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Giacomo Bendotti, ”Borsellino era convinto che fosse possibile sconfiggere Cosa Nostra lavorando all’interno delle leggi dello Stato”

SPECIALE PAOLO BORSELLINO - Giacomo Bendotti, autore di radio e cinema e scrittore del libro “Paolo Borsellino – L'agenda rossa” rende omaggio alla figura del giudice ucciso 20 anni fa nella strage di via D'Amelio, sottolineando la sua fiducia nei giovani nel reagire e lottare contro la mafia...

«Sono ottimista poiché vedo che verso la mafia i giovani, siciliani e no, hanno oggi un’attenzione ben diversa da quella colpevole indifferenza che io mantenni sino quasi a quarant’anni. Quando questi giovani saranno adulti avranno più forza di reagire di quanto io e la mia generazione ne abbiamo avuta». In queste parole, che Borsellino scrisse a una professoressa di Liceo la mattina del giorno in cui fu ucciso, c’è molto del suo pensiero, del suo carattere e del suo modo di lavorare.

Paolo Borsellino, e come lui Giovanni Falcone, non combatteva la mafia in nome di un eroismo donchisciottesco, né tantomeno per una vocazione al martirio. Borsellino era convinto che fosse possibile sconfiggere Cosa Nostra. Ed aveva un’idea precisa del modo in cui provarci. Ricoprire il ruolo di magistrato, lavorare all’interno delle leggi dello Stato per reprimere la mafia, era un compito che svolgeva con dedizione, ma che sapeva non essere sufficiente.

Se la mafia è «un’istituzione che tende all’esercizio della sovranità», e che dunque necessita il consenso e grazie ad esso guadagna potere, allora il primo nemico da abbattere è proprio il consenso. Ecco quindi che assume importanza, prima ancora di ogni indagine, la possibilità di un cambiamento culturale, da costruire collettivamente attraverso i mezzi di informazione, i linguaggi artistici, la ricerca.

I più importanti successi nella lotta alla mafia sono il risultato di un lavoro collegiale. Il maxiprocesso dell’87, il primo di quelle dimensioni, nasce dall’idea che Cosa Nostra è un fenomeno da considerare nella sua complessità e nei suoi diversi rapporti con il territorio in cui opera. E per occuparsi di un’organizzazione così vasta e dai confini tanto indefiniti è necessario un gruppo di magistrati svolga delle indagini coordinate. Non si tratta più della battaglia di un singolo contro un episodio di criminalità organizzata. La lente dell’investigazione può essere posizionata più in alto. Il gruppo può osservare meglio del singolo il perimetro d’azione della struttura mafiosa. La nascita del primo pool antimafia negli anni ’80 ha un grande significato perché indica una strada da percorrere: il coordinamento delle indagini.

Ma non basta, perché come la macchina giudiziaria ha bisogno di un collettivo di magistrati capaci di collaborare, allo stesso modo la società civile necessita di coordinare i suoi sforzi. E in questo senso quel che Borsellino auspicava che si affiancasse alla sua professione era «un movimento culturale e morale, anche religioso, che coinvolgesse tutti, che tutti abituasse a sentire la bellezza del fresco profumo di libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e, quindi, della complicità».

La parola «movimento» non è casuale. Indica un percorso in cui la consapevolezza dei singoli si unisce in uno sforzo collettivo. Se c’è un’eredità che a distanza di vent’anni dalle stragi del ‘92 conserva intatto il suo valore è questo insegnamento: è la fiducia che ogni società attraverso i giovani può lavorare su se stessa e operare grandi cambiamenti.

 

Giacomo Bendotti

 

18 luglio 2012

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