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Giuseppe Ayala, ”Borsellino era un uomo di una ironia imbarazzante e dissacrante, era impossibile non ammirarlo”

SPECIALE PAOLO BORSELLINO - Il magistrato Giuseppe Ayala, membro del Pool Antimafia di cui fecero parte Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, ricorda il giorno della morte del collega e amico il 19 luglio 1992. La testimonianza della strage di via D'Amelio, avvenuta a pochi passi dalla sua abitazione, raccontata attraverso alcuni brani tratti dal libro ''Chi ha paura muore ogni giorno'', scritto dal magistrato in onore delle due figure che hanno sacrificato la vita per difendere le Istituzioni, la legalità e la libertà di tutti...

Domenica 19 luglio, tornato dal mare, stavo riposando. Intorno alle sei del pomeriggio sentii un boato che mi fece saltare dal letto. Mi affacciai, ma non notai nulla di particolare. Dopo qualche minuto vidi un’enorme nube nera superare i dieci piani del palazzo di fronte a casa mia. Scesi in strada. La scorta mi seguì. Dopo duecento metri i nostri occhi furono costretti a una visione che a qualunque essere umano andrebbe risparmiata. E che non descrivo. Inciampai in un tronco di uomo bruciato. Era quello che restava di Paolo Borsellino. Fui il primo a vederlo in quello stato. Sarò l’ultimo a dimenticarlo.
[…] L’intesa tra i due [Falcone e Borsellino] era formidabile quanto l’affetto e la stima che li legava. Si conoscevano da bambini, essendo nati entrambi nello storico quartiere della Kalsa. Erano diversi, ma si completavano a vicenda. Paolo aveva un carattere aperto e cordiale che lo portava a instaurare con facilità rapporti umani, nei quali riversava sempre la sua schiettezza. Giovanni era timido, sembrava frapponesse qualcosa tra sé e gli altri. Non posso dire che fosse introverso, ma era istintivamente portato a celare i suoi sentimenti dietro il riparo della discrezione.
Si erano ritrovati da poco. Giovanni era stato lontano da Palermo per molti anni. Pretore a Lentini, prima, giudice a Trapani, dopo. Anche Paolo aveva cominciato la carriera facendo il pretore, a Monreale però, e cioè a un passo da Palermo.
Era («era», quanto vorrei scrivere «è») un uomo di una ironia imbarazzante e dissacrante. Riusciva a sdrammatizzare tutto con una naturalezza assoluta. La battuta era sempre in agguato, anche durante il più pesante dei discorsi o il più difficile dei momenti. E ne vivemmo tanti assieme. Era molto veloce nel capire, nel formarsi un’opinione, nel partorire un’idea. Aveva ritmo e non soffriva pause. Era anche molto preparato e professionale, ma non gliene importava niente di darlo a vedere. Come tutti quelli che sanno di non averne bisogno. Era capace di scherzare anche sulla più complicata delle questioni che aveva risolto, magari con grande fatica. Te la offriva con semplicità. Non voleva stupire nessuno. Prendeva per i fondelli pure se stesso. Eravamo caratterialmente molto simili.
[…] Era impossibile non volere bene a Paolo Borsellino, non apprezzarlo, non ammirarlo. La sua vita era quella di un uomo semplice, serio e responsabile, tutto casa, famiglia e lavoro.
Era un fervente cattolico e aveva un preciso credo politico sin dai tempi dell’università, che lo videro militare nel Fuan. Era un uomo di destra, intriso – come si usava allora da quelle parti – di valori forti e di un alto senso dello Stato. Non si lasciò, però, mai condizionare dalle sue idee quando si trattava di decidere la sorte di un imputato. Il suo amore per la giustizia era più forte di tutto. È sufficiente una sola parola per descriverlo: un esempio.”
[…] Ai primi di luglio mi telefonò da Firenze Nino Caponnetto, pregandomi di andare a trovare Borsellino, che aveva sentito e gli era sembrato molto giù di corda.
Volai a Palermo appena possibile e lo raggiunsi in ufficio. Parlammo a lungo. A un certo punto mi disse una frase che feci finta di non capire: «Giuseppe, non posso lavorare meno. Mi resta poco tempo».
Rividi anche lui, nel pomeriggio del 19 luglio davanti alla casa di sua madre. Ma non lo riconobbi. Ne era rimasto ben poco.
Ha detto Agnese Borsellino: «Paolo cominciò a morire quando morì Giovanni, come due canarini che difficilmente sopravvivono a lungo l’uno alla morte dell’altro».
Pare che un giorno ci ritroveremo ancora. Senza fretta, però. Loro ne hanno avuta troppa. Senza volerlo.
E così sia.”

 

Giuseppe Ayala
Tratto da “Chi ha paura muore ogni giorno”

© 2008 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano

18 luglio 2012

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