Fra i libri più intensi e stranianti di Ágota Kristóf, “Ieri” è uno di quelli che si leggono in poche ore e restano in testa per anni. È un romanzo di appena novanta pagine, pubblicato in francese a metà anni Novanta e arrivato in Italia per Einaudi, che mette in scena la storia di un uomo qualunque, Tobias Horvath, emigrato in un Paese senza nome, operaio in una fabbrica di orologi, ossessionato da una donna che forse esiste e forse no.
Non è un esercizio di stile minimalista fine a se stesso: è un libro che parla di esilio, povertà, invisibilità sociale, desiderio di scrivere e amore impossibile, tenendo insieme tutto questo con una lingua spogliata di orpelli. Diversi critici lo definiscono un “romanzo nero, tetro, disarmante” ma anche un piccolo gioiello capace di toccare “con lucidità una moltitudine di temi”, pur partendo da una trama esile.
Chi è Tobias Horvath?
Tobias viene da un’infanzia che il libro non addolcisce: è cresciuto nella miseria, all’ombra di una madre ladra e prostituta e di un padre violento. A un certo punto prende un coltello e li colpisce entrambi, poi fugge oltre il confine. Questo gesto, raccontato quasi senza enfasi morale, è la frattura che spezza in due la sua esistenza: prima e dopo, “ieri” e “oggi”.
Nel nuovo Paese si reinventa, cambia nome e diventa Sandor Lester. Vive in una stanza in affitto, lavora da anni in una fabbrica di orologi, ripetendo gli stessi gesti fino a svuotare il tempo. Il suo presente è fatto di turni di lavoro, corse in autobus, pasti in solitudine. Recensioni italiane l’hanno definito “una creatura del niente”, un operaio-scrittore che parte da questo vuoto per provare a costruirsi un’esistenza diversa.
Kristóf non lo presenta come un eroe tragico; Tobias è quasi spento, apatico, depresso. Tuttavia, sotto la superficie, coltiva un’ostinazione silenziosa: scrive, prende appunti, osserva le persone sull’autobus, aspetta.
Dalla fuga al sogno d’amore
L’elemento che rimette in moto la vita di Tobias è un incontro. Anni prima, nel suo villaggio, aveva conosciuto una bambina di nome Line, figlia del maestro, chiacchierona e spigliata. La ricorda come un lampo in mezzo al buio dell’infanzia.
Nel presente, su un autobus che porta gli operai in fabbrica, Tobias scorge una donna con una bambina in braccio. È convinto che sia proprio Line, diventata adulta. La rivede ogni giorno, scopre che lavora nel suo stesso stabilimento, si costruisce nella mente un futuro in cui lei sarà “moglie, amore, vita”, come scrive una recensione americana riassumendo i suoi pensieri.
Da questo momento la trama segue un doppio binario: da un lato la realtà grigia della fabbrica e della pensione, dall’altro la fantasia di Tobias che si illude di poter finalmente dare un nome al proprio desiderio. Ma Line è sposata, ha un figlio, e il sentimento di Tobias non trova un vero spazio per realizzarsi. Il romanzo procede come una lunga attesa che non porta a nessuna ricompensa, se non all’ennesima conferma che la vita, per lui, resta un corridoio senza uscita.
Kristóf alterna scene di quotidianità concreta a pagine che sembrano uscire dai quaderni del protagonista, quasi fossero brani del romanzo che lui sogna di scrivere. Questo gioco di piani, sottolineato anche da Publishers Weekly nella recensione dell’edizione inglese, dà al libro un tono sospeso, in cui non è sempre chiaro dove finisca il racconto della vita e inizi la finzione che Tobias inventa per sopravvivere.
Una vita in prestito
Vivere da stranieri, lavorare in fabbrica
“Ieri” è, prima di tutto, un romanzo sull’esilio. La fabbrica di orologi dove lavora Sandor/Tobias è descritta come un luogo grigio, ripetitivo, che risucchia energie e senso, ma è anche un chiaro rimando alla biografia di Kristóf, emigrata dall’Ungheria alla Svizzera francofona e impiegata per anni proprio in una manifattura di orologi.
Diverse letture critiche sottolineano come il libro si appoggi sulla “realtà triste e senza speranza di chi, lontano dalle proprie radici, trascina la propria vita tra le mura di una fabbrica”, ferito per sempre dall’infanzia.L’emigrazione non è raccontata come avventura o occasione: è un movimento coatto, dettato dalla necessità di fuggire, che porta a una vita sospesa in cui si sopravvive più che vivere.
Tobias, operaio abulico, è il volto di chi non riesce più a immaginare un futuro: sale sul bus all’alba, scende davanti allo stabilimento, ripete gesti che non producono senso. Il tempo scorre, ma non costruisce nulla. Questo immobilismo sociale è la base su cui si innestano gli altri temi del libro: il bisogno di reinventarsi, l’ossessione amorosa, la scrittura come unico luogo in cui le cose sembrano avere una forma.
Tradotto in un’altra lingua
Un altro aspetto interessante, spesso rimarcato dagli studiosi, riguarda la lingua. Kristóf scrive “Ieri” in francese, la seconda lingua che ha imparato da adulta; all’interno del romanzo, Tobias/Sandor è un immigrato che parla l’idioma del Paese d’arrivo, ma pensa e sente ancora nella propria lingua madre.
Una studiosa ha definito “Ieri” “il più autobiografico dei suoi romanzi”, proprio perché mette in scena questa frattura fra idiomi: al principio del libro compaiono poesie che Tobias scrive nella sua lingua d’origine e poi traduce, quasi a verificare se le parole restino le stesse dopo il passaggio.
La vita di Tobias è, in fondo, una vita tradotta. anche il suo nome cambia, come se per esistere davvero nel nuovo mondo dovesse diventare un altro. Il romanzo insiste spesso su questo slittamento: fra il nome ungherese e quello “europeo”, fra il villaggio d’origine e la città industriale, fra il dialetto dell’infanzia e il francese imparato sui manuali. È un’esperienza che ricorda quella di molti migranti del Novecento, e che Kristóf aveva già esplorato nella “Trilogia della città di K”, ma qui viene concentrata in un’unica figura, spezzata e silenziosa.
L’amore impossibile di Tobias e Line
L’infanzia, la ferita originaria
Line non è solo un personaggio: è un’ossessione che attraversa tutto il libro. Da bambino, Tobias la conosce a scuola. Lei è figlia del maestro, privilegiata e vivace; lui è il ragazzino povero a cui il maestro porta i vestiti usati dei figli, visitando troppo spesso la madre.
Questa differenza sociale e affettiva segna Tobias in profondità. Line rappresenta il primo barlume di attenzione non umiliante, un volto associato all’idea che la vita possa essere “qualcosa” invece che “niente”, come dice la frase iniziale del romanzo, spesso citata nelle recensioni: l’idea che esista un altrove possibile, fuori dalla miseria.
Quando Tobias diventa Sandor e si ritrova a riconoscere quel nome su un autobus, sembra quasi che il passato torni a prendersi la rivincita sul presente. La Line adulta, però, non coincide con l’immagine che lui ha coltivato in testa per anni: ha una famiglia, una vita propria, è presa da problemi quotidiani che non ruotano affatto attorno a lui.
Quando il sogno incontra la realtà
Critici francesi e italiani concordano nel definire “Ieri” la storia di un grande amore impossibile, raccontato con la “semplicità e la precisione” tipiche di Kristóf.
L’impossibilità non dipende da un ostacolo melodrammatico, ma dal fatto che l’amore di Tobias è profondamente asimmetrico: lui vive per Line, lei fatica perfino a riconoscerlo.
Il romanzo mostra quanto possa essere pericolosa la distanza fra l’immagine che costruiamo dell’altro e la persona reale. Sandor idealizza Line al punto da trasformarla in un’ancora di salvezza: se lei lo amerà, tutto il resto – il lavoro alienante, il passato violento, la solitudine – troverà finalmente un senso. Ma il mondo non si riorganizza attorno ai nostri sogni, e “Ieri” non concede scorciatoie sentimentali.
È proprio in questo contrasto che il romanzo trova la sua forza: l’amore non appare mai come cura, semmai come ulteriore amplificatore del vuoto.
La scrittura di Ágota Kristóf: un’arte povera che taglia
Prosa secca, quasi senza psicologia
Molti lettori rimangono colpiti dalla brevità di “Ieri”. Novanta pagine, frasi corte, pochissime descrizioni. È una scelta consapevole: Kristóf ha spesso dichiarato di sentirsi più a suo agio con una lingua “povera”, da lei imparata tardi, che la costringe a eliminare il superfluo.
Le recensioni parlano di “scrittura serrata, essenziale, incisiva” e di parole che “penetrano nell’anima come lame affilate”.I pensieri di Tobias vengono riportati senza commento, i gesti si ripetono, i dialoghi sono secchi, spesso tagliati. Non ci sono lunghe introspezioni, eppure il malessere del protagonista è chiarissimo: emerge dalle azioni, dai silenzi, dal modo in cui guarda il mondo.
Questo stile, che qualcuno ha accostato a una sorta di “arte povera” della prosa, rende l’esperienza di lettura quasi fisica. Non ci sono frasi ad effetto che cercano di commuovere; c’è una lingua che registra con precisione il vuoto, la stanchezza, i piccoli scarti che mandano in frantumi la routine.
Come “Ieri” lavora sul vuoto
Uno dei nuclei tematici più citati della poetica di Kristóf è il “niente che sa creare”. Una recensione italiana lo formula così: «un libro che racconta di una creatura del niente, ma è da questo nulla che fiorisce l’anima del protagonista».
“Ieri” prende sul serio questa idea. Tobias crede di non avere nulla: nessuna famiglia, nessuna patria, nessuna vera relazione. Eppure proprio da questo vuoto nasce il suo desiderio di scrivere e di amare. Non c’è redenzione in senso religioso o consolatorio; c’è piuttosto la consapevolezza che l’esperienza di chi non possiede niente riesce a vedere con più lucidità ciò che gli altri danno per scontato.
Anche la struttura del romanzo, con la continua oscillazione fra ricordo e presente, fra sogno e fabbrica, lavora su questo vuoto. Le giornate di Tobias sono uguali, ma ogni volta che Line appare sull’autobus o nel reparto, qualcosa si sposta. È come se il “niente” della sua vita venisse continuamente messo alla prova da un minuscolo “qualcosa” che però non riesce mai a diventare vero cambiamento.
“Ieri” dentro il percorso di Kristóf
Un romanzo quasi autobiografico
Diversi critici hanno osservato che “Ieri” è, fra i romanzi di Kristóf, uno dei più vicini alla sua biografia. Un articolo francese lo definisce “romanzo che non sembra autobiografico, eppure è il più autobiografico di tutti”, sottolineando le somiglianze fra il destino di Tobias e quello dell’autrice: l’esilio dall’Ungheria, il lavoro in fabbrica, la fatica di abitare una lingua nuova, il desiderio di scrivere comunque.
In questa prospettiva, “Ieri” può essere letto come il rovescio più intimo della “Trilogia della città di K”. Se nei tre romanzi dei gemelli la guerra e la storia collettiva occupano la scena, qui tutto è concentrato su un solo individuo perso in una città industriale. Niente fronti, niente eserciti, niente occupazioni: solo un autobus, una fabbrica, un uomo e la sua ossessione.
L’autrice sembra chiedersi che cosa resta di una vita quando si taglia via la dimensione epica e si guarda solo il dopo, gli anni in cui non succede apparentemente nulla. Il risultato è un libro che mette radicalmente in discussione la retorica del “rifarsi una vita” in un altro Paese: Tobias non si rifà proprio niente, continua a sopravvivere portandosi dietro tutte le ferite.
Un piccolo libro per lettori esigenti
Nel panorama della narrativa del Novecento, “Ieri” può essere consigliato a chi ama i romanzi intensi e cupi, accostato tanto ai classici russi quanto ai noir psicologici contemporanei. C’è chi lo definisce “un esempio di confessione a cuore aperto tra vittima e carnefice”, chi già lo ritiene un “classico del Novecento”.
In definitiva, è perfetto per chi ama storie moralmente complesse. Non è un libro accomodante. In meno di cento pagine, “Ieri” concentra un tema enorme: che cosa significa vivere quando non ci si sente più a casa in nessun luogo, e quando l’unica via di fuga sembra essere un amore che esiste soprattutto nella nostra testa.
