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Francesca Barra, ”Informarsi è il primo modo per combattere la violenza sulle donne”

Patria, Minerva, Maria Teresa Mirabal. Erano tre sorelle domenicate, attiviste politiche che si opposero alla dittatura di Rafael Leónidas Trujillo. Il nome in codice che avevano scelto era Mariposas, ovvero farfalle...

Patria, Minerva, Maria Teresa Mirabal. Erano tre sorelle domenicate, attiviste politiche che si opposero alla dittatura di Rafael Leónidas Trujillo. Il nome in codice che avevano scelto era Mariposas, ovvero farfalle. Creature libere di combattere per la liberazione del proprio Paese. Vennero, per la loro resistenza, torturate in una piantagione di canna da zucchero. Massacrate a bastonate, strangolate, insieme con un’altra vittima: l’autista. Accadde il 25 novembre del 1960 mentre rientravano dal penitenziario per far visita ai mariti detenuti nel carcere di Puerto Plata.

Ogni volta che penso ad una lotta, ad un diritto violato, penso a loro. E penso al simbolo che avevano scelto. Mi piacerebbe che le donne immaginassero di essere un esercito di farfalle in movimento, disciplinato nel sostenersi, ribelle nel dichiararsi. Un viaggio continuo ed instancabile. Urgentemente, con la vitalità e la lievità di chi sa che è e può essere messaggero di speranza, di pace, di ribellione, di libertà, coraggio e di grazia. Ma ora, subito.

Non amo le tavole rotonde, gli spot contro la violenza alle donne, destinati ad altre donne. Vorrei che le istituzioni viaggiassero, volassero in lungo e in largo nel nostro Paese e si trasformassero in messaggeri di cultura e allenassero anche e soprattutto gli uomini, le nuove generazioni  a rispettarsi. Che informassero le donne ad avere alternative, a riconoscere l’amore.

Sono donne non ordinarie quelle che oggi, in anonimato, ancora lottano per svincolare i loro diritti fondamentali da violazioni di genere, soprusi, violenze, prevaricazioni e discriminazioni. Deputate all’autodifesa, mentre la maggior parte delle autorità incaricati di difenderle per ruolo istituzionale, in teoria, in pratica si trasformano in Ponzio Pilato. E, ancora, mentre la maggio rparte della società civile viene raggiunta da queste informazioni raramente e con la miope percezione che certe realtà siano distanti da se’ a tal punto da rendersi impermeabili a qualsiasi risveglio di coscienza o mobilitazione.

Queste sono le storie di donne non ordinarie che dobbiamo raccontare. Anche se aiutati soprattutto mediaticamente da nuove terminologie giornalistiche, come il neologismo ‘femminicidio’, sono per prima cosa crimini efferati e spesso contro l’umanità intera. E con la severità che il nome stesso suggerisce, questi drammi subìti andrebbero affrontati, perseguiti e mostrati pubblicamente. Molte di queste donne sono soltanto delle sopravvissute. Perché la vita è un’altra cosa.

Come è accaduto alla piccola Anna Maria Scarfó, che a soli tredici anni in un piccolo paese della Calabria, San Martino di Taurianova, verrà violentata da un branco di dodici uomini per tre anni. E quando, sfiancata e privata degli anni più spensierati, deciderà di denunciare quegli uomini,(sposati, con famiglie), verrà, insieme con la sua famiglia, perseguitata per essersi ribellata. A tal punto da vivere oggi protetta, con altra identità lontana dal suo paese, dai suoi genitori. E dai suoi sogni. Questo avviene in Italia, nei nostri anni, quelli in cui si parla di aperture internazionali, emancipazione e tante altre belle intenzioni che fanno indignare ancor più del silenzio che ha spinto lontana, chissà dove, la piccola Anna Maria. Queste sono le storie delle donne costrette alla prostituzione-argomento non più di moda-ma che ancora, nel nostro Paese “felice”, vengono vendute, violentate per iniziazione, costrette a ripagare debiti altissimi, costrette spesso a partorire illegalmente, e a tenere i propri figli nascosti e trattati come ‘cani’, come racconta un’altra sopravvissuta Isoke Aikptani nigeriana che, riuscita a scappare, oggi sola e con pochi mezzi, tenta di sensibilizzare l’opinione pubblica e le istituzioni italiane. Ma soprattutto tenta di salvare e informare le schiave, arrivate fin qui, di come salvarsi.

Questi figli non giocheranno mai con altri bambini per paura di essere scoperti dai servizi sociali, non andranno a scuola, non conoscono ‘la pioggia o il sole’, come il piccolo Abeo, di cui racconta Isoke nel suo libro: ‘Aveva quattro anni e sembrava un vecchio. un vecchio cane dentro la cuccia’. Che uomini saranno questi, domani?

Queste sono le storie delle mamme coraggio italiane. A cui hanno ucciso i figli, che fanno la spola fra programmi televisivi e convegni, disperate, dimostrando che non si tutela la vita e nemmeno la morte. Come Olimpia Orioli, che da trent’anni urla giustizia per le perizie sbagliate, in contraddizione, per la sparizione degli organi interni di suo figlio durante l’autopsia dal cimitero…a cui nessuno fornisce risposte o attribuisce responsabilità. Ed è lo stesso Paese in cui il corpo di Elisa Claps, per diciassette anni viene nascosto nel sottotetto di una chiesa. Luogo dove la mamma aveva chiesto fino all’ultimo respiro di guardare. Questa è la storia delle donne che decidono di denunciare o di allontanarsi dalla famiglia mafiosa e poi muoiono togliendosi misteriosamente la vita con l’acido. O scomparendo nel nulla.

Donne nate, vissute e morte apparentemente per nulla, scrivo sempre come fosse un tormentone e spero che prima o poi lo diventi. È la storia delle donne clochard che popolano le nostre strade nella vostra più totale indifferenza. Perdendo denti, rischiando la vita per il freddo, senza essere necessariamente capitate lì per sbando, droga o alcool. Anche se questo, comunque, non ci renderebbe esenti da solidarietà e pietà. Sono le donne che non hanno possibilità di curarsi o di essere informate su contraccezione, infezioni, cure sanitarie e reinserimento della società. Invisibili. Non censite. Non esistono.

È la storia di una catena di omicidi, violenze domestiche, sequestri  e torture. Che avvengono nelle città, sui nostri pianerottoli. Storie che riempiono le pagine dei quotidiani, i salotti televisivi, e lasciano invece vuote le aule dei tribunali. E ancor peggio i luoghi dove andrebbe attivata la vera prevenzione Queste storie appartengono a te, a te e a te. E a me. Perché ci raccontano cosa significhi avere paura, arrivare perfino a desiderare di togliersi la vita. Sentirsi invisibili, terrorizzate, sole. E dobbiamo avere il coraggio di leggerle. Perché informarsi è il primo unguento per lenire questa ferita comune. 

Francesca Barra

25 novembre 2014

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