L’attesa è finita: è tempo di presentarvi le novità in arrivo sugli scaffali. Dopo aver scoperto i titoli più caldi di gennaio, è il momento di impugnare la spada e tuffarsi nelle novità fantasy.
Il 2026 non potrebbe iniziare meglio se non con epiche missioni e poteri ancestrali, quel senso di meraviglia che non ci stanca mai.
Quali sfide attendono i nostri eroi?
Partiamo insieme per questo viaggio nel regno fantasy…
“La biblioteca sul Monte di Brace” di Scott Hawkins
Carolyn, una bambina americana qualsiasi: periferia anonima, famiglia amorosa, una vita fatta di cose piccole e ripetute. Poi, in un giorno solo, l’ordine del mondo si spezza: i genitori muoiono, la casa viene annientata, e una figura che lei chiamerà Padre la porta via. La rinchiude in un luogo che somiglia a un sogno crudele e definitivo: un’immensa biblioteca fuori scala, una prigione travestita da tempio della conoscenza.
Lì Carolyn cresce insieme ad altri undici bambini rapiti, addestrati come adepti. Il sapere è organizzato in dodici “cataloghi” che non sono semplici materie, ma porte: dalla guerra alla morte, dalla medicina alla matematica. A lei tocca il catalogo delle lingue, cioè la conoscenza di ogni parola scritta e pronunciata: un potere che è anche una condanna, perché le parole non descrivono soltanto la realtà, a volte la piegano.
Passa un quarto di secolo. Il padre scompare. E quando il custode del labirinto viene meno, il labirinto reagisce: i bibliotecari vengono respinti oltre un confine invisibile, un sistema di difesa che punisce l’avvicinarsi con dolori inimmaginabili, come se la biblioteca non fosse un edificio ma un organismo che decide chi può esistere al suo interno.
Intanto qualcosa, affiorato dal passato, prepara la distruzione del mondo. La posta in gioco non è la supremazia su un regno di conoscenza ultraterrena: è il controllo stesso della realtà. Per sopravvivere (e per scegliere chi diventare), Carolyn dovrà affrontare i “fratelli” e le “sorelle” con cui è stata cresciuta, nemici straordinari e, soprattutto, il punto più pericoloso del labirinto: la propria memoria, i propri fantasmi, ciò che ha dovuto lasciarsi alle spalle per imparare a parlare la lingua del potere.
“La cospirazione dei draghi” di Louisa Masters
Nel quarto capitolo, Louisa Masters mette in scena un equilibrio che si regge su una sola cosa: la fiducia. Il protagonista lo dice subito, senza romanticismi: è uno che pesa le intenzioni, vede trame ovunque, si porta addosso un passato scuro che gli ha insegnato a sopravvivere prima ancora che a vivere. Per questo la gente, di solito, si stanca di lui. Tranne Wil.
Wil è l’eccezione che incrina la corazza: resta, insiste, diventa punto fermo e desiderio, l’unico uomo capace di trasformare l’istinto di difesa in qualcosa che somiglia a un futuro. Ma l’amore, qui, non è un rifugio: è un bersaglio. Quando ciò che era stato sepolto torna a galla e l’incubo peggiore si rimette in moto, la relazione smette di essere una conquista privata e diventa una linea del fronte.
Il “segreto pronto a esplodere” non è soltanto un dettaglio di trama: è la miccia che rimette in discussione identità, scelte, e quel lavoro faticosissimo che è ricominciare. Il protagonista capisce che la minaccia non passerà per forza attraverso il sangue o i pugni: esiste una tortura più sottile, quella che ti svuota dall’interno, che usa la paura come leva, che ti costringe a dubitare di ciò che vedi e perfino di chi ami.
Così “La cospirazione dei draghi” prende la forma di una romantic suspense nervosa e intima: una corsa contro il passato, ma anche contro l’autosabotaggio. Per salvarsi, il protagonista deve fare la cosa che gli costa di più: esporsi. E scegliere se l’amore è davvero la sua rovina, o l’unica via possibile per non tornare prigioniero.
“Il dominio delle tenebre” di Abigail Owen
In “Il dominio delle tenebre. The Shadows Rule All”, Abigail Owen spinge la sua romantasy nel punto in cui l’avventura smette di essere una corsa e diventa un assedio interiore. Dopo gli ultimi eventi, Re Eidolon non è più una minaccia in lontananza: è un potere che avanza, che prende e trattiene. Ha strappato via Meren, regina di Aryd, portandole via ciò che definiva la sua identità pubblica e privata: il trono e quel promesso futuro con Reven che suonava come una promessa di salvezza.
Ma il vero campo di battaglia non è solo politico. Le ombre che un tempo perseguitavano Reven adesso abitano Meren: la sfiorano, la pungolano, la educano al tradimento con una pazienza da parassita. La tentazione è sottile e quotidiana: dire la cosa giusta alla persona sbagliata, fare un passo “utile” che scava una voragine tra lei e i suoi amici. E più la rete si stringe, più Meren capisce che la forza non basta: per liberarsi serve riconoscere le proprie crepe, perché è lì che l’oscurità si infila.
Con Reven lontano, eppure decisivo, l’amore qui non è un ornamento ma una chiave: l’unico legame capace di ricordarle chi era prima che il buio trovasse casa dentro di lei. Intanto Eidolon prepara la sua vendetta finale, determinato a cancellare tutto ciò per cui Meren ha lottato, trasformando il regno in un trofeo e la speranza in una favola per ingenui.
Tra segreti, intrighi e attrazione, Owen costruisce un romanzo che corre sul filo del “punto di non ritorno”: quando salvare un regno significa prima salvare se stessi — e accettare l’aiuto di alleati imprevisti, anche se costano fiducia, orgoglio, pelle.
“La fiamma di Sevenwaters” di Juliet Marillier
In “La fiamma di Sevenwaters”, Juliet Marillier torna in quel punto preciso dove il mito smette di essere decorazione e diventa pressione: sulla pelle, sulla memoria, sulle scelte. Maeve, figlia di Lord Sean, porta addosso le cicatrici di un incendio che l’ha segnata da bambina. Le mani deformi sono il ricordo più visibile, ma il vero fuoco è quello interno: la consapevolezza che guarire il corpo è possibile, mentre l’anima, spesso, resta a metà strada tra vergogna e ostinazione.
Quando rientra a Sevenwaters dopo dieci anni di assenza, Maeve non ritrova una casa, ma un equilibrio incrinato. Il territorio è in subbuglio perché il confine con l’Altromondo non è mai neutro: è una soglia, e le soglie chiedono sempre un prezzo. Il principe del Popolo Fatato, Mac Dara, pretende che il figlio Cathal (legato alla famiglia di Maeve) ritorni là dove, secondo lui, appartiene. Per convincere Lord Sean, Mac Dara arriva a compiere l’impensabile: uccidere innocenti, trasformando il potere magico in ricatto, e il destino in una trappola.
Davanti ai cadaveri e alle domande che nessuno vorrebbe farsi, diventa chiaro che “fermarlo” non è solo un atto di coraggio, ma una sfida quasi filosofica: che cosa può la volontà umana contro una forza che riscrive le regole del mondo? Maeve, insieme al suo misterioso fratellino Finbar, intraprende un viaggio che somiglia a una discesa: nei boschi, nei legami di sangue, nelle zone d’ombra del proprio passato. La posta in gioco è brutale: decretare la fine del regno di Mac Dara o andare incontro a una morte orribile. Eppure, proprio lì, dove tutto brucia, Maeve intravede l’unica possibilità di futuro: non un lieto fine, ma una vita finalmente scelta.
“Come corteggiare una strega. Guida per demoni” di Sarah Hawley
A Glimmer Falls, cittadina americana con fondamenta costruite (letteralmente) dalla magia, Calladia Cunnington è l’erede meno “da leggenda” che si possa immaginare. Non la strega ammaliatrice con il sorriso obliquo: Calla è spigolosa, irascibile, ossessionata dalla palestra come se i pesi potessero tenere a bada l’ansia. E, quando serve, sa trasformare la rabbia in incantesimo. Non a caso, una notte finisce per intervenire in una rissa che non è una semplice rissa: un uomo sta per essere massacrato da un demone.
Calla lo salva d’istinto, felice di avere finalmente un bersaglio “degno” su cui scaricare energia e potere. Peccato che l’uomo che ha appena strappato alla morte sia Astaroth: membro dell’alto consiglio demoniaco, mercante di anime, bugiardo di professione e – dettaglio cruciale – il tipo di creatura che Calla detesta con una dedizione quasi personale. Solo che questo Astaroth non è quello dei racconti. È smarrito, ferito, soprattutto senza memoria: non ricorda nulla del suo passato, non capisce perché un demone di nome Moloch lo abbia attaccato, né perché la strega muscolosa che lo ha salvato gli provochi un’ostilità istintiva.
A quel punto, l’avventura prende la forma di un patto sporco e irresistibile: trovare la strega che può restituire ad Astaroth i ricordi, scoprire cosa sta tramando Moloch e come fermarlo. Calla lo fa per giustizia, per vendetta, forse anche per quella parte di sé che non sa abbandonare chi è in difficoltà. Ma più il viaggio li costringe alla vicinanza, più la certezza si incrina: se la memoria è una condanna, riportarla indietro significa davvero salvare Astaroth… o consegnarlo di nuovo al mostro che era?
Tra ironia, scintille e desiderio, “Come corteggiare una strega” gioca con i cliché del romantasy per ribaltarli: qui l’incantesimo più pericoloso non è la magia, è l’intimità.
“La foresta di mani e denti” di Carrie Ryan
Nel mondo di Mary le regole sono nette, quasi liturgiche: la Congregazione delle Sorelle decide che cosa è giusto, i Guardiani proteggono e comandano, gli Sconsacrati restano oltre la recinzione, dove la Foresta di mani e denti brulica come un organismo famelico. Il villaggio vive così, chiuso in un ordine che sembra naturale solo perché è ripetuto ogni giorno, come una preghiera imparata a memoria.
Poi Mary comincia a vedere le crepe. A intuire che le “verità semplici” sono spesso verità utili a qualcuno: segreti custoditi in nome della sicurezza, gerarchie travestite da destino, poteri che chiedono obbedienza e la chiamano protezione. La Foresta, che pareva un confine esterno, diventa anche un confine mentale: il luogo dove finiscono le domande, dove la paura tiene tutti al proprio posto.
Quando la recinzione viene violata e il caos entra nel villaggio, l’equilibrio si spezza in un attimo. La minaccia degli Sconsacrati non è più un racconto per tenere a bada la curiosità: è presenza, urgenza, fame che costringe a scegliere. Mary si ritrova così al centro di un passaggio brutale all’età adulta: non solo sopravvivere, ma decidere chi essere quando l’ordine crolla. Tra il villaggio e un futuro possibile, tra legami che stringono e desideri che spingono altrove, la sua storia diventa una corsa contro il tempo e contro le verità comode.
“La foresta di mani e denti” è un survival gotico e sentimentale, dove l’horror serve a illuminare qualcosa di più umano: quanto costa restare “al sicuro” quando la sicurezza è una gabbia, e quanto coraggio serve per attraversare il confine.
“House of Frank” di Kay Synclaire
Due anni dopo la morte della sorella Fiona, Saika arriva ad Ash Gardens con un compito che pesa più di una valigia: consegnare i resti e chiudere, finalmente, l’ultimo capitolo. Saika è una strega, sì, ma il lutto le ha tolto ciò che definiva la sua identità più della sua stessa voce: i poteri si sono spenti insieme a Fiona, lasciandole addosso una vulnerabilità che non ha voglia di confessare a nessuno.
Il viaggio, però, devia nel punto più narrativamente giusto: un santuario battuto dalla pioggia e una casa che sembra un personaggio. A riceverla c’è Frank, enorme creatura mitologica dal gusto sorprendentemente domestico (cardigan fatti a maglia, calore quieto, ospitalità senza domande). Saika accetta di fermarsi “solo per un po’”, sapendo che quel “po’” è un modo elegante per rimandare l’addio: restare significa guadagnare tempo, sospendere il dolore, respirare altrove.
Per non incrinare l’equilibrio della casa e dei suoi abitanti, Saika sceglie la finzione: si finge ancora potente, si limita a piccoli incantesimi rubati a un frammento di stella cadente. Intorno a lei si muove un microcosmo strano e tenero: gemelli cherubini litigiosi, un fantasma muto, una fata della luce, un elfo intrattabile, una strega a metà che sembra sapere sempre qualcosa in più.
Nel tempo lento di Ash Gardens, Saika impara che la magia non è soltanto ciò che si fa, ma ciò che si regge: la convivenza tra gioia e dolore, l’amore che non guarisce “al posto di”, ma “insieme a”. E forse, prima di riportare Fiona a casa, dovrà capire dove — e con chi — è casa lei.
“Metal Slinger” di Rachel Schneider
In “Metal Slinger” Rachel Schneider apre su un’educazione che è già una frontiera: Brynn non è nata tra gli Alaha, eppure è il mare ad averla cresciuta. La sua vita è fatta di sale, onde e disciplina: si addestra come guardia, impara a proteggere la comunità e coltiva un desiderio semplice, quasi infantile, perché semplice non è mai: mettere finalmente piede sulla terraferma durante il Mercato annuale.
Il Mercato, però, non è soltanto festa. È il punto in cui le mappe politiche si sovrappongono alle ferite. I Kenta sono il popolo “di terra” che, un secolo prima, ha condannato gli Alaha a vivere al largo: una tregua lunga cent’anni, tenuta insieme più dall’abitudine che dalla fiducia. È qui che Brynn incrocia un soldato nemico dagli occhi scuri e dallo sguardo troppo pieno di cose taciute. L’incontro scatta come una miccia: non solo perché l’attrazione scompagina i ruoli, ma perché quell’uomo sembra sapere dettagli che nessuno dovrebbe conoscere. Su di lei. Su chi è davvero.
Da quel momento la storia accelera: un episodio di violenza, una fuga, la sensazione che qualcuno stia muovendo i fili da prima ancora che Brynn si accorga di essere parte del gioco. E poi la svolta più pericolosa: il risveglio di un potere che Brynn non aveva mai nominato, come se bastasse non chiamarlo per tenerlo a bada.
Schneider costruisce un romantasy di identità e appartenenza: ribellione e lealtà si tirano per la giacca, amicizia e desiderio chiedono scelte definitive. Brynn si ritrova con il cuore diviso tra la fedeltà al popolo che l’ha cresciuta e la vertigine della verità, con la consapevolezza che conoscere se stessi può essere il tradimento più alto — e, insieme, l’unica forma di salvezza.
“The wind weaver. Tessitrice di vento” di Julie Johnson
In Anwyvn, un continente consumato dalla guerra, la magia non è un dono: è un marchio da estirpare. I mezzosanguecome Rhya Fleetwood vengono braccati e impiccati in pubblico, come monito e spettacolo. Quando la sua esecuzione sta per compiersi, però, la corda non stringe fino in fondo: a spezzare il rito della violenza arriva il Comandante Falco, mercenario enigmatico, più temibile – e più indecifrabile – di chi la voleva morta.
Da quel momento Rhya è costretta a fuggire verso le Terre del Nord, attraversando un paesaggio freddo e ostile in cui ogni incontro sembra un test, ogni sosta un possibile tradimento. Più si allontana da ciò che chiamava “casa”, più il mondo perde la sua chiarezza: Falco non è l’uomo che aveva immaginato, la minaccia che divora Anwyvn ha radici più antiche della guerra, e soprattutto Rhya stessa non corrisponde alla definizione in cui l’hanno rinchiusa.
Il suo sangue infatti è frutto di un’unione proibita – mortale e fae – e una voglia sul petto rivela la verità che cambierà le regole del gioco: Rhya è una Tessitrice di Vento, una delle quattro incarnazioni di un potere elementale legato a un’antica profezia. Imparare a governare quella forza, però, è solo metà della battaglia. L’altra metà si gioca sul corpo e sull’istinto: l’attrazione per Falco cresce con la stessa elettricità delle tempeste che le ruggiscono dentro, mentre la fiducia resta una moneta rara.
Tra destino e scelta, “Tessitrice di vento” spinge Rhya in un punto di frizione: diventare arma contro il crollo del suo mondo, oppure lasciare che il fuoco – politico, magico, emotivo – la consumi.
“L’usignolo e il cuore di pietra” di Clarissa Broadbent
Mische non è diventata vampira per scelta: è stata mutata contro la propria volontà e, con quel morso, le è stato sottratto tutto ciò che la definiva. La casa, la vita di prima, persino la fede limpida con cui aveva consacrato ogni gesto al dio del Sole. Ora porta addosso una condanna: ha ucciso il principe vampiro che l’ha trasformata e attende la morte come un verdetto già scritto. Invece arriva Asar, il “principe bastardo” del Casato dell’Ombra, e la strappa al patibolo per consegnarle una missione ancora più crudele: scendere nell’oltretomba e riportare nel mondo dei vivi il dio della Morte.
Il patto ha il sapore dell’eresia e della trappola. Perché se la discesa è un percorso di prove, mostri e memorie vendicative, la vera lama è altrove: in un incontro segreto, il dio del Sole ordina a Mische di aiutare Asar… per poi tradirlo. L’obiettivo è spaventoso e lucidissimo: uccidere lo stesso dio della Morte nel momento in cui verrà risvegliato. Così la punizione può trasformarsi in “salvezza”, ma a prezzo di un’ombra che si attacca alla pelle.
In questo viaggio, Mische e Asar avanzano insieme lungo un confine instabile: lui è segnato da un passato feroce, lei da una devozione ferita che cerca ancora una forma. Intanto cresce un’attrazione proibita, più pericolosa dei demoni incontrati lungo la strada, perché parla di desiderio e di destino, e mette alla prova ciò che ognuno crede di essere. Quando l’oltretomba si avvicina e le divinità cominciano a fremere, la scelta di Mische diventa un nodo morale prima ancora che romantico: redenzione al Sole, oppure dannazione nell’oscurità. E, soprattutto, chi sarà quando la luce non basterà più a spiegare il cuore.
“Tigana” di Guy Gavriel Kay
In “Tigana”, Guy Gavriel Kay prende un ingrediente da epic fantasy “classico” – una penisola frammentata, nove province, due tiranni in lotta per il dominio – e lo ribalta con un’idea crudele e lucidissima: la conquista non si accontenta di occupare la terra, vuole colonizzare la memoria.
Da oltre vent’anni il Palmo vive sotto il doppio giogo di Brandin di Ygrath e Alberico di Barbadior, rivali spietati e complementari, come due facce della stessa febbre di potere. La scintilla della tragedia si accende durante la guerra: Stefan, figlio di Brandin, muore in battaglia per mano di Valentin, principe di Tigana. Brandin risponde con una vendetta esemplare: rade al suolo le città della provincia, tortura e uccide Valentin, ma decide che il sangue non basta.
Chiama la stregoneria a completare l’opera e lancia un incantesimo che cancella dalla bocca e dalla mente di tutti un solo suono, un solo nome: Tigana. La provincia resta lì, come una ferita geografica, ma per il mondo è muta; soltanto i suoi abitanti possono pronunciare quel nome – o riconoscerlo quando lo sentono.
Vent’anni dopo, tra i superstiti cresce una resistenza clandestina guidata da Alessan bar Valentin. Il loro obiettivo sembra semplice e impossibile insieme: restituire al Palmo la parola perduta, riportare Tigana nel linguaggio comune e quindi nella storia. Per riuscirci, una via appare inevitabile: uccidere Brandin. Ma Alessan vede più lontano del desiderio di rivalsa: eliminare un tiranno può spalancare la strada all’altro. Così il piano si fa più ambizioso e più pericoloso: colpire entrambi in un colpo solo, mentre attorno la politica, la paura e l’oblio continuano a lavorare come una seconda, invisibile armata.
“Tecum” di Azura Helianthus
In “Tecum” di Azura Helianthus si torna dove fa più male: nel punto esatto in cui il sacrificio smette di sembrare eroico e diventa una crepa permanente. Arya ha già pagato tutto per salvare chi amava; eppure gli dèi, come spesso accade nelle storie governate dal fato, non chiudono mai davvero i conti. Le concedono una seconda possibilità: rientrare nel mondo terreno. Solo che il mondo, nel frattempo, ha continuato a muoversi senza di lei. E soprattutto è cambiato Dantalian, il suo fatum: non più promessa, ma ferita viva, impastata di rabbia, desiderio e segreti.
Il tempo stringe, e la “seconda vita” non arriva come tregua, ma come nuovo incarico. Arya deve salvare Nezha, ragazza metà demone, rinchiusa in un orfanotrofio enigmatico dove un’élite studentesca prospera dietro una facciata di privilegi e impunità. Per entrarci, Arya si costruisce una falsa identità e prepara un piano rischioso contro un avversario senza volto: un potere che si sottrae allo sguardo, e proprio per questo domina.
Mentre l’indagine scoperchia verità capaci di riscrivere ogni lealtà, Dantalian si fa vicino, “complice” per proteggerla. Ma la vicinanza è ambigua: è ancora l’uomo del tradimento, o qualcuno disposto a bruciarsi per rimediare? Tra identità rubate, colpi di scena e confessioni rimandate troppo a lungo, Arya si ritrova davanti alla scelta più crudele: lasciare il passato oppure combattere per ciò che aveva giurato di proteggere, anche quando l’obiettivo non è una missione, ma il proprio cuore.
“So this is ever after. Per sempre felici e contenti” di F.T. Lukens
In “So this is ever after. Per sempre felici e contenti” F. T. Lukens prende il punto più sottovalutato di ogni fantasy classico e lo trasforma in trama: cosa succede quando la profezia è compiuta, il cattivo è stato sconfitto e l’eroe resta con in mano… il “dopo”.
Arek ha fatto tutto quello che si chiede a un prescelto: ha guidato la sua banda sgangherata, ha trovato le armi magiche (con risultati un po’ tragicomici), ha abbattuto il sovrano malvagio di Tempofa e ha conquistato il regno. Solo che, appena si spengono le fanfare, arriva il conto: il trono porta con sé una maledizione capricciosa e crudele. Se il re non sceglie una sposa prima del suo diciottesimo compleanno, svanirà nel nulla. Tre mesi. Un regno da reggere. Una deadline da commedia romantica.
Spinto dal suo migliore amico e consigliere improvvisato, Matt, Arek avvia una corsa contro il tempo alla ricerca della consorte perfetta. E da dove si comincia, in un mondo dove le imprese si risolvono a colpi di spada? Dai volti familiari: gli ex compagni di missione, ciascuno con la propria eccentricità, le proprie ferite, la propria idea di amore. Ma i corteggiamenti si rivelano un terreno più scivoloso di una battaglia: appuntamenti disastrosi, fraintendimenti, gelosie, pressioni di corte e un sovraccarico emotivo che nessun addestramento da eroe prepara davvero.
Sotto la superficie brillante e ironica, il romanzo gioca con gli archetipi: smonta il mito dell’eroe “completo”, racconta la vulnerabilità del potere e lascia emergere una verità semplice e affilata. A volte la profezia più difficile non è salvare il mondo: è capire chi si ama, e chi ci ha già scelti da tempo.
“The Sleepless. La maledizione dei Senzasonno” di Jen Williams
In “The Sleepless. La maledizione dei Senzasonno”, Jen Williams costruisce un fantasy dove l’incanto è sempre una minaccia: un potere che brucia la pelle, una fede che diventa destino, e il sonno – normalmente rifugio – che si trasforma in campo di battaglia.
Elver è la guardiana solitaria della foresta dei mostri. Da bambina è stata salvata dalla Regina dei Serpenti e, in quell’istante, mutata in qualcosa di “altro”: il suo tocco uccide. Per questo vive ai margini del mondo umano, come un’ombra che protegge senza poter essere toccata, condannata a tenere la distanza proprio mentre veglia sugli altri.
Artair, invece, è un giovane monaco segnato da una maledizione crudele: nel suo corpo convivono due anime, la sua e quella di Lucian, uno spirito oscuro che prende il controllo ogni volta che Artair si addormenta. La notte diventa un rischio operativo, un interruttore che può scatenare caos e sangue; il giorno, una tregua sempre troppo breve.
Quando una missione “obbligata” li costringe a camminare insieme, Elver e Artair devono imparare a fidarsi mentre tengono a bada ciò che li abita. E qui Williams alza la posta: la foresta è solo l’inizio. Tra divinità affamate di potere, mostri antichi, alleanze ambigue e una magia che sfugge alle categorie, il viaggio trascina i protagonisti dalle vette della Torre Dorata ai nidi sotterranei dei keltraxia, fino ai santuari proibiti degli dèi.
Ma la vera tensione, sotto l’avventura, è intima: la linea tra nemici, complici e desiderio si sfuma, soprattutto quando Lucian – presenza inquietante e seducente – reclama spazio. Un romanzo d’azione e di metamorfosi, dove l’amore non salva per decreto: è una scelta rischiosa, fatta nel punto esatto in cui il mondo potrebbe riscriversi. E, con lui, i confini del cuore: ciò che si teme, ciò che si vuole, ciò che si è.
“Silvercloak” di L.K. Steven
In “Silvercloak” L.K. Steven costruisce un mondo dove il potere non si misura in oro, ma in sensazioni: piacere e dolore sono valute, e quindi strumenti di governo, ricatto, dipendenza. In questo equilibrio tossico si muove Saffron, una ragazza che ha visto la propria vita spezzarsi quando i genitori sono stati uccisi dai Lunasangue, la più vasta e feroce organizzazione criminale di maghi. Da quel momento, la vendetta smette di essere un impulso e diventa un mestiere.
Saffron entra nell’Accademia dei Manti d’Argento, fucina d’élite per detective e cacciatori di fuorilegge: un luogo che promette giustizia ma pretende disciplina, obbedienza, e una certa dose di cieca fede nelle istituzioni. La sua infiltrazione, però, non resta segreta a lungo. Quando l’inganno viene scoperto, la punizione non è l’espulsione: è qualcosa di più utile e più crudele. Saffron viene spedita sotto copertura proprio tra i Lunasangue, con l’ordine di logorarli dall’interno.
Da qui il romanzo si fa nervoso: bande rivali, contrabbandieri, spie, gerarchie che si reggono sulla paura. Per sopravvivere e proteggere la sua falsa identità, Saffron è costretta a sporcarsi le mani, fino al punto in cui la linea tra infiltrata e complice comincia a tremare. E come spesso accade nelle storie di maschere, il pericolo più grande non è l’arma puntata, ma ciò che nasce quando abbassi la guardia: Levan, figlio del boss, un sentimento inatteso che trasforma la missione in un campo minato emotivo.
“Silvercloak” è una corsa in cui ogni scelta ha un prezzo: vendetta o giustizia, lealtà o desiderio, sopravvivenza o verità. E la domanda resta sospesa, come una lama: puoi usare il dolore senza diventare il dolore?
“Le sfide dell’impero” di Richard Swan
In “Le sfide dell’impero”, Richard Swan porta la sua saga al punto in cui la politica smette di essere un gioco di palazzo e diventa una questione di sopravvivenza collettiva. L’Impero del Lupo è in ginocchio, eppure “la grande bestia” continua a respirare: abbastanza, però, per attirare predatori.
Sir Konrad Vonvalt e Helena si muovono su un terreno che è insieme militare, morale e metafisico. Per salvare Sova devono cercare alleati oltre i confini, là dove i vecchi rancori sono più solidi delle mappe: gli uomini-lupo delle Pianure Meridionali e i pagani del Nord. Convincerli significa scendere a patti con tradizioni ostili, interessi opportunisti e memorie che non vogliono essere pacificate. E anche quando la parola “alleanza” sembra possibile, resta la domanda più crudele: chi trae davvero vantaggio dal fatto che l’Impero cada?
A rendere la posta ancora più alta è la figura di Bartolomeo Claver, nemico fanatico e carismatico, potenziato da forze infernali che sembrano arrivare da un misterioso essere demoniaco. La guerra, così, non si limita più al visibile: i confini del conflitto si delineano sia nel mondo dei vivi sia nell’Aldilà, dove colpa, giustizia e destino tornano a chiedere il conto.
Vonvalt e Helena hanno bisogno di sostenitori “chiunque essi siano”, ma ogni sostegno ha un prezzo, e spesso quel prezzo è identitario: cosa resta del Lupo quando, per salvarlo, bisogna trasformarlo? Nel cuore pulsante dell’Impero si avvicina la resa dei conti: la promessa di un Lupo a due teste che può rinascere come trionfo di giustizia… oppure essere schiacciato dall’ombra lunga della tirannia.
“Un pugno di radici” di Maria Turtschaninoff
Nelle foreste della Finlandia seicentesca, il guerriero Matts ottiene un lembo di terra selvaggia come ricompensa per il coraggio in guerra. Su quel suolo intriso di muschio e silenzio ancestrale decide di piantare le proprie radici, ignaro che la terra stessa respiri antica magia. La torbiera è viva, un cuore scuro che pulsa sotto acque stagnanti: osserva gli uomini che la sfidano, li punisce quando violano i suoi decreti arcani e a volte li protegge. La foresta intorno mormora di spiriti e dèi dimenticati, e ogni passo di Matts risveglia echi di un tempo primordiale.
La sua stirpe attecchisce lì e generazione dopo generazione intreccia il proprio destino a quella terra viva. Le stagioni scandiscono ogni destino: primavere di speranza, estati di passione, autunni di rimpianto e inverni di fame si succedono mentre la storia familiare si srotola come un sentiero nel bosco. Nel ciclo eterno, peccato e redenzione si rincorrono. C’è chi tradisce un giuramento d’amore e paga un prezzo amaro alla terra vigile. C’è una fanciulla che cerca riscatto in un matrimonio, sperando di sfuggire alle radici incantate, ma il richiamo della palude e dei ricordi non la abbandona.
E c’è un padre piegato dalla perdita che invoca invano il ritorno di ciò che ha perduto, mentre la torba nera beve in silenzio le sue lacrime e custodisce nel profondo quel dolore senza tempo.
La vita di ognuno lascia un’impronta effimera come le orme delle gru danzanti sulla torbiera in primavera; eppure, sommandosi, quelle tracce diventano eterne nella memoria del luogo. Il vento sussurra antiche preghiere e la terra custodisce ogni storia, trasfigurandola in leggenda. Così Un pugno di radici si dispiega come un racconto corale e primordiale che ci rammenta che nessuna vita può recidere il legame con la terra che l’ha generata: uomini, terra, stagioni e memoria condividono un unico respiro antico e ogni attimo appartiene a una narrazione più grande, tessuta dal misterioso potere della natura.
“La principessa Floralinda e la Torre di quaranta piani” di Tamsyn Muir
In “La principessa Floralinda e la Torre di quaranta piani”, Tamsyn Muir prende la fiaba “classica” e la piega fino a farle scricchiolare le giunture, come se stesse controllando dove, davvero, regge l’archetipo della principessa in attesa.
La premessa è un congegno perfetto e crudele: una strega ha costruito una torre di quaranta piani, ognuno presidiato da un mostro diverso, dal drago dalle scaglie tempestose di diamanti a branchi di goblin sbavosi. La regola è semplice e spettacolare: se un principe arriva in cima, riceve una spada dorata e “l’adorabile principessa Floralinda” come ricompensa. Solo che nessuno ci arriva.
Anzi, non riescono nemmeno a superare il pianterreno. I principi si consumano come una risorsa in esaurimento, i tentativi diventano routine, la salvezza promessa si trasforma in un’attesa logorante.
Ed è qui che Muir sposta la luce: Floralinda non è un oggetto al centro della trama, ma una coscienza chiusa dentro un meccanismo narrativo che non funziona più. Con l’inverno che si avvicina e il tempo che si stringe, la torre non è soltanto una prigione verticale: è una scuola forzata di realtà. L’eroismo, l’amore “destinato”, il premio finale vengono smontati pezzo per pezzo, finché alla principessa resta una domanda scomoda: cosa succede quando nessuno viene a salvarti, e la storia pretende comunque che tu resti ferma?
Il risultato è una fiaba per adulti che usa umorismo e fantasia come leve, ma con un sottotesto netto: imparare a combattere, a dubitare, a pensare con la propria testa — proprio ciò che una principessa, di solito, “non dovrebbe” fare.
“Monstrous night. Il ritorno della strega. Foul days” di Genoveva Dimova
Nel secondo (e conclusivo) capitolo della dilogia “Foul days” , Genoveva Dimova riporta il lettore in una geografia di confine dove la realtà ha muri, crepe e superstizioni che sanno di legge naturale. Kosara è tornata a Chernograd con qualcosa che somiglia a una vittoria: ha recuperato la propria ombra e, insieme, ha “ereditato” le ombre di altre undici streghe morte nel matrimonio mortale con lo Zmey, la creatura a cui lei stessa è riuscita a sfuggire per un soffio. Sulla carta, un capitale di potere senza precedenti.
Nella pratica, un’armata indisciplinata: le ombre non sono strumenti docili, sono presenze con appetiti, memoria, resistenza. E ciò che promette salvezza rischia di diventare fame.
Intanto, a Belograd, Asen segue l’unica traccia rimasta del suo ultimo caso: una catena di omicidi di streghe mai risolta. È convinto che dietro tutto si muova il boss del contrabbando Konstantin Karaivanov, e la caccia lo trascina in un sottosuolo che sembra il rovescio morale della città: un’asta clandestina di mostri. Da lì le piste lo riportano a Chernograd, come se i due luoghi fossero collegati da un’unica, lunga arteria marcia.
Oltre il muro, però, cominciano i segnali che fanno più paura perché stonano: neve a inizio estate, una strega trovata morta con due ombre, apparizioni di creature che dovrebbero mostrarsi soltanto durante i Foul Days. Qualcosa sta assottigliando la barriera tra i mondi. E Kosara, con le sue ombre addosso come una colpa viva, non può evitare la domanda più tagliente: quanto di questo disastro porta la sua firma?
