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Grazia Deledda e ricordi di Sardegna

Il viaggio origina ponti, collegamenti, unioni. Espande le distanze, ma non recide cordoni ombelicali che tengono saldamente congiunti alla propria identità di prole svezzata in una porzione terra e da un insieme di uomini e donne che si riconoscono come popolo...

Il viaggio origina ponti, collegamenti, unioni.

Espande le distanze, ma non recide cordoni ombelicali che tengono saldamente congiunti alla propria identità di prole svezzata in una porzione terra e da un insieme di uomini e donne che si riconoscono come popolo.

Il viaggio aggiunge e arricchisce, non sottrae e non depaupera: rende il mondo più piccolo, il cuore più grande, i passi più lesti, eppure non snatura nell’intima essenza.

La valigia simboleggia proprio questa fusione, del tutto personale, di spazi, tempi e idee.

E’ perfetta immagine, visibile e tattile, di ciò di ciò che siamo e di quanto ci portiamo al seguito, per sempre; di ciò che diventiamo, di volta in volta, aggiungendo nuove tessere al mosaico in fieri; e di ciò che, in futuro, saremo, mai stanchi di evolverci e di accogliere sfumature, colori e forme. Ancora e ancora.

 

Dovunque io mi trovi, i libri di Grazia Deledda mi ricordano da dove sono partita.

 

Ed eccomi.

Sono distesa sulla nuda roccia, battuta dalla furia del maestrale, limata e forgiata da sale e sole, isola nell’Isola, pronta a far calare i ponti levatoi.

Sono canna al vento, Jana misteriosa, creatrice di potenti amuleti, figlia della Luna, virgulto nel ventre della terra, scrigno negli abissi del mare.

Sono sarda, come Grazia Deledda, e della mia terra natale conosco i segreti più occulti, ne scorgo l’invisibile, ne interpreto i silenzi.

 

Nell’opera della grande scrittrice, insignita del Premio Nobel per la Letteratura nel 1926,  la Sardegna, per la sua posizione liminare, non viene intesa come uno spazio dai connotati realistici, ma come non-luogo, nel quale mettere in scena, in chiave puramente onirica ed immaginifica, tragedie e drammi universali.

Infatti, su ogni atavica dimora, su ogni tanca selvaggia, su ogni maestoso paesaggio, ma, soprattutto, su ogni fragile esistenza umana incombe un’inquietante presenza che può assumere il nome di Fato o di Dio.

Ma, pur ricurvi sotto il crudele giogo del destino, pur percependo l’infamante onere della colpa e trovandosi ineluttabilmente coinvolti in un epico scontro tra il peccato e il desiderio di redenzione, tra le proprie intime passioni elementari e le norme morali imposte dalla società, gli uomini non cessano di lottare, stremandosi in un’ossessiva quête di rettitudine e purezza.

Tuttavia, in questo combattimento, essi non riescono a sottrarsi ad un percorso già fissato. Questa concezione trova le sue radici nella cultura greca arcaica per la quale i delitti commessi dal singolo reclamano vendetta anche presso la progenie: l’insuperabile ostacolo alla felicità deriva, dunque, da una sorta di tara genetica, da un passato recepito come un oscuro antro in cui le proibizioni sovrastano le aspirazioni personali.

 

Ma i protagonisti della narrativa di Grazia Deledda sono vittime soprattutto di sé stessi, olocausti dei meandri tenebrosi della propria coscienza, dei principi morali, religiosi e civili, che, introiettati nell’inconscio, seguitano ad imporsi nella società periferica della Sardegna, la quale, pur allegoricamente immersa in una preistoria infinita, è teatro di vita e di progresso. Canne al vento, dunque, soggetti alla forza incontenibile e misteriosa della vita.

 

Era il sospiro delle canne e la voce sempre più chiara del fiume: ma era soprattutto un soffio, un ansito misterioso che pareva uscire dalla terra stessa; sì, la giornata dell’uomo lavoratore era finita, ma cominciava la vita fantastica dei folletti, delle fate, degli spiriti erranti”.

Grazia Deledda, Canne al Vento.

 

Emma Fenu

 

Foto: Silvia Montis

21 settembre 2014

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