Quando l’Accademia di Svezia ha assegnato il Nobel a Han Kang “per la sua intensa prosa poetica che mette a confronto i traumi storici con la fragilità della vita umana”, molti lettori hanno pensato subito a “La vegetariana” o ad “Atti umani”. Ma è con “Non dico addio” – uscito in Corea nel 2021 e arrivato in italiano per Adelphi nel 2024, tradotto da Lia Iovenitti – che questa motivazione trova forse la sua forma più compiuta.
L’autrice stessa ha definito il libro “una candela accesa negli abissi dell’anima umana” e, nella nota finale, ha confidato di aver voluto scrivere “un libro sull’amore estremo”.
È un modo semplice per dire qualcosa di molto complesso: raccontare un massacro quasi rimosso dalla storia coreana – la strage di Jeju del 1948-49 – senza mai trasformare le vittime in numeri o in puro materiale documentario, ma tenendo insieme il dolore collettivo e le vite fragili di tre donne.
Il risultato è un romanzo che la critica internazionale ha già cominciato a considerare tra i vertici della sua opera: Le Monde lo ha presentato come “probabilmente il miglior romanzo di Han Kang” dagli esordi, mentre la casa editrice italiana insiste, non a torto, sulla scrittura “lirica e implacabilmente precisa, fatta di istanti congelati in volo che brillano come cristalli”.
Di cosa parla “Non dico addio”
Un cimitero sul mare e una scrittrice in frantumi
Il libro si apre con un sogno: un mare che arretra, lasciando scoperti tronchi neri come lapidi, un cimitero immenso sul fondale gelato. La neve cade rada, le onde salgono e spazzano via tutto, ossa comprese. È un’immagine apocalittica, che ritorna più volte nel romanzo e che Han Kang fa pesare sul corpo e sulla psiche della protagonista, Gyeong-ha, scrittrice sulla soglia della mezza età.
Gyeong-ha vive a Seoul, ha appena pubblicato un libro sul massacro di Jeju e ne è stata travolta. Il matrimonio è in pezzi, la figlia è ormai adulta, il sonno è invaso da incubi ricorrenti. Passa giornate intere a tentare di scrivere il proprio testamento, ma ogni foglio finisce strappato: non riesce a trovare le parole per un “vero addio, un addio ben fatto”, come nota Anna Ditta su WeltLit.
L’appello dell’amica e il viaggio verso l’isola di Jeju
La storia cambia direzione con un messaggio sul cellulare. A scriverle è In-seon, vecchia amica e collega, artista e documentarista che si è ritirata da anni sull’isola di Jeju per prendersi cura della madre Jung-shim, sopravvissuta alla strage. Dopo un incidente in falegnameria – si è amputata due dita con la sega elettrica – In-seon è ricoverata d’urgenza a Seoul. Le chiede un favore minuscolo e sproporzionato: prendere il primo volo per Jeju per dare da bere a uno dei suoi due pappagallini, Ama, che rischia di morire di sete.
Gyeong-ha parte quasi senza pensarci, come se quel gesto irrazionale fosse l’unica decisione possibile. Il viaggio, però, non è un semplice spostamento geografico. Una tempesta di neve investe l’isola, i collegamenti si bloccano, e la protagonista si ritrova a camminare in un paesaggio irreale, dove ogni passo nella neve sembra un passo più a fondo nel proprio incubo.
Tre donne legate dal filo della memoria
A Jeju non la aspetta solo il pappagallo Ama. La casa di In-seon è un archivio vivente: fotografie, filmati, appunti sul massacro che ha segnato la sua famiglia. Jung-shim, la madre, è una donna anziana che porta nel corpo e nella mente i resti di ciò che ha visto: fratelli scomparsi, villaggi bruciati, fosse comuni.
Poco a poco il romanzo intreccia le voci di queste tre donne – la scrittrice, la documentarista, la sopravvissuta – come se fossero variazioni della stessa esistenza. La critica ha spesso insistito su questo punto: L’Indiependente parla di “ghost story a cavallo tra passato e presente”, dove i piani narrativi si mescolano fino a confondere chi legge.
Non c’è solo la ricostruzione di un evento storico, ma una vera e propria catabasi emotiva: il ritorno di Gyeong-ha a Jeju diventa il pretesto per scoperchiare il massacro di circa trentamila civili accusati di essere comunisti, una pagina rimossa della storia sudcoreana che emerge “a poco a poco, all’aumentare della neve e del freddo”.
Metafore e immagini: neve, mare, nervi, uccelli
La neve che distorce il mondo
Neve e ghiaccio sono ovunque nel libro. Non sono solo decorazione invernale. Nella lettura di Isabella Cho su Harvard Review, la neve è descritta come un elemento che possiede “un’irrealità” intrinseca, capace di segnare i passaggi decisivi del romanzo: la veglia accanto a In-seon in ospedale, il viaggio verso l’isola, le camminate nel paesaggio deserto.
La neve, scrive Han Kang, rende improvvisamente nitida la distinzione tra ciò che conta e ciò che non conta; è fragile al tatto, ma quando si accumula può seppellire ogni cosa. È l’immagine perfetta del trauma: qualcosa che in sé dura poco – uno sparo, una notte di violenza – ma le cui conseguenze si depositano per anni, fino a sommergere intere generazioni.
Il mare che arretra e il “cimitero sul mare”
Se la neve cade dall’alto, il mare arriva dal basso. Nel sogno iniziale il mare arretra, lasciando a nudo i tronchi-lapidi. Nella descrizione dell’edizione italiana – ripresa anche da Goodreads – si parla di “un vasto cimitero sul mare”, dove una marea che sale minaccia di inghiottire le tombe e trascinare via le ossa.
Mare e neve sono due forze che cancellano e rivelano allo stesso tempo. Il mare che si ritira scopre ciò che era stato sepolto, la neve ricopre ma anche mette in risalto i contorni. Sono metafore della memoria: ricordare significa vedere ciò che è riemerso, ma anche accettare che qualcosa resti per sempre sotto la superficie.
I nervi recisi e il dolore come condizione della guarigione
Una delle immagini più forti del romanzo non ha a che fare né con il paesaggio né con la guerra, ma con le dita di In-seon. Nelle prime pagine, Gyeong-ha la osserva in ospedale mentre una infermiera inietta un farmaco ogni tre minuti nelle dita appena riattaccate. In-seon le spiega che quel dolore è indispensabile: «Se non lo sento, i nervi sotto il taglio muoiono».
Per la recensione di Harvard Review, questa scena è la chiave metaforica del libro: come i nervi devono restare vivi attraverso una sofferenza controllata, così una società deve continuare a sentire il dolore del proprio passato per non lasciarne morire la memoria. Il romanzo di Han Kang “è assorbito dai nervi”, dall’idea che la sopravvivenza passi attraverso una forma di dolore consapevole.
Ama e Ami, i pappagalli come ponte tra i mondi
Ama e Ami, i due pappagalli di In-seon, sono forse gli elementi più spiazzanti del libro. In apparenza sono solo animali domestici, quasi un dettaglio eccentrico. In realtà funzionano come un controcanto di leggerezza a un romanzo cupo.
Il compito di Gyeong-ha è salvare un uccello, non una persona: un atto minimo che però le impone di attraversare una tempesta di neve, di rimettere in moto il corpo e la volontà.
Ama diventa così una sorta di talismano, un “portale” simbolico attraverso cui passano i legami tra le tre donne e la storia dell’isola, come osserva Harvard Review: prendersi cura del pappagallo significa, per Gyeong-ha, tentare di prendersi cura anche delle proprie ferite e di quelle altrui.
I grandi temi
Il trauma storico di Jeju
Il romanzo si radica in un evento reale: tra il 1948 e il 1949, sull’isola di Jeju, la repressione di una rivolta anti-autoritaria portò allo sterminio di villaggi interi, con almeno trentamila civili uccisi dalle forze governative, spesso accusati genericamente di comunismo.
Per decenni di questa strage si è parlato poco, fino alle scuse ufficiali del governo sudcoreano nel 2006. Han Kang non scrive un saggio storico: le pagine che descrivono direttamente le esecuzioni e le fosse comuni sono relativamente poche, ma la strage è la pressione costante che deforma i sogni, i ricordi, gli amori dei personaggi.
Jung-shim è la testimone diretta: porta in sé il peso di un fratello scomparso, di cui non si è mai trovato il corpo. In-seon eredita questo trauma e cerca di trasformarlo in immagini, legno, filmati. Gyeong-ha, che arriva da fuori, lo affronta attraverso la scrittura. Il trauma si trasmette come un’onda lunga, di madre in figlia, ma anche di sopravvissuta in scrittrice, di storia in letteratura.
L’amore estremo come gesto politico
Dire che “Non dico addio” è “un libro sull’amore” potrebbe sembrare quasi provocatorio, considerando la materia di cui tratta. Ma Han Kang lo ripete con ostinazione, e diversi critici hanno preso sul serio questa dichiarazione.
L’amore qui non è un sentimento romantico, ma la scelta di rimanere accanto ai morti e ai vivi quando sarebbe più facile girarsi dall’altra parte. È l’amore di Jung-shim per il fratello scomparso, che continua a cercare tra ossari e archivi; quello di In-seon per la madre, che la spinge a lasciare Seoul e a dedicare la vita alla memoria di Jeju; quello di Gyeong-ha che, pur distrutta, risponde al messaggio dell’amica e si mette in viaggio.
Forse l’atto d’amore più radicale è proprio quello della scrittura: accettare di “scendere negli inferi” della storia, sapendo che questo non porterà mai a una verità definitiva ma che è l’unico modo per rendere giustizia ai fantasmi.
L’impossibilità di dire davvero addio
Il titolo italiano, “Non dico addio”, e quello inglese, “We do not part”, vanno nella stessa direzione: il romanzo ruota attorno a un addio che non si compie mai. La protagonista cerca di scrivere il proprio testamento e non ci riesce; le famiglie delle vittime vorrebbero un corpo, una bara, qualcosa di definitivo da stringere tra le mani e non lo trovano; le tre donne non riescono a separarsi davvero l’una dall’altra, nemmeno nella morte.
C’è sempre “una desolata linea di confine”, come la chiama Gyeong-ha, fra vivi e morti, fra il passato e il presente. Ma quella linea non è una barriera netta: è una soglia mobile, un filo tremolante che unisce i personaggi come la luce che sembra esistere in due luoghi allo stesso tempo.
In questo non-addio c’è un rifiuto dell’oblio. Non sciogliere il legame con chi non c’è più significa assumersi la responsabilità di ricordare: non un culto malinconico, ma un gesto politico e affettivo insieme.
Come ne ha parlato la critica internazionale
Una scrittura “stark as well as ethereal”
La critica anglosassone ha accolto “Non dico addio” come una conferma della centralità di Han Kang nella narrativa contemporanea. The Guardian ha definito il romanzo “un viaggio sconvolgente nella sanguinosa storia coreana” e ha sottolineato come la sua struttura a incastri – fatta di ricordi, dialoghi, sogni – riesca a tenere insieme l’orrore storico e il realismo magico, senza mai rompere la cornice quasi autofinzionale del racconto.
Lo stesso giornale ha parlato di una prosa “stark as well as ethereal”: scarna e al tempo stesso rarefatta, capace di essere chirurgica quando descrive la violenza, e insieme quasi incantata quando si ferma sui dettagli di un fiocco di neve o del piumaggio di un uccello.
Harvard Review legge il romanzo come un tassello coerente nell’itinerario di Han Kang: dopo la fame e il rifiuto del corpo de La vegetariana e la riflessione sul linguaggio di “L’ora di greco”, qui al centro ci sono i nervi, la percezione, la possibilità di fidarsi o meno dei propri sensi. Il libro, scrive la rivista, “vacilla tra lucidità e nebbia”, corteggia continuamente letture allegoriche ma, allo stesso tempo, rifiuta qualsiasi spiegazione troppo ordinata.
La lettura spagnola: “una poderosa denuncia contra el olvido”
Nella versione spagnola, “Imposible decir adiós”, la critica ha insistito molto sulla dimensione politica del romanzo. Un articolo di El País lo definisce un inno all’amicizia e un “poderoso denuncia contra el olvido”, una denuncia potente contro l’oblio, rimarcando come la storia sepolta della famiglia di In-seon emerga attraverso sogni, ricordi e un archivio meticoloso di documenti sulla strage di Jeju.
È interessante che nelle diverse lingue il titolo cambi leggermente sfumatura – dall’impossibilità di dire addio alla scelta di non separarsi – ma il nucleo rimanga lo stesso: non c’è pace senza memoria, non c’è guarigione senza passar attraverso il dolore.
Perché leggere “Non dico addio”
C’è una ragione per cui “Non dico addio” è entrato nelle liste dei migliori libri dell’anno e sta circolando in tutte le principali lingue. Non è solo la forza del tema, né la curiosità per il primo romanzo tradotto dopo il Nobel. È la sensazione, forte, che Han Kang stia lavorando esattamente sul nodo che ci riguarda tutti: come convivere con un passato collettivo traumatico senza esserne schiacciati e, allo stesso tempo, senza cedere alla tentazione di dimenticare.
Nel suo piccolo, il viaggio di Gyeong-ha rispecchia il nostro. Anche noi viviamo in un tempo in cui la memoria storica è continuamente rimessa in discussione, in cui le guerre e le violenze sembrano lontane finché non irrompono – sotto forma di immagini, notizie, traumi familiari – nella nostra quotidianità.
“Non dico addio” mostra una protagonista stanca, che ha rinunciato quasi a tutto, e che tuttavia decide di muoversi, di rispondere alla richiesta di un’amica, di salvare un pappagallo nella neve. È un gesto minimo e insieme enorme: l’idea che prendersi cura di una creatura fragile, di un oggetto di memoria, di una storia dimenticata, sia il modo concreto che abbiamo per opporci all’oblio.
Han Kang usa una lingua limpida e tagliente, fatta di immagini che restano addosso – la neve che cade lenta, il mare che arretra lasciando scoperte le tombe, il sangue che torna a scorrere nelle dita di In-seon – per costruire un romanzo che è insieme doloroso e stranamente consolante. Non perché allevi il dolore, ma perché lo riconosce, lo illumina, lo tiene in mano come quella candela negli abissi di cui parla l’autrice.