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Hosseini, ”I miei libri raccontano un Afghanistan diverso da quello conosciuto in Occidente”

Gli afghani hanno un grande senso dell’umorismo, a dispetto di quanto si possa credere e delle sofferenze che hanno dovuto partire. Ad affermarlo è Khaled Hosseini, l'autore di origini afghane che ha commosso il mondo con ''Il cacciatore di aquiloni''...
Lo scrittore, ospite a Milano, ha raccontato della sua famiglia, della sua vita e del suo ultimo libro, “E l’eco rispose”, dichiarandosi ottimista sul futuro del suo Paese d’origine, di cui si ha troppo spesso un’immagine deformata da pregiudizi e stereotipi 
MILANO – Gli afghani hanno un grande senso dell’umorismo, a dispetto di quanto si possa credere e delle sofferenze che hanno dovuto partire. Ad affermarlo è Khaled Hosseini, l’autore di origini afghane che ha commosso il mondo con “Il cacciatore di aquiloni”, “Mille splendidi soli” e “E l’eco rispose”, l’ultimo suo libro uscito quest’estate. Qui racconta la storia di una famiglia – il padre Sabur, sua figlia Pari e il figlio maggiore Abdullah – in viaggio dal piccolo villaggio di Shadbagh verso Kabul. Un viaggio di cui Abdullah non sa spiegarsi il motivo, ma che intuisce oscuramente sia destinato a lacerare per sempre le loro vite. Lo scrittore ne ha parlato a Milano in questi giorni, protagonista di un incontro alla Libreria Feltrinelli di piazza Piemonte.
LA FAMIGLIA, ARGOMENTO LETTERARIO AFFASCINANTE – “La famiglia è fonte di dolori ma anche di felicità”, riflette Hosseini. “Questi sono argomenti che ritengo assolutamente dinamici per il mio scrivere: sentimenti come l’amore, la lealtà, l’amicizia, l’odio, il tradimento, la gelosia, la perdita, il rimpianto sono sentimenti  che popolano la vita di tutte le famiglie, la fonte di contraddizioni dinamiche, e sono ciò che rende la famiglia un argomento così affascinante.”
LA STORIA E LA FAMIGLIA DELLO SCRITTORE – Hosseini, figlio di un diplomatico e di un’insegnante di letteratura e lingua fārsì, ovvero persiana, e ultimo di cinque fratelli, racconta anche della sua famiglia di origine. “Abbiamo lasciato l’Afghanistan  nel 1976, eravamo in nove: io, i miei tre fratelli, mia sorella, mia zia, mio nonno e i miei genitori. Con il tempo poi, mio padre e mio nonno sono morti, siamo rimasti in sette. Nessuno di loro è mai più tornato in Afghanistan, tranne me”. Riguardo al suo rapporto con i fratelli dice: “Siamo tutti nella quarantina – io ho 48 anni adesso. È un’età meravigliosa, in cui fai pace non solo con te stesso, ma anche con tutti gli altri della famiglia. Si diventa amici, si sente davvero la possibilità di essere vicini gli uni agli altri. È questo enorme e bellissimo senso di contatto profondo che spinge a incontrarsi, a frequentarsi. Il rapporto tra fratelli non è sempre miele: in certi momenti tuo fratello è il tuo migliore amico, in altri è la persona che più odi al mondo. Ma questo fa parte del pacchetto della vita. Noi abitiamo tutti in California e almeno due volte al mese ci troviamo a giocare a poker”.
IL LIBRO – Lo scrittore racconta ancora com’è nata la storia di “E l’eco rispose”. “Nel 2008 mi è capitato di leggere la storia di una coppia di un piccolo paese afghano molto povero, che in una situazione di grande disperazione, a causa delle insostenibili condizioni di indigenza in cui si trovava, aveva deciso di vendere due dei figli a una coppia più ricca che viveva  a Kabul. Questa storia ha toccato le corde più profonde della mia anima: il pensiero di un avvenimento così tragico e triste mi ha spinto a riflettere e a confrontarmi con mio padre. Lui mi disse, me lo ricordo bene, che questo succedeva anche negli anni Cinquanta. Questa è stata la scintilla che mi ha portato a scrivere questo libro. Una cosa di questo genere per me è assolutamente inconcepibile”, prosegue lo scrittore. “Anche io sono padre di due figli: mio figlio ha 12 anni e mia figlia 10. Vedo quanto sono attaccati a me , ma anche quanto sono legati uno all’altro: osservare loro mi ha insegnato molto per la scrittura di questo libro. Guardando loro mi sono chiesto: che situazione mai potrebbe essere quella in cui io mi trovassi a dar via uno di loro? Che tipo di dolore potrebbe causare questo in me e in loro?”
UN PERSONAGGIO AUTIBIOGRAFICO – C’è un capitolo del libro in cui si narra la storia di due cugini, Idris e Timur, che dopo essere vissuti per più di vent’anni in America, nella California settentrionale, nel 2003 decidono di far ritorno in Afghanistan per una visita turistica. Uno di loro, Idris, è un medico, ha una vita di successo, ma quando torna a Kabul si sente dilaniato dai sensi di colpa. “Per lui è un’esperienza emotiva intensissima”, spiega l’autore: “da un lato si sente a casa propria, dall’altro si sente come un pesce fuor d’acqua, non ha nessun senso di appartenenza, nessun senso di integrazione o di interazione con la popolazione locale. Anzi, è continuamente assillato dal dubbio di sbagliare tutto.  Pian piano questo smarrimento si trasforma in senso di colpa, perché vede quelle persone per le strade e avverte che lui avrebbe potuto essere ognuno di loro se non se ne fosse andato: loro sono semplicemente vittime della cattiva sorte, mentre lui è un privilegiato. Questa è un po’ la mia storia: se mio padre non fosse stato assegnato a Parigi come diplomatico e se non fossimo partiti nel 1976, io non so dove sarei e cosa sarei oggi, e questo mi accomuna al mio personaggio.”
IL VIAGGIO DI HOSSEINI IN AFGHANISTAN – “Personalmente, quando io sono tornato in Afghanistan”, prosegue a raccontare Hosseini, “ho avuto un tremendo shock culturale. Ma non per quello che ho visto lì, bensì per quello che mi sono accorto era la California quando sono rientrato. È stato come se avessi aperto gli occhi per la prima volta su tutte le cose banali, mondane, superflue e ridicole della vita lì, alle quali noi diamo sempre troppa importanza. È come se avessi dovuto modificare tutto a un tratto la mia prospettiva sulla vita e venire a patti con questo senso di colpa nei confronti dell’Afghanistan. Ecco perché ho creato una mia Fondazione, il cui scopo è quello di sostenere i profughi, per trasformare questo senso di colpa, questo sentimento negativo, in qualcosa di positivo e utile per quelle persone”.
LA FONDAZIONE – “L’idea primigenia della mia Fondazione era proprio quella di assistere quelli che sono i personaggi dei miei libri: chi è povero e vive ai margini della società, chi è più bisognoso di aiuto, in particolare le donne e i bambini”, continua a raccontare l’autore. “Abbiamo lanciato, in collaborazione con le Nazioni Unite, un programma per la costruzione di abitazioni per i profughi che rientrano dal Pakistan in Afghanistan dopo la caduta dei talebani. Queste persone si sono trovate senza niente, non hanno dove andare, a volte si impadroniscono illecitamente di spazi pubblici. Ci siamo anche impegnati in programmi per il lavoro, la sanità e l’infanzia. L’iniziativa che più ho apprezzato è stata quella a favore dei bambini che lavorano alla produzione dei tappeti: i tappeti afghani sono meravigliosi, ma tanto più sono belli, tanto i più i nodi devono essere sottili e tanto più richiedono piccole mani per essere annodati. Noi ci siamo impegnati per garantire uno statuto legale a tutela di questi bambini, per assicurare loro almeno un’istruzione primaria e tempo per giocare.”
IL FUTURO DELL’AFGHANISTAN – A proposito di una ragazzina che tanto ha fatto parlare di sé ultimamente, Malala, candidata al Premio Nobel per la Pace di quest’anno, Hosseini commenta: “Mi sarebbe piaciuto se avesse vinto il Nobel, davvero gesti come il suo possono cambiare il mondo”. E quanto al destino delle bambine in Afghanistan, lo scrittore dichiara che se questo Paese vuole avere un futuro deve risolvere al più presto il problema di garantire un’istruzione per le donne. In lui non manca la speranza: del resto, l’Afghanistan che ricorda è un Paese precedente all’invasione russa e ai talebani, dove le donne potevano scrivere, dove un uomo non doveva avere paura se era omosessuale. “L’Afghanistan è un territorio con una tessitura complessa di società e culture che nessuno ricorda. Con i miei libri ho voluto spazzare via molti stereotipi. I tg occidentali trasmettono una visione di quel Paese univoca, come se non ci fossero nient’altro che il terrorismo e le sue vittime. In verità gli afghani sono un popolo molto più affascinante e variegato: sono interessanti, divertenti e hanno un grande senso dell’umorismo.”
 
  
15 ottobre 2013
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