Gialli in uscita a gennaio 2026

30 Dicembre 2025

Tra i libri più attesi di gennaio 2026 ci sono i gialli, titoli pieni di suspense e mistero che sono disponibili per i preordini. Scopriamo insieme le trame.

Gialli in uscita a gennaio 2026

Il momento più atteso è arrivato: quello in cui vi presentiamo le nuove uscite del mese; e se avete già letto l’articolo che parla dei libri più attesi di gennaio, perché non entrare subito nel vivo con i gialli?

Per cominciare bene il 2026 c’è bisogno di mistero e indagini, quel qualcosa che tanto ci piace.

Ma ci aspetta in questi gialli?

Scopriamolo insieme…

“L’assassino sta scrivendo” di Elena Campani

L’assassino sta scrivendo” inaugura le indagini di Tuva Colmar, professoressa di italiano dal lessico misurato e dallo sguardo tagliente: una donna che sembra fatta di silenzi, ma con un talento raro per riconoscere le stonature nelle vite altrui. La sua storia comincia da un contraccolpo: aveva un fratello, un cane, un lavoro che amava; poi, all’improvviso, resta con poco più della propria solitudine e di “parole incerte”.

Trasferita a occuparsi della biblioteca d’istituto, Tuva scivola ai margini della scuola come se fosse un luogo di passaggio, salvo scoprire che proprio lì, tra scaffali e corridoi, si annidano i punti ciechi più pericolosi.

Quando nel liceo accade un fatto tragico e inquietante, la sua marginalità diventa una posizione privilegiata: Tuva ascolta, osserva, annusa le contraddizioni, legge tra le righe dei dialoghi e delle chat di classe con la stessa cura con cui un’insegnante corregge un tema. Elena Campani usa la cornice del giallo non per costruire un semplice enigma, ma per scavare nelle dinamiche di potere, nelle colpe diffuse, nelle paure collettive che si depositano nei luoghi educativi come polvere sottile.

La scuola, qui, non è solo scenario, ma una sorta di cassa di risonanza, un laboratorio emotivo dove la dedizione si misura ogni giorno e la verità si misura in piccole gocce.

Tra colleghi, studenti e fragilità che chiedono ascolto, la “prima indagine” di Tuva Colmar promette un mistero che riguarda tanto ciò che è successo quanto ciò che, per abitudine o difesa, scegliamo di non vedere.

Intanto, come suggerisce il titolo, qualcuno sta già scrivendo la versione dei fatti…

“Un divorzio perfetto” di Jeneva Rose

Dodici anni fa Sarah Morgan era “l’avvocata che ha salvato il marito”: una professionista in ascesa capace di trasformare un caso mediatico (l’omicidio dell’amante di Adam, Kelly Summers) in un verdetto che apparentemente chiudesse tutto.

Oggi, invece, Sarah è un’altra persona. Ha cambiato vita e carriera, si è risposata con Bob Miller e ha costruito una normalità di quelle che si tengono in piedi con l’ordine, l’immagine e una certa disciplina nel dimenticare.

Poi Bob la tradisce. Una sola notte, dice lui. Quanto basta, per lei, a far saltare il patto: Sarah chiede il divorzio, e lo chiede subito, come si deposita un’istanza in tribunale quando non si vuole lasciare spazio alle emozioni. Peccato che il passato – quello che credeva archiviato – torni a respirare proprio durante la loro separazione: nuove prove del DNA rimettono in discussione la colpevolezza di Adam e obbligano la polizia a riaprire il caso Summers. Sarah, inevitabilmente, torna sotto i riflettori: non più la donna che ricomincia, ma la donna che forse ha sbagliato, che forse ha costruito la propria vita su una verità parziale.

A incalzarla c’è lo sceriffo Hudson, deciso a ricucire ogni incongruenza e a capire cosa sia successo davvero. Ma il colpo di scena più velenoso arriva quando la donna con cui Bob ha tradito Sarah scompare nel nulla. Da lì, il “divorzio perfetto” smette di essere una faccenda privata e diventa una guerra: tra due ex coniugi che si conoscono troppo bene, tra colpa e controllo, tra ciò che si può dimostrare e ciò che si è disposti a fare per non perdere tutto. Un thriller che usa il matrimonio come scena del crimine e la reputazione come arma.

“La fertilità del male” di Amara Lakhous

Il 5 luglio 2018, mentre l’Algeria celebra la festa dell’indipendenza, a Orano viene trovato morto Miloud Sabri: potentissimo, riverito come eroe della guerra di liberazione, proprietario di una vita lussuosa che sembra inattaccabile. Ma il corpo porta un marchio che non è solo violenza: il naso mozzato. Un gesto antico che rimanda ai metodi del Fronte di Liberazione Nazionale per segnare i traditori “a vita”. In un paese dove la Storia non smette mai davvero di chiedere il conto, l’omicidio non può restare un fatto privato.

A guidare l’indagine è Soltani, comandante dell’Unità Antiterrorismo: uomo d’ordine in una città dove l’ordine è spesso una messa in scena. La pista più comoda sarebbe ridurre tutto a una vendetta personale, ma la mutilazione parla una lingua più ampia, e Orano – con il suo divario sociale sempre più evidente – sembra costringere chi indaga a guardare dietro le facciate: nelle ville blindate e nei quartieri che ricordano, nei corridoi del potere e nelle stanze dove si conservano segreti come prove d’accusa.

In “La fertilità del male” Amara Lakhous costruisce un giallo denso, in cui i tradimenti intimi si intrecciano a un tradimento più grande: quello degli ideali rivoluzionari, del sogno collettivo sacrificato all’individualismo e alla corruzione. Ogni passo dell’inchiesta scava nel “passato torbido della Nazione”, finché la verità emerge con la lentezza di una ruggine: non come rivelazione improvvisa, ma come conseguenza. E quando affiora, si capisce che certe vendette possono covare mezzo secolo proprio perché, prima di tutto, sono memorie.

“Le folli indagini dei coniugi Magritte. A Montmartre” di Nadine Monfils

A Parigi, Montmartre sembra sempre sul punto di diventare un quadro: i vicoli bui di Pigalle, la cupola bianca del Sacré-Cœur, le vetrine dei café dove l’arte è un modo di guardare (e di sospettare). È qui che Nadine Monfils porta René Magritte e sua moglie Georgette per un vernissage in onore del pittore: qualche giorno alla Ville Lumière, tra artisti e scrittori, con la promessa di una mondanità leggera. Ma basta un dettaglio stonato per far scivolare tutto nel giallo.

Al Café de Flore, Magritte nota una ragazza dai capelli rossi, Chloé, seduta con un ombrello “impossibile”: sulla punta ha un nido, e dentro un pulcino finto. Un oggetto che pare uscito da una delle sue immagini, un segnale che chiede di essere fissato con lo sguardo e con la macchina fotografica. René, com’è naturale, cede alla tentazione: la avvicina, la ritrae, la ascolta per poche battute. Poi Chloé si congeda in fretta: ha un appuntamento galante con un artista dal nome enigmatico, Fantômas.

Il giorno dopo, i giornali raccontano un fatto inquietante: una giovane è morta durante un numero di magia alla Foire du Trône, il grande luna park parigino. Magritte riconosce subito la foto: è Chloé. Incidente o omicidio? La domanda si fa più urgente quando, poco dopo, viene ripescato nella Senna il corpo del mago del luna park, con addosso una maschera: quella di Fantômas.

“Jane e il mistero della principessa” di Stephanie Barron

Londra, 1811. Jane Austen arriva in città con addosso ancora la temperatura emotiva di Ragione e sentimento: non l’autrice già monumento, ma una donna che osserva e registra, con un’ironia discreta e un istinto quasi “clinico” per le crepe sotto la vernice. Ospite del fratello Henry, brillante banchiere, e della sua magnetica moglie Eliza, Jane entra in un circuito di salotti, ricevimenti e conversazioni affilate dove i vestiti scintillano quanto le ambizioni. È un microcosmo elegante e spietato, costruito su segreti che reggono finché restano segreti.

Il detonatore è uno scandalo politico-sentimentale: la corrispondenza privata tra una principessa russa e un influente ministro Tory viene improvvisamente resa pubblica. La città si accende, l’opinione si eccita, i pettegolezzi diventano sentenze. Poi, il salto nel buio: la bellissima Evgenia Cholikova viene trovata con la gola tagliata davanti alla residenza del ministro, Lord Castlereagh. L’alta società corre a metterci sopra un’etichetta rassicurante – un “suicidio d’amore”, una tragedia conveniente – mentre la reputazione della principessa viene infangata con la stessa facilità con cui si alza un sopracciglio.

Jane, però, non compra la versione ufficiale. Qualcosa non torna: troppe coincidenze, troppi silenzi utili, troppi interessi allineati. E quando un intreccio di eventi trascina proprio lei ed Eliza al centro dell’inchiesta come principali sospettate, il mistero smette di essere un racconto ascoltato ai margini e diventa una questione di sopravvivenza.

Con soli sette giorni per dimostrare la propria innocenza, Jane è costretta a muoversi dove il potere si traveste da galateo: tra palazzi e anticamere, tra il governo e i boudoir delle cortigiane più influenti, inseguendo un assassino capace di minacciare non solo la sua vita, ma il destino stesso dell’Inghilterra.

“L’ultima cosa che sai. La nuova indagine di Enrico Radeschi” di Paolo Roversi

Aprile 2019: Enrico Radeschi, giornalista-hacker con la Vespa gialla del ’74 e un talento speciale per scovare ciò che gli altri ignorano, lascia Milano e la sua confusione per tornare a Capo di Ponte Emilia, nel cuore della Bassa padana. Dovrebbe essere un rientro “familiare”, una sorpresa di Pasqua ai genitori, un modo per respirare lontano dalla città e dal dolore ancora vivo di una separazione. Ma la provincia, quando decide di parlare, lo fa con la voce dell’acqua.

Sulla golena del Po affiora un cadavere disposto come in un rito: braccia incrociate, gambe tese, tra le dita un orologio fermo sulle 3:15. Un dettaglio troppo preciso per essere casuale, e infatti riapre una ferita vecchia: il segno del “Mostro del Po”, serial killer degli anni Sessanta mai davvero consegnato alla storia. Il paese si richiude come una palpebra: c’è chi ricorda troppo e chi si protegge fingendo di non sapere, mentre riaffiora anche una leggenda antica, il “Tribunale delle Acque”, una corte soprannaturale che, nelle notti senza luna, giudicherebbe i peccatori sulle rive del fiume.

Intanto, a Milano, un’altra morte pretende attenzione: un professore del Politecnico trovato senza vita nel suo appartamento. Sembra un suicidio, ma dietro l’ordine apparente si intravede un omicidio costruito con pazienza. Il vicequestore Loris Sebastiani indaga e, senza Radeschi, deve affidarsi a Liz, giovane hacker filippina brillante e determinata, che scava nei meandri digitali delle esistenze.

Radeschi finisce così in una doppia indagine “a ponte” tra città e pianura, tra cronaca e mito fluviale, dove l’acqua conserva tutto e prima o poi presenta il conto: verità sepolte, colpe rimaste a galla, vendette che non hanno mai smesso di aspettare.

“Tutto rimane in famiglia” di John Marrs

In “Tutto rimane in famiglia”, John Marrs prende l’idea più rassicurante che abbiamo – la casa come nido – e la rovescia con calma chirurgica: qui i muri non proteggono, conservano. Mia e Finn stanno ristrutturando una villetta malandata per farne il loro futuro. Quando Mia scopre di essere incinta, la fatica dei lavori sembra finalmente avere un senso: stanze da finire, giorni da mettere in ordine, una vita nuova da preparare. È il genere di felicità che si costruisce a colpi di intonaco.

Poi, nel legno di un battiscopa, affiora una frase incisa come una crepa: “li salverò dalla soffitta”. Non è un dettaglio folkloristico, non è una bravata. È un invito, o una minaccia. Seguendo quell’indizio fino al sottotetto, la coppia trova vecchie valigie di pelle e qualcosa di peggio: la prova che quella casa, prima di essere un progetto, è stata un teatro. Un luogo dove il male non ha lasciato solo macchie, ma metodi, abitudini, rimasugli di una storia rimossa.

Da quel momento Mia non riesce più a “tornare alla normalità”. La gravidanza non la calma: amplifica. L’ossessione per ciò che è accaduto sopra le loro teste le mangia il sonno e la fiducia, la spinge a cercare una verità che nessuno sembra voler nominare. La vita di coppia si incrina proprio mentre dovrebbe compattarsi, e l’indagine domestica diventa un percorso a imbuto: più scendi dentro la casa, più capisci che non stai guardando solo nel passato.

Perché in questo thriller la domanda non è “che cosa è successo qui?”, ma che cosa è rimasto. E soprattutto: chi, oggi, è disposto a farlo riaffiorare.

“Una spia alla corte di Elisabetta” di Susan Elia Macneal

Durante la Seconda guerra mondiale, mentre l’Europa brucia e la propaganda prova a cucire una normalità di facciata, Maggie Hope si ritrova nel posto “sbagliato” per una spia: non oltreconfine, non nei porti, non tra documenti rubati, ma a Windsor, nel cuore stesso della monarchia.

Ex segretaria di Winston Churchill, ha appena completato l’addestramento per l’MI5 e vorrebbe essere utile dove il rischio è più visibile. Invece le assegnano un incarico che sembra quasi decorativo: insegnare matematica alla giovane principessa Elisabetta, lavorando sotto copertura per garantire la sicurezza dell’erede al trono.

È qui che il romanzo cambia passo. Perché Windsor, in tempo di guerra, non è soltanto un castello: è un teatro di corridoi, protocolli, silenzi. La “famiglia reale” non è un’immagine sulle monete, ma un organismo esposto, vulnerabile, attraversato da paure e segreti.

Quando un omicidio raccapricciante incrina l’apparente inviolabilità della corte, Maggie capisce che la minaccia non arriva necessariamente da lontano. A volte è interna, mimetica, nascosta dietro ruoli, livree, gerarchie, e soprattutto dietro l’idea rassicurante che certe stanze siano impermeabili al male.

Forte della sua specializzazione in matematica e decrittazione, Maggie affronta l’indagine come un problema di logica: ogni dettaglio può essere un segnale, ogni incongruenza una chiave. E mentre il caso mette a rischio non solo singole vite ma il futuro della Corona, il libro intreccia suspense e atmosfera storica: il peso della responsabilità, la solitudine di chi vede troppo, e la domanda più scomoda di tutte — quanta verità si può sopportare quando la sicurezza di un Paese dipende anche dalle bugie che si racconta.

“La specchia del diavolo” di Gabriella Genisi

Nel Salento di pietra e vento, dove i muretti a secco sembrano archiviare segreti meglio dei tribunali, c’è un luogo che porta già in sé una promessa narrativa: la Specchia del diavolo, cumulo antico di sassi, nome da leggenda e da minaccia. È lì che, una mattina, l’avvocato Mauro De Pascalis, uscito a correre tra le campagne della Grecìa Salentina, sente lamenti che non dovrebbero esistere nell’aria chiara dell’alba.

Tra i massi, semisepolto, trova il corpo di un giovane: Rami, indiano, passato dai campi dei raccoglitori di pomodori a una fragile possibilità di riscatto come assistente di un orafo talentuoso, protetto da una marchesa che si ostina a credere nella cura dei “disgraziati” come gesto politico.

La morte, però, non è mai solo un fatto. È un varco. E infatti il caso finisce sulla scrivania del maresciallo Chicca Lopez, carabiniera ribelle e istintiva, troppo viva per stare comoda dentro la disciplina e per questo facile da ridimensionare: il suo superiore, il capitano Biondi, vorrebbe liquidare l’indagine come faccenda minore, un dossier utile a “tenere a freno” una sottoposta scomoda.

Ma il Salento di Genisi non concede scorciatoie. Tra amori spezzati, madri perdute, padri biologici e putativi che non coincidono mai, il delitto scava nel sottosuolo emotivo di una terra dove il sangue si mescola alla magia e la modernità si appoggia, senza accorgersene, su strati di superstizione, rancore e silenzi. Chicca segue la traccia di Rami e scopre che il passato non resta al suo posto: gioca a rimpiattino con l’eternità, e quando riemerge lo fa con la calma spietata di chi sa di avere tempo.

“Singolre femminile” di Paolo Porrati

Singolre femminile” di Paolo Porrati rimette in moto la macchina ibrida (e un po’ folle) di Lo Sport del Diavolo: un gruppo di investigatori-tennisti che tratta la città come un campo da gioco, e il crimine come una partita da leggere col corpo prima ancora che con i verbali.

Milano trema per una sequenza di omicidi che sembrano scritti con la stessa grafia: sei vittime, tutte strangolate con corde di racchetta, disposte come pedine sacrificate in un rituale che vuole essere visto, decifrato, temuto. Non è soltanto ferocia: è messinscena. Un modo per imporre regole a un mondo che finge di non averne.

A guidare l’indagine c’è Mara Santangelo, appena nominata vice commissario, costretta a entrare in un sottobosco dove il tennis non è più disciplina o eleganza, ma sistema chiuso: tifoserie senza scrupoli, ambizioni tossiche, carriere giovani inchiodate a meccanismi opachi. Lì dentro, ogni gesto “tecnico” diventa un indizio, ogni relazione una potenziale trappola, e l’avversaria – perché qui c’è sempre un’avversaria – è tutto tranne ciò che sembra.

Quando la pressione sale e il tempo si accorcia, Mara richiama la Seconda Armata, una squadra capace di trasformare ogni campo in terreno di caccia: ma questa volta la partita scivola fuori dalle regole, e i confini tra bene e male si sfocano fino a sparire. Tra depistaggi, alleanze fragili e un tennis femminile “pronto a esplodere”, il romanzo lavora come un noir in accelerazione: non concede pause, perché sa che la verità – come un tie-break – può cambiare su un solo punto. E perdere, qui, non è contemplato.

“Il silenzio dei colpevoli” di Angela Marsons

Nel cuore gelido del Somerset, dove il silenzio pesa più del sangue, Angela Marsons riporta in scena la detective Kim Stone, una delle protagoniste più amate del thriller britannico contemporaneo.

Tutto comincia con un corpo torturato, trovato in una zona industriale. È l’ennesima storia di violenza domestica, o almeno così sembra. Ma quando Kim comunica la notizia alla moglie della vittima, Diane Phipps, qualcosa si incrina: uno sguardo troppo fermo, una reazione che non coincide con il dolore. E ventiquattr’ore dopo, Diane e il resto della sua famiglia scompaiono nel nulla.

Un secondo corpo, inchiodato al suolo nella riserva naturale di una cittadina vicina, rimette in moto la macchina della paura. Le due morti sembrano distanti, ma un filo invisibile le lega: un segreto gelosamente custodito, tanto antico quanto velenoso, che qualcuno — forse persino all’interno della polizia — sta proteggendo.

Kim Stone, con il suo stile asciutto e ossessivo, si trova a camminare su un terreno che frana sotto i piedi: tra familiari che mentono, colleghi che tacciono e una giornalista, Tracy Frost, che riapre vecchi casi di femminicidio, l’indagine scivola in un labirinto morale dove ogni pista è contaminata. Il male, qui, non ha un volto unico: è la somma dei silenzi, delle omissioni, dei compromessi.

Con “Il silenzio dei colpevoli”, Marsons firma un noir cupo e implacabile, dove la tensione cresce come una febbre e la giustizia si misura in resistenza, non in vittorie. Kim dovrà scegliere se fidarsi dell’istinto o delle prove — e scoprire che, a volte, il mostro non è chi uccide, ma chi tace.

“Matrimonio con delitto” di Ashley Weaver

In “Matrimonio con delitto” Ashley Weaver riporta in scena Amory Ames, giovane aristocratica inglese con un talento tutto suo: saper leggere l’aria che cambia, soprattutto quando il lusso prova a mascherare la paura. Il romanzo si apre con un viaggio verso New York, dove Amory e suo marito Milo stanno andando al matrimonio dell’amica d’infanzia Tabitha Alden.

Lei è elettrizzata dall’idea di festeggiamenti mondani e abiti da cerimonia; lui, più pragmatico (e forse più stanco), teme una permanenza “sobria” e interminabile, con il Proibizionismo che incombe come una morale imposta e continuamente aggirata.

Ma la festa, si capisce presto, non è che una facciata. Attorno agli Alden circolano voci di incertezze economiche e di strani episodi nell’azienda di famiglia: crepe sottili che attraversano un mondo apparentemente impeccabile. Weaver lavora proprio su quel contrasto: la superficie brillante del ricevimento e, sotto, una rete di pressioni, segreti e convenienze. Quando Grant Palmer, uno dei testimoni, viene ucciso proprio davanti a casa Alden, l’atmosfera cambia registro con la brutalità di uno schiaffo: l’eleganza non protegge nessuno, e l’evento sociale diventa scena del crimine.

Amory, che dovrebbe limitarsi a fare la damigella, scivola invece nel ruolo che le riesce meglio: quello di osservatrice ostinata. Inizia a fare domande, a ricomporre mezze frasi, a seguire piste che portano oltre i salotti, nei night club clandestini e nei piaceri “illegali” che tengono in piedi la città. Nel vortice compare anche la figura del gangster Leon De Lora, magnetico e pericoloso quanto basta per rendere ogni scelta una prova di equilibrio. In un ambiente dove la fiducia è una moneta truccata, Amory e Milo devono sciogliere nodi di menzogne e affari sporchi prima che arrivi il momento più paradossale di tutti: tagliare la torta come se nulla fosse.

“Il morto al primo piano. E altre grane condominiali” di Rebecca Quasi

Nel condominio di via dei Tigli la normalità è una faccenda di facciata, come certe storie su Instagram: si scorre, si giudica, si archivia. Alice, invece, sembra nata per mettere in crisi l’etichetta del “decoro”. Ha due bambini piccoli, una carriera da influencer e un seguito che pende dalle sue giornate perfette; peccato che quei figli mostrati ogni giorno sui social siano bambole, e che tra le scale e i pianerottoli la chiamino “la svitata col passeggino”. Alice non se ne cura: cammina dritta, gentile, convinta che la rispettabilità sia spesso solo un modo educato di escludere.

Poi, al primo piano, compare un cadavere e la palazzina smette di essere un teatro di micro-rivalità: diventa un giallo. Il morto è Marcello Conforti, proprietario di un appartamento sfitto che da tempo cercava di cacciare Alice. La domanda nasce da sola, e non è mai innocente: se la vittima la odiava, chi meglio di lei? Nel giro di poco i pettegolezzi prendono il comando dell’indagine, e il condominio mostra la sua vera specialità: trasformare una stranezza in colpa, un’ipotesi in verdetto.

A rimettere in movimento la storia arrivano due alleanze inattese. C’è Gabriele, ragazzo appena sospeso da scuola, che ha tempo (e curiosità) per aiutare Alice a cercare la verità. E c’è soprattutto Zeno, agronomo riluttante, uno che parlerebbe volentieri con gli alberi piuttosto che con le persone, ma che finisce sempre per prendersi cura di chi gli capita accanto, facendo da guida, da argine e, quando serve, persino da babysitter.

Tra equivoci, vicini troppo zelanti e un mistero che scoperchia rancori domestici, il romanzo usa il delitto come grimaldello per raccontare una comunità: quella che addita, quella che salva, e quella che—senza volerlo—impara a guardare davvero.

“Questa feroce bellezza” di Giuseppe Galliani

In “Questa feroce bellezza” Giuseppe Galliani costruisce un romanzo “teso come un crime”, ma lo piega verso qualcosa di più antico e spietato: un territorio che non è solo sfondo, è una legge. Siamo in una frontiera d’Europa tra l’Altopiano Murgiano e la Fossa Bradanica, una terra arsa e battuta dal vento che d’inverno diventa bianca e tagliente, attraversata da profughi, peccatori, predatori in cerca di un riscatto che spesso assomiglia a un furto.

Il tenente della Forestale Ian Dabrowski vive lì da un anno e ha imparato che la promessa della frontiera può trasformarsi in un campo di battaglia, anche quando non c’è una guerra dichiarata. Quando viene ritrovato senza vita Gheorghe Bunget, dodicenne, il caso viene chiuso in fretta: suicidio, archiviazione, silenzio. Ma Dabrowski non ci sta. Qualcosa non torna nei dettagli, nell’aria che resta sospesa dopo la parola “fine”, nella grammatica stessa di quel paesaggio che sembra conoscere la verità prima degli uomini.

Parte così un’indagine ufficiosa che ha il ritmo del sospetto e il peso della coscienza: un tentativo di fare giustizia a un innocente mentre intorno si alza un muro di omissioni, convenienze e paure. In parallelo, il fratello di Gheorghe, devastato dal dolore, sceglie la strada più breve e più oscura: la vendetta. Le loro traiettorie finiscono per incrociarsi con figure senza scrupoli, arrivate da ogni direzione per contendersi gli ultimi resti di un miraggio di libertà.

Galliani lavora sul confine tra violenza e grazia, come se fossero due facce della stessa moneta. E affida al linguaggio il compito più ambizioso: non raccontare soltanto, ma diventare dimora dell’anima, fino a condurre il lettore dentro una tragedia in cui non esiste una salvezza facile, solo il riconoscimento – duro, necessario – dell’ordine profondo delle cose.

“Quattro presunti familiari” di Daniele Mencarelli

In “Quattro presunti familiari” Daniele Mencarelli prende l’impalcatura del giallo e la usa come una leva: non per inseguire soltanto un colpevole, ma per smuovere ciò che resta sotto la superficie quando un territorio, una città, una famiglia sono costretti a guardarsi allo specchio.

Nei boschi attorno a Norma, in provincia di Latina, viene ritrovato uno scheletro: poche ossa e qualche brandello di pelle, salvati da una combinazione quasi innaturale di tempo e condizioni ambientali. Il maresciallo Damasi e l’appuntato Circosta, giovane e affamato di esperienza, devono dare un nome a quei resti. La pista passa per la scienza e per il caso: quattro persone vengono convocate, quattro “presunti familiari” appartenenti a tre nuclei che, in anni diversi, hanno denunciato la scomparsa di qualcuno in un’epoca compatibile con lo stato del corpo. Il DNA diventa una lotteria tragica: chi coincide vince una verità che è anche un lutto finalmente possibile.

Attorno a quell’enigma si addensa un mondo cupo, saturo di desiderio e nostalgia di forza, attraversato da violenza e da una promessa di riscatto che non è mai pulita. Mencarelli sembra far passare l’indagine dentro le persone prima ancora che nei verbali: la colpa si mescola agli errori, ai sogni malati, alle febbri private. E sullo sfondo Latina, con i suoi nomi che cambiano e che resistono, non è un semplice scenario: è una presenza che entra nei corpi e nelle menti, una corrente antica che si trasforma senza sparire, fino a diventare gesto, disciplina, sopraffazione, bisogno di ordine.

Il risultato è un romanzo teso “come un crime”, ma soprattutto una storia dove il linguaggio prova a farsi dimora dell’anima: cercare un nome per quelle ossa significa misurare il prezzo della verità e capire se, nel buio, esista davvero una luce capace di somigliare alla redenzione.

“Le ottanta domande di Atena Ferraris” di Alice Basso

Ne “Le ottanta domande di Atena Ferraris”, Alice Basso torna al giallo “di relazione”: quello in cui l’enigma non è solo una porta da forzare, ma una stanza in cui restare a lungo, finché non ci si accorge di chi siamo diventati mentre cercavamo la chiave. La protagonista, Atena, vive di domande come altri vivono di certezze: è una mente logica, quasi allergica al caos, capace di vedere pattern dove gli altri vedono rumore. Per questo ha fondato una rivista di enigmistica e per questo lavora da casa, da sola: lontano dalla folla, dalle sue regole implicite, dalle conversazioni che richiedono un manuale d’uso.

Eppure qualcosa si è incrinato nel modo più pericoloso: non con un colpo di scena, ma con la vita che insiste. Dopo un’avventura precedente che l’ha costretta a uscire dal suo perimetro (e ad aiutare il fratello Febo a smascherare un imbroglio), Atena scopre che il mondo, quando ti prende sul serio, non ti lascia più in pace. C’è un ragazzo che vuole conoscerla, ci sono nuove amicizie, e soprattutto c’è Elisa, una di quelle persone che non chiedono aiuto “per dramma”, ma perché qualcuno sta trasformando il lavoro in un campo minato.

Nell’azienda di Elisa, lucida e moderna come una brochure, circola una lettera minatoria; poi altre ombre: dinamiche di mobbing, piccole crudeltà travestite da normalità, quella violenza educata che non lascia lividi ma cambia il respiro. Atena entra per risolvere il mistero e si ritrova a fare i conti con un enigma parallelo: se è così brava a decifrare gli altri, perché su di sé resta sempre un punto interrogativo? E quante risposte servono, davvero, prima che una persona smetta di sentirsi “fuori posto”?

“The other girl” di Emily Barr

Su un treno che taglia l’Europa, Emily Barr mette in scena uno dei gesti più pericolosi che si possano compiere da adolescenti: cambiare pelle per gioco, e scoprire che il gioco non finisce quando scendi alla stazione giusta. Tabbi è la ragazza che il mondo perdona: privilegiata, brillante nel caos, diretta verso un esclusivo centro di riabilitazione in Svizzera dopo mesi di eccessi e feste che sembrano non avere conseguenze. Ruby è l’opposto: pochi soldi, pochi appigli, un viaggio che sa di fuga vera, non di parentesi. Si incontrano per caso, in uno scompartimento dove le vite altrui sembrano più leggere della propria.

L’intesa è immediata, quasi ipnotica: due estranee che si riconoscono nel vuoto, anche se lo chiamano con nomi diversi. E allora nasce l’idea: scambiarsi documenti e identità “solo per poco”. Un esperimento di libertà, una prova di sparizione. Tabbi può diventare Ruby, Ruby può diventare Tabbi, e per un attimo il destino sembra una cosa maneggiabile, come un biglietto timbrato.

Poi una delle due scompare. E il romanzo cambia passo: da viaggio a trappola, da fantasia a dossier di paura. Quello che sembrava un capriccio diventa un labirinto di responsabilità e di ombre, perché vivere la vita di un’altra significa anche ereditare ciò da cui stava scappando. Barr intreccia suspense e psicologia con un ritmo da thriller europeo: stazioni, hotel, corridoi, chiamate mancate, dettagli che si caricano di presagio. “The other girl” è un romanzo sul desiderio di ricominciare da zero e sul prezzo, spesso invisibile, che ogni identità porta cucito dentro di sé.

“Il nido del corvo” di Piergiorgio Pulixi

Il nido del corvo” si apre in Sardegna, nel Sinis, dove le sparizioni hanno il rumore sordo delle cose che il vento si porta via senza chiedere permesso. Una ragazza, Angela Floris, svanisce. Per mesi non resta che il vuoto: indagini che non attaccano, piste che si seccano, un silenzio che diventa abitudine. Poi, all’improvviso, un dettaglio impossibile rimette in moto tutto: il cellulare di Angela si riaccende. Un segnale breve, ghiacciato, come un fischio nella notte.

Gli ispettori Daniel Corvo e Viola Zardi arrivano sul punto del rilevamento e trovano qualcosa che non somiglia a un indizio ma a una dichiarazione di poetica: una mano femminile recisa, conservata con cura. È la “firma” di un assassino che non vuole solo nascondersi, vuole essere letto. Uccide come un artista della morte: osserva, misura, decide. E soprattutto raccoglie, conserva, colleziona parti del corpo come fossero trofei o oggetti d’arte, trasformando l’orrore in messinscena.

Corvo e Zardi sono una coppia investigativa costruita sul contrasto. Lui ha una durezza trattenuta, una mentalità da asceta in uniforme: si appoggia alla famiglia e alla fede per non farsi divorare dai propri traumi. Lei è elettrica, inquieta, capace di stare in piedi anche dentro l’instabilità: cerca la verità inseguendo il rischio, domando il caos mentre le sfugge. Insieme entrano in un gioco che non hanno scelto, dove ogni tappa sembra preparata in anticipo da qualcuno che li studia.

Quando un’altra ragazza scompare e i demoni personali tornano a bussare, la sensazione diventa certezza: il killer non li sta solo sfidando, li sta chiamando. E più l’indagine si avvicina a una possibile soluzione, più si fa strada l’idea più cupa: le vittime finora potrebbero essere state soltanto l’introduzione. Il vero “capolavoro” dell’Artista, l’opera finale, potrebbe avere al centro proprio loro.

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