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Federico Rampini, ”Il nostro Paese deve guardare alla valorizzazione del territorio”

Cicale, cielo coperto e piazzetta “Rosa”, accanto al castello di Barolo, piena zeppa di gente accaldata. L’incontro con Federico Rampini a Collisioni Festival...

BAROLO – Cicale, cielo coperto e piazzetta “Rosa”, accanto al castello di Barolo, piena zeppa di gente accaldata. L’incontro con Federico Rampini a Collisioni Festival comincia con un atto di contrizione: «L’hanno intitolato “Vi racconto il vostro futuro”, ma lo trovo estremamente presuntuoso. Il mestiere che faccio non è quello di Nostradamus, il futuro io non lo conosco. Però vi racconterò il mio percorso di giornalista e scrittore, che è stato quello di inseguire il futuro».

TESTIMONE DEI CAMBIAMENTI – Genovese da 58 anni, cittadino del mondo fin dai tempi della scuola (quella europea di Bruxelles), Federico Rampini vive a New York e scrive dell’America per Repubblica, dopo averlo fatto per anni da Pechino. A Collisioni racconta come, nel corso della sua carriera, sia stato testimone di tante svolte che hanno definito il mondo in cui viviamo. In California nel ’79 ha incontrato i primi germi d’ambientalismo e la rivoluzione di Berkeley, le prime lotte per i diritti dei neri e degli omosessuali. E poi l’avvio della digitalizzazione delle nostre vite: «Bill Gates, mio coetaneo, stava immaginando un pc su ogni scrivania».

IL SOGNO AMERICANO – Rampini spiega perché il futuro è andato a cercarlo lì: «La California era tutto quello che ci mancava: qui da noi c’erano le Br, l’occupazione di Mirafiori… Da comunista avevo bisogno di abbeverarmi al sogno americano». Parole che, all’epoca, potevano sembrare un ossimoro. Ma per realizzarlo, il giornalista ricorda di aver perfino mentito all’ufficio immigrazione, rinnegando la falce e il martello che potevano costargli il visto d’ingresso. L’avversione al capitalismo selvaggio, comunque, era rimasta ben fissa nel suo Dna: «Nello stesso periodo, proprio lì in California, la storia si muoveva anche in segno opposto. Lì c’era Friedman, il teorico del liberismo, e il governatore Ronald Regan». Da Presidente, avrebbe poi avviato con Margaret Thatcher la rivoluzione che ha posto il mercato «al centro di tutto». «Una rivoluzione anche sociale, – chiosa Rampini – col cittadino che diventava consumatore». E proprio in California si sono scorti primi lapilli del vulcano cinese: «Dopo esser vissuto a San Francisco nei primi anni 2000, nel boom della New Economy, ho capito che qualcosa di fondamentale succedeva in Cina. Nel dicembre 2001 si è ratificato l’ingresso cinese nel Wto, l’Organizzazione mondiale del Commercio: è stato il capitolo decisivo della globalizzazione, la sua data di nascita».

L’APERTURA ALLA CINA – Con l’apertura del Dragone al mercato, e viceversa, i processi sono diventati travolgenti e la delocalizzazione e il “Made in China” hanno assunto le proporzioni che tutti conosciamo. Rampini allora si è trasferito nel cuore dell’azione, a Pechino, nell’estate 2004. «Vivevo nella città proibita, quella degli hutong, i bassifondi che ancora ospitano le case tradizionali cinesi». Le finestre di quelle abitazioni si affacciano solo sull’interno e il particolare testimonia l’autoreferenzialità avuta per secoli dalla società della Terra di mezzo, oggi totalmente ribaltata. «A Washington, a svariati concerti, ho visto violinisti cinesi eseguire alla perfezione Mozart e Mahler. Una bambina cinese non nasce nella civiltà di Mahler: questa non è la prova che gli asiatici siano meno dotati, come dice qualcuno, piuttosto di quanto oggi noi occidentali siamo meno curiosi. Gli asiatici hanno imparato ad osservare». Della Cina, però, Rampini ricorda anche gli aspetti più orridi come la mancanza di libertà: il giorno della vergogna, nel 2010, in cui il poeta Liu Xiaobo non poté andare a ritirare il premio Nobel perché agli arresti come dissidente; la capitale del Tibet, Lhasa, sotto il giogo dell’occupazione militare; i musulmani dello Xinjiang e il “muro di fuoco” che ha impedito alla Rete di mostrare al mondo la loro repressione.

IL RITORNO OLTREOCEANO – Infine, proprio mentre la Storia sta spostando i suoi equilibri in Oriente, come era stato fino al XV secolo, ecco il ritorno oltreoceano. «Io sono tornato in Occidente nel 2009», spiega Rampini, «il momento in cui gli Stati Uniti erano stremati dalla recessione». Ma l’America, sottolinea, «dalla crisi è uscita da cinque anni» perché al contrario dell’Europa non è stata vittima della politica di Austerity. Lo Zio Sam, infatti, continua a stupire noi vecchi europei e, ancora una volta, spesso lo fa per le scelte personali dei suoi uomini. Come quella di Warren Buffet, che non lascerà ai figli il suo immenso patrimonio. «Stiamo diventando società patrimoniali dove la ricchezza è tramandata», dice Rampini. «Questo è un tema discusso da molti economisti, oggi, perché anche l’America sta diventando una società ingessata». Ma aggiunge: «L’esistenza di personaggi come Warren Buffet è il motivo per cui continuo a pensarla come un laboratorio culturale. Come lui vuole fare anche Bill Gates, perché non c’è bisogno di essere comunisti per pensare a una società diversa». Quella attuale, anche in America, si sta infatti sbilanciando sempre più, diventando anche letargica, con sommo danno economico. «Farei un danno ai miei figli perché non vorrebbero più costruire niente», spiegava Gates a proposito della mancata eredità. E Buffet, in campagna elettorale al fianco di Obama, è uno di quelli che hanno evidenziato le contraddizioni dell’economia americana, continua Rampini, di cui lui stesso beneficiava: «Siamo scivolati in una società di disuguaglianze assurde – avrebbe detto –, io pago un’aliquota del 15%, la metà di quella della mia segretaria».

LEZIONE DI LUCIDITA’ – Una lezione di lucidità per noi europei, che secondo Rampini siamo prigionieri di ideologie economiche. «L’Austerity ha le sue radici nell’ordoliberalismo degli anni ‘30 e nasconde interessi precisi. Con la crisi i capitali sono ulteriormente fuggiti verso la Germania, ad esempio. E anche il dogma del 3% non ha fondamento scientifici: Luigi Pasinetti [economista ed ex professore della Cattolica di Milano, ndr] già negli anni ‘90 smontava i parametri di Maastricht». Ovviamente l’evitare di strangolare l’economia, per il giornalista, non deve permettere di ricadere negli atavici errori italiani, fatti di spesa facile e casse del Mezzogiorno. «Pensando al futuro, la prima cosa a cui il nostro Paese deve guardare sono luoghi come questo», dice Rampini guardandosi attorno. «I cinesi vengono qua e vedono la capacità di questa terra di conservare il suo passato così come loro non sanno fare. Un’altra cosa che mi fa sognare sono i festival come questo, che così non esistono in nessuna parte del mondo».  Altri, come quello di Avignone, sarebbero mega-eventi sporadici. Al contrario, l’Italia sarebbe ricca di fenomeni culturali nati dalla base. «L’Italia ha un problema enorme di classi dirigenti e di altre cose, – aggiunge – ma la risposta non è solo nelle catarsi dall’alto».

27 luglio 2014

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