più furba di sé stessa, capitalizzando sul momento di hype piuttosto che aspettare un’opera più compiuta. Allo stesso tempo, riconosce che poche ventenni sarebbero in grado di scrivere racconti taglienti come “Cancel Me” e prevede che un esordio misto potrebbe aprire la strada a un romanzo più maturo.
Queste letture, pur critiche, sono figlie di uno sguardo millennial/gen X: abituato alle logiche di branding, consapevole di cosa significhi essere trasformati in “voce di una generazione” per ragioni che non sono mai solo artistiche.
E la gen z?
Com’è stata accolta dalle lettrici e dai lettori coetanei
Se passiamo alla ricezione gen z, il discorso cambia ancora. “My first book” è stato presentato fin da subito come “raccolta di racconti per capire cosa pensano i ragazzi di oggi” – basti vedere il titolo interrogativo dell’articolo di KQED: “What are the kids thinking these days?”.
Per i lettori coetanei di Levy, però, il libro non è un manuale: è uno specchio deformante. Nelle discussioni online citate da critici e blogger si alternano entusiasmo e rigetto: c’è chi lo trova finalmente rappresentativo del proprio modo di parlare e di pensare; chi lo bolla come “cringe”, troppo compiaciuto del proprio essere terminalmente online; chi si riconosce nei temi ma non nel privilegio economico e razziale del mondo raccontato.
Una parte della gen z legge Levy come una sorella maggiore che ha messo in parole l’esperienza di crescere con la webcam sempre accesa, fra ansia climatica, precarietà, overdose di contenuti. Rivista Blam sottolinea come i racconti affrontino proprio questi nodi – ansia per il futuro del pianeta, incertezza lavorativa, ricerca di identità – usando il linguaggio di chi abita in rete da sempre.
Altri, invece, percepiscono una distanza: come se Il mio primo libro fotografasse una fetta molto precisa di gen z (bianca, colta, occidentale, spesso universitaria) e lasci fuori il resto.
In questo senso la raccolta è interessante anche per chi è più grande: perché mostra quanto la categoria “gen z” sia tutt’altro che monolitica. Dentro ci stanno figli di miliardari e ragazzi che lavorano in magazzino, attivisti ecologisti e troll di 4chan, adolescenti di periferia e studenti di college d’élite. Levy sceglie deliberatamente di raccontare la sua bolla – e la critica, giustamente, glielo fa notare.
“Il mio primo libro” un oggetto culturale importante
- Fotografa il linguaggio di un’epoca. Fra vent’anni, molti dei riferimenti di Levy saranno incomprensibili senza note a piè di pagina, ma proprio per questo il libro sarà un documento prezioso su come parlavamo (o scrivevamo) all’inizio degli anni Venti. Le liste di slang – che vanno da “autismo” a “UwU”, da “woke” a “zoomer” – non sono solo estetica, sono un’analisi del potere che le parole hanno di ridefinire identità e conflitti.
- Mette in scena il cortocircuito fra online e offline. In molte storie è impossibile separare ciò che accade “nella realtà” da ciò che accade nello schermo: sexting, revenge porn, cancel culture, radicalizzazione in forum, tristezza che si misura in screenshot. Il libro rende esplicito qualcosa che sappiamo ma fatichiamo ad accettare: il web non è un altrove, è il luogo dove ormai viviamo.
- Rende tangibile l’ansia apocalittica che attraversa i ventenni. L’idea di un futuro cancellato – dal clima, dalle guerre, dalla tecnocrazia, dall’AI – attraversa tutte le pagine. Ma invece di grandi allegorie, Levy usa la micro-esperienza: la festa, la chat, il messaggio che non arriva, il video virale. È qui che il libro, a tratti, tocca davvero qualcosa di universale.