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Gino Bartali, un libro per rendere omaggio all’eroe silenzioso

Portava documenti falsi nascosti sotto al sellino e ai nazisti diceva “Allenamento, ‘un mi posso fermare”. Questo era Gino Bartali, il campione italiano che ha fatto la storia del ciclismo italiano negli anni ’30-’40, dichiarato in questi giorni da Israele “Giusto tra le Nazioni” per aver salvato grazie al suo coraggio centinaia di ebrei dal genocidio nazista...
“La strada del coraggio” è il libro che rende omaggio al campione toscano, dichiarato Giusto tra le Nazioni per aver salvato centinaia di ebrei dal genocidio nazista

MILANO – Portava documenti falsi nascosti sotto al sellino e ai nazisti diceva “Allenamento, ‘un mi posso fermare”. Questo era Gino Bartali, il campione italiano che ha fatto la storia del ciclismo italiano negli anni ’30-’40, dichiarato in questi giorni da Israele “Giusto tra le Nazioni” per aver salvato grazie al suo coraggio centinaia di ebrei dal genocidio nazista. Oltre ad aver vinto tre Giri d’Italia, due Tour de France e una guerra civile scongiurata in patria, durante la guerra il campione toscano faceva la staffetta tra Firenze ed Assisi, trasportando documenti contraffatti nel telaio della bici per salvare gli ebrei dai campi di concentramento. Un’attività rischiosa di cui Gino, in vita, non ha mai voluto parlare e che oggi, in occasione  dei Mondiali di ciclismo che si tengono proprio oggi nella sua Toscana, ricordiamo con il libro “La strada del coraggio” scritto dai fratelli McConnon come tributo al Gino Bartali salvatore degli ebrei. Il curatore dell’edizione italiana del libro Giuliano Boraso ci presenta l’opera.

Quali caratteristiche della figura di Gino Bartali emergono dalle pagine del libro?
Una su tutte: il pudore. Inizio da qui perché il senso del pudore è l’attributo caratteriale di cui oggi forse si sente più la mancanza, nella dimensione sia pubblica sia privata. Bartali incarna alla perfezione la cultura del fare le cose senza sbandierarle, la predisposizione al silenzio come precondizione indispensabile all’ascolto dell’altro, il senso del dovere inteso come precetto morale, regola di vita: tutta roba che oggi sa di naftalina, completamente superata, fuori moda. E che, anzi, potrebbe pure infastidire i cultori dell’eroe maledetto e contraddittorio. Ecco perché un personaggio pubblico come Bartali oggi appare un marziano, un oggetto non identificato, è per questo che disorienta. Da un certo punto di vista Gino oggi sarebbe un antieroe, completamente démodé, inconsolabilmente anti-glamour. Che cosa se ne farebbe, l’attuale show business, di un atleta di quella caratura morale? E per di più vicino agli ambienti cattolici, immune da qualsiasi propensione allo scandalo, alla scorrettezza, alla prevaricazione?

Perché Bartali preferiva non venisse fuori questo episodio della sua vita?
Lo spiegano molto bene gli autori, nelle pagine finali del libro. Alla base della riluttanza di Gino c’era il timore che la sua celebrità di atleta potesse in qualche modo sovrastimare l’importanza che aveva avuto nella rete clandestina dell’arcivescovo Dalla Costa, e magari proprio a scapito del contributo fornito da altri, donne e uomini sconosciuti che potevano aver corso rischi anche maggiori rispetto ai suoi. «Non voglio apparire come un eroe» ripeteva al figlio Andrea. «Eroi sono quelli che sono morti, che sono rimasti feriti, che hanno trascorso tanti mesi in prigione». Insomma, ritorna quel senso del pudore, del limite e della riservatezza di cui parlavamo prima.
Ma i fratelli McConnon azzardano anche un’altra ipotesi, ugualmente fondata e affascinante. Per un uomo che aveva trascorso quasi tutta la vita adulta sotto i riflettori dell’opinione pubblica dev’essere stato quasi liberatorio riuscire a tenere segreta una parte così importante della propria realizzazione personale. E a questo proposito ricordano una frase detta da Gino al figlio Andrea: «Se sei bravo nello sport le medaglie te le attaccano sulle maglie e poi splenderanno in qualche museo. Quelle guadagnate nel fare il bene si attaccano sull’anima e splenderanno altrove».
Se poi alla discrezione di Gino uniamo la difficoltà di reperire documenti e testimonianze dovute al necessario riserbo che tutte le reti clandestine devono mantenere per forza di cose, ecco che si comprende il ritardo con cui si è arrivati al riconoscimento postumo concesso dallo Yad Vashem pochi giorni fa. Riconoscimento a cui ha contributo, credo, anche La strada del coraggio.

C’è, secondo lei, un corridore o uno sportivo che lo ricorda?
Difficilissimo rispondere. Ogni paragone apparirebbe azzardato, improponibile. Dal punto di vista dei successi sportivi non vedo proprio chi potrebbe reggere il confronto. Non dimentichiamoci che Bartali conserva a tutt’oggi il record per la maggiore distanza temporale, dieci anni, tra due successi al Tour de France (1938 e 1948). Ma al di là dei meriti sul campo, bisognerebbe trovare qualcuno con un carattere altrettanto burbero e schietto, con la stessa vis polemica, le stesse doti fisiche, la stessa impressionante longevità sportiva. Ecco, a me non viene in mente nessuno che abbia in sé tutte queste cose. Però, se proprio devo fare un nome, siccome sono un appassionato di calcio e tifo Inter dico Javier Zanetti.

Valori e azioni, quelli di Bartali, che sembrano lontani anni luce dai protagonisti del mondo sportivo di oggi. Secondo lei da cosa dipende? Cosa è cambiato?
Questa domanda dà per assodata una premessa che non mi sento di condividere al cento per cento. E cioè che oggigiorno comportamenti come quelli di Bartali – all’insegna della lealtà, del valore civico e del coraggio – sarebbero impossibili anche solo da immaginare. Ma ne siamo così sicuri? E da dove proviene questa sicurezza? Che nello sport e nella società di oggi tutto sia cambiato rispetto a cinquant’anni fa è talmente evidente che non vale neppure la pena di perderci tempo. Ma non sono per niente certo del fatto che questi cambiamenti abbiano automaticamente reso impossibili condotte virtuose come quelle descritte dai fratelli McConnon. Darlo per scontato sarebbe, a mio parere, un atto di arroganza, una concessione un po’ troppo facile al «si stava meglio quando si stava peggio». Non sono per nulla certo del fatto che, a fronte di situazioni eccezionali come quelle narrate nella Strada del coraggio, anche oggi non si ripeterebbero atti di valore come quelli compiuti da Ginettaccio. Non facciamoci ingannare dai calciatori viziati, dalle nuotatrici capricciose o, più in generale, dalla spettacolarizzazione dello sport: anche oggi esistono atleti di assoluto spessore morale, veri campioni. E non mi è difficile immaginare che anche tra di loro ci sarebbe qualcuno disposto a mettere a repentaglio la propria vita per salvare quella di sconosciuti. Quantomeno non ho nessun elemento per negarlo a priori.

29 settembre 2013

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