Dimmi dove vai e ti dirò cosa leggere: 14 libri per 14 mete estive

22 Giugno 2025

Scopri i 14 libri perfetti per accompagnarti in 14 meravigliose mete estive. Ogni libro ti porterà nel suo Paese.

Dimmi dove vai e ti dirò cosa leggere: 14 libri per 14 mete estive

Paese che vai, libri da leggere che trovi: ci sono viaggi che iniziano aprendo una mappa, e altri che cominciano sfogliando le pagine di un libro. Alcuni luoghi, più di altri, sembrano custodire romanzi nascosti tra i vicoli, tra i profumi delle cucine locali, nei silenzi dei paesaggi. Questo articolo di libri da leggere in base alle mete estive è una mappa letteraria sentimentale: un itinerario che abbina a ogni destinazione un libro che sa raccontarla, svelarla, o persino contraddirla. Non sono semplici storie ambientate in un certo luogo, ma narrazioni che ne incarnano l’anima, che vi porteranno dove forse non pensavate di arrivare

14 libri da leggere per 14 viaggi alla scoperta delle mete letterarie: viaggiare attraverso la lettura per un’esperienza culturale unica

Che si tratti di passeggiare nella Tokyo malinconica di Murakami, di sentire la sabbia del Maghreb nelle parole di Driss Chraïbi o di ritrovare la Roma segreta attraverso Elsa Morante, ogni libro è una chiave d’accesso a un mondo. E ogni mondo ha la sua storia da raccontare. Paese che vai, libro che trovi è un invito alla scoperta, ma anche alla sosta: leggere per viaggiare, viaggiare per leggere. Perché a volte, per conoscere un Paese davvero, bisogna lasciarsi guidare dai libri e da chi lo ha raccontato per primo, con le parole giuste.

 

Asia: Racconti popolari della Cambogia, del Laos e del Siam di Auguste Pavie

C’è un mondo che vive sul confine tra mito e storia, leggenda e geografia, oralità e scrittura. È il mondo della tradizione delle più antiche e stratificate dell’Asia sudorientale, eppure ancora largamente sconosciuta al lettore occidentale. Questo volume, che raccoglie cinque racconti popolari cambogiani, rappresenta un gesto importante: quello di riportare alla luce una voce culturale sopravvissuta al tempo, ai colonialismi, alle guerre e persino ai genocidi del Novecento.

Al centro della raccolta si staglia Vorvong e Sovrong, il racconto considerato la vetta della letteratura classica cambogiana: una storia di due fratelli separati dal destino e riuniti dalla virtù, tra prove da superare, creature leggendarie, incantesimi e battaglie morali. Non è solo una fiaba: è un testo che incarna lo spirito di un popolo, la sua visione del mondo e il suo sistema di valori.

L’eroismo, il sacrificio, il karma e la rettitudine buddista si intrecciano con elementi mutuati dalle grandi epopee indù come il Ramayana e il Mahābhārata, ma ritradotti nella sensibilità khmer, con paesaggi, figure e ritmi locali. A rendere possibile la conservazione di questo universo narrativo fu Auguste Pavie, esploratore, linguista e diplomatico francese vissuto tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento. Fu lui a trascrivere e diffondere per primo molte di queste storie, rendendole accessibili tanto agli studiosi europei quanto agli stessi cambogiani.

La sua opera fu decisiva non solo per l’etnografia e la storia culturale dell’Indocina, ma anche per la sopravvivenza stessa di una memoria minacciata dalla modernizzazione e dalla colonizzazione. Oggi, queste narrazioni tornano a circolare in forma scritta, finalmente tradotte e presentate al lettore contemporaneo con rispetto filologico e senso poetico.

Ogni racconto è un piccolo microcosmo che racchiude insegnamenti morali, riferimenti alla geografia del Paese, motivi religiosi e simbolici, oltre a un’estetica del racconto che privilegia la ripetizione, l’intuizione e la circolarità. Un aspetto affascinante del libro è il modo in cui le storie si legano ai luoghi: montagne, fiumi, grotte e villaggi diventano protagonisti tanto quanto gli eroi e le dee. Le origini di alcuni nomi geografici vengono spiegate attraverso racconti mitici, rendendo la narrazione una vera e propria mappa spirituale del territorio cambogiano. Ma c’è anche un’altra mappa che emerge con forza: quella del pensiero.

L’etica buddista theravāda, fondata su impermanenza, compassione e giustizia karmica, guida le azioni dei personaggi e struttura gli esiti delle storie. A ogni tradimento segue un castigo, a ogni atto di virtù una ricompensa. Eppure, nonostante la rigidità del sistema morale, c’è una forte tensione emotiva che avvicina questi racconti alle nostre fiabe europee più oscure e profonde.

Questo libro non è solo una raccolta di racconti antichi: è una soglia. Apre uno spiraglio su una civiltà che ha fatto della narrazione orale un veicolo di educazione, identità e memoria. In un’epoca in cui la Cambogia è spesso raccontata solo attraverso la lente del trauma (la guerra civile, i Khmer rossi, i genocidi), questa raccolta restituisce voce a un patrimonio che precede e sopravvive alle tragedie del secolo scorso. Le fiabe khmer ci ricordano che le culture marginalizzate non sono minori, e che ogni storia popolare custodisce un frammento di verità universale.

Sono testi che meritano di essere letti nelle scuole, studiati nelle università, raccontati ad alta voce, come erano stati concepiti. Molto più di un libro di fiabe esotiche: è un’opera letteraria, antropologica e politica. Permette di riscoprire le radici di una civiltà che ha saputo mescolare epica, saggezza e spiritualità in racconti immortali, restituendo dignità a una tradizione che ha molto da insegnarci anche oggi. Un volume da leggere lentamente, magari a voce alta, per riscoprire il ritmo incantato delle storie che hanno viaggiato a lungo prima di arrivare a noi.

 

Sardegna: La levatrice di Bibbiana Cau 

Tra i libri da leggere se la vostra meta estiva si trova in Sardegna vi consigliamo quest’opera ambientata nell’isola sarda durante il 1917, tra vento di maestrale e mormorii di paese, il libro ci conduce in una comunità fatta di donne, fatiche silenziose e saperi antichi, dove il confine tra cura e resistenza si dissolve nel gesto quotidiano. Al centro della storia, due figure femminili forti e indimenticabili: Mallena, la llevadora, e Angelica, l’ostetrica “ufficiale”, arrivata dal continente. Mallena non è nata a Norolani, ma è diventata il cuore pulsante del paese.

È la donna che conosce il corpo, la sofferenza e la gioia delle altre donne; è la madre simbolica di una comunità che le deve la vita, ma che continua a negarle il riconoscimento che merita. Assistente alle partorienti per puro spirito di dedizione, Mallena incarna una conoscenza antica, ereditata dalla madre, che la scienza ufficiale disprezza ma non riesce a sostituire.

Angelica Ferrari, al contrario, rappresenta l’emancipazione istruita, quella che si conquista lottando contro i padri-padroni, contro il maschilismo borghese, contro una società che relega le donne alla domesticità e considera la vocazione professionale una sfida personale e politica. Le sue mani sono allenate alla pratica clinica, ma ancora inesperte del linguaggio del territorio, del dolore sussurrato, delle alleanze femminili costruite nel tempo. Il romanzo ha l’intelligenza di non costruire un conflitto facile tra queste due protagoniste. Non le mette l’una contro l’altra, non le trasforma in antagoniste.

Le osserva piuttosto nella loro resistenza speculare: Mallena, priva di titoli ma ricca di autorevolezza; Angelica, piena di titoli ma povera di fiducia. Entrambe desiderano libertà, entrambe sono state ferite. Entrambe, in modi diversi, sono minacciate da un potere che premia chi si adegua e punisce chi cura senza autorizzazione. E quando Jubanne, marito amato e devastato dalla guerra, torna a casa con il corpo e l’anima spezzati, la precarietà di Mallena si fa più acuta. È qui che la narrazione accelera: Mallena chiede il giusto riconoscimento per il suo lavoro, ma riceve solo rifiuti. Il suo sapere non è certificato, non è “istituzionale”.

Così come spesso, ieri come oggi, la cura offerta dalle donne, nelle famiglie, nei paesi, nei corpi altrui, resta invisibile, marginalizzata, sminuita. L’autrice plasma una prosa che profuma di vento salmastro, di pane cotto nel forno a legna, di erbe raccolte in silenzio. La lingua del romanzo alterna registri lirici e realistici, rendendo giustizia alla bellezza aspra della Sardegna di inizio secolo. La quotidianità dura e silenziosa delle donne è raccontata con pudore e rispetto, senza mitizzazioni ma anche senza pietismi. La ricostruzione storica è accurata, ma mai didascalica.

Ogni dettaglio: dai decreti regi agli usi locali, serve a delineare un contesto sociale in cui il corpo femminile è campo di battaglia e custode di memoria. E proprio in questo contesto, la sorellanza diventa forza trasformativa: perché la vera alleanza, nel libro, nasce non nel riconoscimento ufficiale, ma nella solidarietà concreta tra donne che si capiscono al primo sguardo. Quando la situazione precipita e i fantasmi del passato si fanno minacciosi, è la comunità a schierarsi.

Quella stessa comunità che aveva assistito in silenzio, che aveva approfittato del dono di Mallena senza mai riconoscerlo, ora trova il coraggio di chiedere giustizia. Un gesto che ha il sapore di una rinascita collettiva, di una consapevolezza che supera l’individualismo e riconosce il valore del bene comune. Mallena è un romanzo potente e necessario, un affresco al femminile che parla di maternità, guerra, ingiustizia e resistenza.

Ma soprattutto parla di cura: quella che si offre senza aspettarsi nulla in cambio, quella che viene negata quando si chiede rispetto, quella che unisce le donne anche quando il mondo cerca di dividerle. In un’epoca in cui la medicina e la politica continuano a interrogarsi sul ruolo della cura, questo libro ci ricorda che la prima forma di giustizia è il riconoscimento del valore umano. Un libro da leggere, da regalare, da portare nelle scuole. Perché dietro ogni Mallena ci sono milioni di donne che ancora oggi assistono, curano e resistono in silenzio.

 

Francia: Duo, Tituné, Gigi di Colette 

Duo 

Nel 1934, quando Duo vede la luce, Colette è già Colette: icona letteraria, scandalo borghese e osservatrice inarrivabile delle passioni umane. Ha sessantun anni, una carriera consolidata e lo sguardo di chi ha attraversato senza paura le frontiere del desiderio, della maternità, della gelosia, dell’amore maturo. Ma Duo non è un bilancio: è una vertigine. Un romanzo breve, tagliente come una lama che incide nel cuore di una relazione, e lascia la ferita aperta.

Protagonisti sono Michel, impresario teatrale, e Alice, sua moglie. La scoperta del tradimento, che avviene non per confessione ma per un raggio di luce viola riflesso su un viso che non mente, è solo il detonatore. In realtà, il romanzo non racconta tanto l’infedeltà, quanto il dopo: il tempo dell’ossessione, della recriminazione, dell’impossibilità del perdono. Michel è l’uomo che non sa dimenticare, e Alice è la donna che ha già pagato, ma per cui non c’è assoluzione.

Qual è il male peggiore? Un tradimento per amicizia o per sensualità? È Michel a porre questa domanda, ma il libro non offre risposte. Colette non giudica: indaga. E lo fa nel modo più spietato, mettendo a nudo la vulnerabilità maschile, il senso del possesso, la violenza passiva del non saper perdonare. Michel non è un uomo tradito: è un uomo disorientato, destabilizzato da un gesto che incrina la sua idea di coppia, ma soprattutto di sé stesso.

Alice, invece, è uno dei personaggi femminili più interessanti dell’autrice. È viva, concreta, fiera dei suoi trentasette anni vissuti senza urgenza. Ha commesso un errore, lo riconosce, ma rifiuta la parte della peccatrice in cerca di espiazione. Non cerca giustificazioni, cerca dignità. E in questo si afferma come figura modernissima, che sfida la narrativa patriarcale della redenzione femminile.

Duo è un titolo fuorviante, e volutamente ambiguo. Non c’è armonia in questo “duetto”, non c’è contrappunto, ma dissonanza continua. La voce di Michel e quella di Alice non si completano, si scontrano. Il loro dialogo, fatto più di silenzi, monologhi e sguardi che di vera comunicazione, è il fulcro del romanzo. E Colette, con maestria, costruisce un contrappunto narrativo in cui il tempo sembra sospeso: tutto accade in pochi giorni, ma ogni parola pesa come se fosse scolpita nella pietra.

Lo stile di Colette, qui più che mai, è incarnato. Le emozioni sono fisiche, tangibili: il calore dell’estate, la luce che entra dalla finestra, il cigolio delle assi di legno… tutto contribuisce a creare un’atmosfera soffocante, da camera chiusa. I corpi, i silenzi, le notti insonni, le parole non dette: ogni elemento diventa sintomo di una frattura, traccia di un dolore muto ma implacabile.

L’autrice non ha bisogno di eventi spettacolari per costruire la tensione narrativa. Le basta un gesto, uno sguardo, un pensiero interrotto. Duo è un romanzo dell’attesa, dell’indecidibile. Un libro che somiglia a una stanza in cui si è appena litigato: il disordine è minimo, ma ogni oggetto vibra.

E poi c’è il finale. Un gesto netto, improvviso, che chiude la storia con brutalità: il suicidio di Michel. Non è solo una conclusione tragica, ma una dichiarazione d’intenti. L’impossibilità del perdono, la paralisi del desiderio, l’incapacità di reinventarsi: tutto questo conduce Michel verso un gesto definitivo. E Colette non lo romanticizza, non lo mitizza. Lo descrive come atto tragicamente coerente con un uomo che non ha saputo cambiare spartito.

Duo è un romanzo breve ma densissimo, una delle opere più sottili e dolorose di Colette. Con chirurgica precisione, l’autrice smonta i meccanismi dell’amore coniugale, la fragilità maschile di fronte al tradimento, e il coraggio silenzioso delle donne che non chiedono perdono ma comprensione.

È un libro che non consola, che non salva. Ma che resta nella mente come una melodia spezzata, impossibile da dimenticare.

Il tutuné

Cosa succede dopo la fine? Dopo il dolore, dopo la tragedia, dopo il punto. In Le sorelle Eudes, Colette decide di rispondere a una domanda che solo lei poteva porre con tanta grazia disarmante: cosa ne è di Alice, protagonista di Duo, dopo il suicidio del marito Michel? La risposta non è drammatica, né lirica: è un ritorno. Un rientro fisico e mentale in quel nido imperfetto eppure essenziale che è l’infanzia, fatta di oggetti, abitudini, odori e presenze. Tra tutte, il tutuniè: il vecchio divano slabbrato e comodo su cui le sorelle Eudes si confidavano da bambine e ora si ritrovano da adulte.

Questo romanzo, pubblicato nel 1939 quando Colette ha ormai 65 anni, è una riflessione lucida e malinconica sull’essere donna, sorella, amante e figlia in un mondo che continua a mutare senza mai diventare veramente ospitale. Ma soprattutto è una sinfonia a quattro voci: quelle di Alice e delle sue tre sorelle, unite da un destino comune ma attraversate da esperienze e fragilità diversissime.

Se Duo era un romanzo claustrofobico, abitato da due soli corpi in dissonanza, Il tutunié è un libro corale e pieno di aperture. Ogni sorella racconta la propria vita sentimentale, i propri tentativi (spesso fallimentari) di condividere la propria interiorità con uomini sempre più inadeguati, incapaci, fragili o invadenti. Il maschile qui è una presenza latente, un’assenza rumorosa. Gli uomini non parlano, ma pesano. Le loro debolezze lasciano strascichi che le sorelle si raccontano in una specie di liturgia laica, tra ironia, sdegno e tenerezza.

Colette non giudica nessuno, ma osserva tutto. Con la sua prosa minuta e sensoriale, descrive le crepe del vivere a due e le ricompone nel conforto delle relazioni femminili: tra sorelle, appunto. È come se Alice trovasse finalmente la possibilità di respirare: fuori dalla tensione del matrimonio, fuori dal ruolo di moglie penitente, dentro una sorellanza capace di accogliere le sue ferite senza chiederle nulla in cambio.

L’autrice scrive questo romanzo tra il 1938 e il 1939, quando l’Europa è sull’orlo della guerra e lei ha superato i sessant’anni. Ma la sua voce non è stanca, non è affaticata: è più affilata, più lucida che mai. Il tutunié è un libro sull’amore, ma senza illusioni. Un libro sulla vecchiaia, ma senza rimpianti. Un romanzo sulla solitudine, ma che trova nella memoria e nel dialogo una forma sottile di felicità.

Il linguaggio è vivace, domestico, fatto di sfumature. I dialoghi, veri protagonisti del libro, scorrono con una musicalità che sembra familiare: sono battute da cucina, da bagno condiviso, da sera d’estate. Le sorelle parlano di tutto: di amori falliti, di uomini infedeli, di delusioni, di cibo, di ricordi infantili. E ogni frase è una piccola perla di saggezza vissuta, sempre venata di umorismo e malinconia.

Anche se non compare fisicamente, la figura materna aleggia tra le pagine come un profumo d’infanzia. La madre, già centrale nel romanzo Sido, è qui una presenza fantasmatica, fatta di ricordi, detti, consigli. È la voce che guida, che commenta silenziosamente, che dà struttura al loro essere donne. Non c’è nostalgia nella sua evocazione, ma consapevolezza: è da quella madre, da quella infanzia, che le sorelle Eudes traggono la forza per restare intere, nonostante tutto.

Il tutunié è un romanzo prezioso e poco conosciuto, che meriterebbe più spazio nel canone colettiano. È il seguito ideale di Duo, ma vive di vita propria: più lieve, più complesso, più affettuoso. È un libro che parla di donne e tra donne, senza mai cadere nel vittimismo o nella banalità. È anche un romanzo sull’ascolto, sulla potenza del racconto condiviso e sull’ironia come forma estrema di resistenza.

Nel tutuniè, vecchio divano della loro infanzia, le sorelle Eudes trovano un rifugio, un luogo dove le ferite si fanno parola, e dove il dolore può, finalmente, essere raccontato. Non risolto, forse. Ma almeno riconosciuto. E non è forse già questo un miracolo letterario?

Gigi 

In una Parigi dorata e cinica, dove l’amore si misura in contratti e i sorrisi si insegnano come strategia, una ragazzina di quindici anni osa dire no. Non al denaro, non all’eleganza, non al futuro brillante che le è stato progettato addosso. Ma a un ruolo. Gigi, pubblicato da Colette nel 1942, è un racconto breve, quasi una fiaba impertinente, ma sotto la sua superficie scintillante pulsa il cuore di una rivoluzione silenziosa: quella della libertà femminile.

Gilberte, detta Gigi, vive con la nonna e la zia Alicia, due donne che rappresentano due mondi apparentemente opposti ma in realtà complementari. La prima, tenera e pratica, incarna il calore della famiglia popolare; la seconda, ex cocotte raffinata, incarna la strategia e l’ambizione sociale. La scena è la Belle Époque, tra salotti vellutati, pellicce, champagne e corteggiamenti coreografati. Un’epoca che idolatra l’apparenza e chiude le donne in ruoli precisi: spose o amanti, trofei o beni di lusso.

Eppure, Gigi stona. Stona con la voce squillante, con i gesti impacciati, con la sua voglia di giocare a carte invece che imparare l’arte della seduzione. E proprio per questo, disarma.

Gigi è cresciuta per diventare una cocotte di successo, come Alicia desidera e come la società sembra chiedere. Ma il romanzo è costruito proprio sull’attrito tra questa aspettativa e la resistenza naturale di Gigi. A renderla eroina non è un grande gesto, ma la capacità di non lasciarsi trasformare. Non si ribella con rabbia, non fugge: semplicemente, non si adatta. E il mondo, a un certo punto, deve piegarsi a lei.

L’arrivo di Gaston, amico di famiglia ricco e disilluso, è il catalizzatore della metamorfosi. Non tanto quella di Gigi, che resta se stessa, quanto quella dello sguardo su di lei. Gaston, abituato a donne perfette e annoiate, scopre nella spontaneità di Gigi qualcosa di rarissimo: autenticità. Ma Colette non scrive una favola in cui l’uomo salva la donna. Anzi: è Gigi a cambiare Gaston. È lei a dettare i termini dell’incontro, a trasformare un destino già scritto in una scelta.

Gigi è una novella, eppure in poche pagine Colette riesce a smontare una società intera. Con ironia, con leggerezza, ma anche con uno sguardo lucidissimo. La sua scrittura è elegante e tagliente, mai sentimentale. Ogni dialogo è una sfida, ogni gesto ha un doppio fondo. E sotto i veli della mondanità, la narrazione lavora come un bisturi: disseziona il costume, l’educazione, il potere maschile, le trappole dell’apparenza.

Gigi è il manifesto gentile ma ostinato di una nuova femminilità. Non quella dell’eroina ribelle o della martire, ma quella della ragazza che ride forte, gioca a picchetto e non vuole essere messa in vetrina. È la storia di chi rifiuta di essere addestrata e sceglie, con grazia e fermezza, di essere semplicemente se stessa.

E forse per questo, Gigi, la più imprevista delle eroine, è anche la più moderna.

 

Tokyo: Nascosta tra i fiori di Jun’ichi Watanabe

Ci sono vite che scivolano nel silenzio, e altre che rompono il muro. Ginko racconta la seconda. In un Giappone ancora avvolto nelle pieghe del kimono tradizionale, dove la donna è ancella, sposa, ombra, questa donna sceglie di diventare luce. Ginko Ogino, nata nel 1867 in una famiglia agiata, avrebbe potuto vivere una vita decorosa e dimenticabile. Invece, è diventata la prima donna medico del suo Paese. Ma prima ancora, è stata una ragazza tradita, una moglie abbandonata, una paziente umiliata.

Questo libro, basato su una storia vera, non è una semplice biografia romanzata: è un grido sottile ma inarrestabile di autodeterminazione. Una fiamma che, una pagina dopo l’altra, cresce fino a incendiarti dentro.

Ginko nasce fortunata. Famiglia influente, educazione accurata, un destino apparentemente già scritto. Ma a sedici anni la sua vita deraglia: viene data in sposa a un uomo che non ama, che la tradisce e la contagia con una malattia venerea. In un’epoca in cui una donna non ha diritto nemmeno alla propria sofferenza, Ginko osa il gesto più radicale: chiede il divorzio. Torna a casa. Rompe il vincolo. Rifiuta di essere il corpo docile che tutti si aspettavano.

E nel momento più buio, quando si ritrova nuda e ferita nel letto di un ospedale dove le mani degli uomini la curano con violenza più che con compassione, accade la scintilla: Ginko decide che nessun’altra dovrà vivere ciò che ha vissuto lei.

Nel Giappone di fine Ottocento, a una donna è proibito studiare medicina. I corpi femminili devono restare mistero. Il sapere appartiene agli uomini. Ma Ginko, con una determinazione che sa di furia gentile, si fa strada in un mondo che la respinge. Studia, lotta, si fa beffa delle convenzioni. Non per vendetta, ma per giustizia. Perché il dolore delle donne non sia più silenziato. Perché la cura diventi anche rispetto, dignità, ascolto.

E alla fine, la rivoluzione accade davvero: Ginko ottiene la licenza medica. Diventa la prima donna medico del Giappone. Cura, accoglie, ispira. Cambia la medicina, cambia la mentalità. Cambia il Paese.

Lo stile del libro è asciutto ma vibrante, emozionale ma mai retorico. Alterna il respiro della narrazione storica al pathos della narrativa più intima. Ogni pagina è intrisa della fragilità e della forza della protagonista, ogni capitolo è una tappa del suo riscatto. Non ci sono scene forzate o eroine irreali: Ginko è umana, sbaglia, cade, ma continua. La sua è una rivoluzione che passa anche dal dubbio, dalla paura, dalla stanchezza. E proprio per questo è autentica.

In un’epoca in cui il corpo delle donne è ancora campo di battaglia, dove la medicina troppo spesso non tiene conto del dolore femminile, la storia di Ginko parla forte. Parla di libertà, ma anche di accesso, di uguaglianza, di ascolto. E racconta qualcosa che oggi, nel nostro tempo, dovrebbe essere scontato e invece ancora non lo è: il diritto delle donne a essere curate da chi le vede interamente. Non solo come malate, ma come persone.

Ginko. La forza di curare le donne è un romanzo che emoziona e scuote. È la biografia di una pioniera, ma anche il ritratto di una ribellione silenziosa e duratura. È una storia di medicina, certo. Ma soprattutto di libertà, sorellanza e riscrittura del possibile.

Un libro per chi ama le storie vere, quelle che lasciano traccia. Per chi crede che la cura, del corpo, delle ingiustizie, della Storia,n possa partire da una sola, irriducibile volontà: quella di non arrendersi mai.

 

Napoli: Dietro il brillio delle stelle di Francesca Caizzi e Filippo Paris

C’è una terrazza segreta, a Napoli, dove due bambini si raccontano il mondo. Gaia e Martino crescono lì, tra confidenze e risate, in uno spazio sospeso dove ogni sogno sembra possibile. È un luogo dell’infanzia e dell’innocenza, ma anche della prima frattura: perché Gaia, dietro quel nome e quel corpo, nasconde un dolore che non ha ancora parole. Si sente fuori posto, inadatta agli abiti e alle aspettative che le vengono cuciti addosso. Quella terrazza, con il cielo a far da complice, sarà testimone del primo amore… ma anche di una separazione senza spiegazioni.

Dietro il brillio delle stelle è un romanzo che scava con delicatezza nel cuore di una doppia trasformazione: quella del corpo e quella dell’amore. Quando Gaia trova il coraggio di riconoscersi per ciò che è, un ragazzo, finalmente se stesso, la sua famiglia lo protegge cambiando città. Martino, lasciato indietro con un vuoto incolmabile, cresce cercando rifugio in relazioni fugaci, convinto che l’amore, quello vero, sia ormai perduto.

Ma l’amore ha memoria, e sa attendere. Anni dopo, all’università, Martino incontra Carlo. E qualcosa si riaccende: una tenerezza antica, un senso di familiarità che non ha nome. O forse ce l’ha.

Il pregio di questo romanzo è quello di non trasformare la transizione di genere in una bandiera ideologica, ma di raccontarla come un’esperienza profondamente umana, fatta di scelte difficili, dolori silenziosi, gioie inattese. È una storia d’amore, certo. Ma è anche una storia di formazione: quella di un ragazzo che ha il coraggio di essere sé stesso, e quella di un altro che impara a riconoscerlo, e riconoscersi, oltre le etichette.

La scrittura è limpida, toccante ma mai patetica. I personaggi sono vivi, tridimensionali, sorretti da dialoghi sinceri e una Napoli che pulsa sullo sfondo, piena di ombre e luci. La narrazione alterna il passato e il presente con equilibrio, costruendo un crescendo emotivo che conduce a un finale struggente ma pieno di speranza.

Dietro il brillio delle stelle è un romanzo delicato e necessario. Parla di identità, ma anche di assenza, amicizia, desiderio, riconciliazione. È una storia che mostra quanto sia difficile, ma anche liberatorio, dire al mondo: “Questo sono io”. E quanto sia importante, per chi resta, avere il coraggio di vedere davvero.

Un libro da leggere con il cuore aperto. Perché a volte, anche il dolore più grande può diventare luce. Basta saper guardare dietro il brillio delle stelle.

 

Taiwan: Lost in Taiwan di Mark Crilley

Paul ha quattordici anni, un rapporto complicato con il padre, una dipendenza (ben mascherata) dai videogiochi, e pochissima voglia di stare al mondo, almeno fuori dallo schermo. Quando il genitore lo spedisce a Taiwan dal fratello maggiore, nella speranza di risvegliarne un minimo di entusiasmo per la vita reale, Paul si ritrova in un paese che non ha scelto, circondato da strade sconosciute, odori nuovi e caratteri indecifrabili.

La svolta arriva quando, uscito di malavoglia per comprare una nuova console, Paul perde il telefono. Nessun GPS, nessun contatto, nessuna app di traduzione. Solo lui, una città immensa e un senso di smarrimento totale.

È proprio nel momento in cui perde il controllo, letteralmente, che Paul inizia a vedere davvero. Peijing, una ragazza taiwanese della sua età, lo trova spaesato e lo prende sotto la sua ala. Insieme girano Taipei, si perdono nei mercati notturni, salgono su scooter, assaggiano cibi mai visti. Ma soprattutto parlano, si raccontano, si ascoltano. E, senza rendersene conto, Paul cambia: nei suoi occhi si accende qualcosa di nuovo. La vita comincia a sembrargli meno difficile, più piena di possibilità.

Lost in Taiwan è una storia di formazione moderna e luminosa, perfetta per lettori e lettrici dagli 11-12 anni in su, ma capace di toccare corde universali anche negli adulti. Scritto e illustrato con uno stile semplice ma espressivo, il libro racconta con ironia e delicatezza quel momento in cui un adolescente comincia a capire che c’è un mondo oltre il proprio schermo. E che perdersi può essere il primo passo per imparare a scegliersi.

Colorato, divertente e pieno di cuore, Lost in Taiwan è un piccolo gioiello per chi ama le storie che iniziano con una crisi e finiscono con un sorriso. Un graphic novel che sa parlare agli adolescenti con empatia e rispetto, senza moralismi né prediche.

 

Attraverso il mondo: Pioggia rossa di Cees Nooteboom

Minorca non è solo un’isola. Per Cees Nooteboom è un rifugio dell’anima, una casa che esiste da cinquant’anni nei suoi ritorni, tra muretti a secco, pozzi vuoti e creature silenziose che popolano il paesaggio con discrezione. In Pioggia rossa, lo scrittore olandese più cosmopolita del nostro tempo compone un mosaico di frammenti, ricordi, versi, riflessioni e memorie che si intrecciano con la luce abbacinante dell’isola e con la polvere del tempo.

Un libro che non è romanzo, né diario, né raccolta poetica, ma tutto questo insieme. Un’opera che si legge come si percorre un sentiero che conosciamo a memoria, ma che ogni estate ci sorprende diverso: perché è cambiato il vento, o forse siamo cambiati noi.

Ogni estate, lontano dalle rotte consuete e dalle urgenze del mondo, Nooteboom torna a Minorca. Lì, la vita rallenta: si coltiva il giardino, si osservano i cieli, si ascolta il verso di un uccello. E si scrive. La scrittura, qui, è atto quotidiano e quasi sacro, che nasce dall’immobilità tanto quanto dalla memoria. Ogni parola è scolpita nella luce mediterranea e nella polvere rossa che, col vento, arriva dal Sahara.

Il barro, la “pioggia rossa” è simbolo e realtà. È la materia sottile che unisce il qui e l’altrove, la vita vissuta e quella immaginata, la stasi e il movimento. Ed è anche una benedizione terrena, una pioggia che non solo irriga la terra, ma fertilizza la memoria.

Cees Nooteboom ha viaggiato ovunque: tra le Ande e Kyoto, da Amsterdam a Città del Capo. Ha attraversato oceani e secoli, insegue ancora oggi la voce dei poeti, da Leopardi a Rimbaud, passando per l’olandese Slauerhoff, che come lui scriveva dal margine del mondo. Ma Pioggia rossa non è un libro su ciò che si è visto. È un libro su ciò che si ritiene.

Chi viaggia davvero lo sa: si viaggia per capire, ma si comprende solo quando ci si ferma. Così Nooteboom racconta non tanto le geografie, ma le assenze. Le città che non ci sono più, le persone amate e perse, le ore in cui il tempo sembrava davvero sospeso.

C’è ironia, disincanto, ma anche tenerezza. C’è la consapevolezza della vecchiaia, che arriva come un vento salato, e che porta via un po’ di forza, ma regala anche una lucidità nuova. Il mal di schiena, i voli cancellati, le attese infinite diventano piccoli aneddoti di un’epica intima.

In questo mondo quasi fuori dal tempo, la gatta Pipistrello ha un ruolo speciale: è una divinità domestica, una presenza familiare e totemica che consola e veglia. E come il giardino che cresce ogni anno più rigoglioso, è simbolo della cura. Nooteboom, uomo che ha inseguito ogni altrove, trova pace solo nella cura quotidiana di ciò che è vicino: le piante, i versi, i gesti. La poesia si fa cosa viva.

E non è un caso che tra i nomi citati compaiano i grandi della lirica: la poesia è il vero cuore dell’opera. È la forma che tutto contiene, e che permette all’autore di attraversare l’invisibile. Scrivere, per Nooteboom, è l’unico modo per continuare a camminare anche da fermi. O forse per tornare indietro nel tempo restando nello stesso punto.

Pioggia rossa è un libro che non si legge, si abita. Come una casa costruita sul vento, come un’isola che esiste solo se la si ascolta. È un’opera che parla a chi ha vissuto, a chi ha viaggiato, ma soprattutto a chi ha imparato a riconoscere il valore delle piccole cose: una poesia al tramonto, un muretto a secco, una gatta sul divano.

Con la sua prosa limpida e contemplativa, Cees Nooteboom ci offre un’opera che è insieme testamento e preghiera, geografia dell’anima e botanica della memoria.

Un libro da leggere lentamente, come si cammina tra i sentieri della propria infanzia.

 

Malesia: Il giardino delle nebbie notturne di Tan Twan Eng

C’è un tempo per combattere e uno per coltivare. Il giardino delle nebbie notturne, romanzo vincitore del Man Asian Literary Prize e finalista al Booker Prize, è un’opera di rara bellezza che riesce a contenere entrambi: la violenza della storia e la quiete della memoria, il rancore della sopravvissuta e la grazia del giardiniere, la brutalità umana e il desiderio mai sopito di redenzione.

Tan Twan Eng ci porta tra le nebbie degli altipiani di Cameron, in Malesia, e ci fa entrare in un luogo che è al tempo stesso reale e simbolico, fatto di piante, pietre, silenzi e segreti. Ma soprattutto ci consegna una protagonista straordinaria: Teoh Yun Ling, giudice, sopravvissuta, donna che lotta contro l’oblio.

Nel 1988, Teoh Yun Ling decide di lasciare Kuala Lumpur e il suo ruolo nella magistratura per ritirarsi a Yugiri, il giardino delle nebbie notturne. È una decisione che confonde chi la circonda, ma la verità è una sola: una malattia neurodegenerativa sta cancellando, pezzo dopo pezzo, la sua memoria. E lei sceglie di tornare lì dove tutto ha avuto inizio, per raccogliere ciò che resta, per proteggere i ricordi prima che svaniscano.

A Yugiri, il giardino creato secondo i principi zen giapponesi, la memoria non è un peso: è una forma d’arte. Ogni pietra, ogni curva di sentiero, ogni suono del bambù nel vento, parla un linguaggio che solo lei può comprendere. È lì che decide di scrivere la propria storia, nella speranza che la scrittura preservi ciò che la mente sta perdendo.

La narrazione si apre in un passato ancora ferito. Siamo nel 1951, pochi anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale. La giovane Yun Ling è reduce da un campo di prigionia giapponese. Sua sorella è morta tra atroci sofferenze, e il senso di colpa di essere sopravvissuta la divora. In cerca di una forma di risarcimento simbolico, si rivolge ad Aritomo, un giardiniere giapponese misterioso che un tempo lavorò come maestro paesaggista per l’imperatore del Giappone.

L’incontro tra i due è inizialmente teso, segnato dall’odio di lei e dal silenzio di lui. Yun Ling desidera che Aritomo realizzi un giardino in memoria della sorella. Ma lui rifiuta: «Non posso farlo io. Ma puoi imparare a farlo tu». Inizia così un apprendistato che si rivelerà un viaggio dentro se stessi, dove le regole della progettazione si fondono con quelle della convivenza e della compassione.

Il giardino che si costruisce lentamente non è solo un’opera architettonica. È metafora del lavoro interiore, dell’accettazione della contraddizione. Tan Twan Eng intreccia l’arte dei giardini zen con i temi della memoria post-coloniale e del trauma della guerra. Il Giappone, nemico feroce durante l’occupazione malese, si presenta qui anche come cultura della bellezza, del silenzio, dell’equilibrio. Come può la vittima imparare qualcosa dal carnefice? Come può il dolore trasformarsi in comprensione?

La risposta non è semplice. Il romanzo non pretende di pacificare. Al contrario, scava, smuove, interroga. Yun Ling non smette mai di odiare, ma impara a vedere. E nel vedere, inizia lentamente a cambiare.

Tan Twan Eng scrive con l’eleganza di un miniaturista e la profondità di un filosofo. Ogni parola è scelta con cura, ogni immagine è filtrata dalla luce diffusa delle nebbie tropicali. Il ritmo è lento, contemplativo, ma mai noioso: è il tempo della riflessione, della cura, del rito.

Il paesaggio malese, con i suoi altipiani, i suoi monsoni, le sue tensioni etniche e i ricordi di guerra, diventa protagonista esso stesso. E tra queste colline sospese nel tempo si muovono personaggi che sembrano portare addosso l’intera storia di un Paese.

Il giardino delle nebbie notturne è un romanzo sull’arte di ricordare, ma anche sull’arte di dimenticare. Sulla costruzione di un’identità attraverso la bellezza, e sul crollo inevitabile che ogni vita deve affrontare. È un libro per chi ama le narrazioni intime e profonde, capaci di mettere in dialogo Est e Ovest, dolore e grazia, perdita e desiderio.

Un giardino si coltiva con pazienza. Questo romanzo si legge con lo stesso spirito. E lascia dietro di sé il profumo dolce e persistente della pioggia su un sentiero in pietra.

 

Perdersi in campagna: Ancora 25 estati di Stephan Schäfer

Quante estati ci restano? È una domanda che suona come un sussurro lontano, uno di quei pensieri che accantoniamo in fondo alla mente, troppo impegnati a rincorrere scadenze, performance, riunioni e gratificazioni che svaniscono troppo in fretta. Eppure, è proprio questa domanda, brutale nella sua semplicità, a scuotere il protagonista del romanzo Ancora venticinque estati, un libro che arriva come uno schiaffo gentile, un invito a fermarsi, a respirare, a ritrovare se stessi nella lentezza.

L’uomo che incontriamo all’inizio del racconto ha tutto ciò che si può desiderare in una vita orientata al successo: una carriera affermata, riconoscimenti, un’agenda piena. Ma è vuoto. È una di quelle persone che, come confessa lui stesso, hanno costruito la propria esistenza attorno a un’idea di valore che esclude tutto ciò che non sia utile o redditizio. Lavoro, doveri, efficienza. Ogni giorno è una maratona, a tratti anche letterale, visto che corre come valvola di sfogo per tenere a bada l’inquietudine.

Tutto cambia durante un weekend in campagna. Un gesto semplice, quasi casuale,tuffarsi in un lago in cui non si era mai immerso nonostante le decine di volte in cui ci era passato accanto, lo mette di fronte a qualcosa di diverso: la possibilità di una vita vissuta e non solo misurata. Ed è lì che incontra Karl.

Karl coltiva patate. Ma ciò che realmente coltiva, con gesti pacati e parole misurate è il senso delle cose. Con la sua calma innata, con il silenzio che sa abitare, con i suoi pensieri semplici e profondi, Karl diventa la figura dell’iniziazione. Non una guida mistica, non un predicatore new age, ma un uomo che conosce il valore del tempo perché lo vive ogni giorno.

Il suo insegnamento è tanto elementare quanto rivoluzionario per chi ha dimenticato il corpo, la terra, la stagionalità della vita: rallentare, ascoltare, essere presenti. Imparare a vivere nel “durante”, non solo proiettati verso il “dopo”. Ogni gesto, una passeggiata, una fetta di torta, una parola condivisa, diventa un atto di resistenza contro il logorio della produttività a ogni costo.

Tra i due nasce un’amicizia silenziosa e autentica, fatta di camminate e chiacchiere al tramonto, di gesti condivisi, di sguardi che non giudicano. Karl non vuole cambiare il protagonista, non gli propone nessuna rivoluzione: lo ascolta, lo accoglie, gli mostra una vita che funziona secondo altre logiche, più antiche, più umane.

Eppure, proprio questa delicatezza è ciò che lo disarma. Lentamente, l’uomo comincia a mettere in discussione i suoi ritmi, le sue priorità, le sue certezze. La carriera, l’efficienza, il bisogno di controllo iniziano a mostrare le crepe. E in quelle crepe filtra finalmente la luce.

Ancora venticinque estati è un libro che si legge in silenzio. Non urla, non corre. Invita. A riflettere, a ricordare che anche noi abbiamo un corpo, un battito, una fragilità. E che forse l’unica vera ricchezza sta nel tempo che ci resta da vivere, non da consumare.

Il titolo stesso è una delle sue chiavi più forti: venticinque estati non sono poi così tante. E ogni estate che ci resta, ogni giornata lenta, ogni alba vista senza fretta, ha un valore immenso se si ha il coraggio di guardarla negli occhi.

Ancora venticinque estati è più di un romanzo: è una piccola bussola per chi ha perso l’orientamento, per chi non riesce più a sentire il tempo scorrere, per chi ha bisogno di un promemoria gentile sul senso delle cose.

In un’epoca che misura il valore delle persone in base a quanto producono o quanto guadagnano, questo libro ci ricorda che la vera rivoluzione può cominciare in un orto, davanti a una tazza di caffè, o dopo un tuffo improvviso in un lago.

E che non è mai troppo tardi per cambiare rotta. Purché si scelga di farlo prima che il tempo finisca.

 

Perdersi per giardini: Rose di Ellen Wilmott

Ci sono libri che sembrano sbocciati tra le pagine, come fiori rari, e che conservano il profumo di un’epoca in cui la scienza, l’estetica e la passione personale potevano fondersi in un’unica, monumentale impresa. The Genus Rosa di Ellen Willmott è uno di questi libri: non un semplice manuale botanico, ma un atto d’amore coltivato con pazienza, sapienza e un gusto aristocratico per il dettaglio.

Chi era Ellen Willmott? Una delle figure più affascinanti dell’orticoltura europea tra Ottocento e primo Novecento. Eccentrica, visionaria, immensamente colta e altrettanto indipendente, Ellen dedicò la propria vita – e le proprie ingenti fortune – allo studio, alla coltivazione e alla celebrazione delle piante. Tra tutte, però, una le rubò il cuore: la rosa.

Nel giardino di Warley Place, sua dimora nell’Essex, Ellen creò un vero e proprio santuario botanico, che attirava appassionati, artisti e studiosi da tutto il mondo. Fu lì che maturò l’idea di un’opera definitiva, destinata a restituire alle rose la loro dignità botanica e il loro valore estetico: nacque così The Genus Rosa, pubblicata in due volumi tra il 1910 e il 1914.

In queste pagine ogni rosa è descritta con rigore scientifico: ne vengono illustrate le origini, le caratteristiche morfologiche, i metodi di coltivazione. Ma l’aspetto più affascinante del libro è la sua duplice anima: The Genus Rosa è, al tempo stesso, atlante botanico, diario personale, opera d’arte.

Accanto ai testi, infatti, si dispiegano le magnifiche tavole a colori di Alfred Parsons, pittore naturalista tra i più raffinati del suo tempo. Ogni rosa è ritratta con uno sguardo che unisce precisione tassonomica e grazia poetica: petali che sembrano velluto, toni che oscillano tra l’avorio e il rubino, corolle che raccontano il passare delle stagioni.

Nonostante siano passati più di cento anni dalla sua pubblicazione, questo libro continua a incantare. Per gli appassionati di giardinaggio è una bibbia botanica, per gli amanti dell’arte è un volume illustrato di rara eleganza, per chi si interessa di storia è la testimonianza concreta di una figura femminile fuori dagli schemi, capace di imporsi nel mondo scientifico e culturale del suo tempo.

Ellen Willmott fu molto più che una collezionista di rose: fu una vera pioniera, un’osservatrice acuta della natura e un’anima profondamente romantica. La sua vita fu segnata da eccessi, rovine economiche e leggende (si dice che piantasse semi di spina ovunque passasse, per lasciare una traccia floreale del suo cammino). Ma ciò che resta, oggi, è un’opera che ancora sboccia a ogni sfogliata, come un roseto segreto rivelato a chi sa riconoscerne la bellezza.

The Genus Rosa è un libro da leggere con lentezza e da custodire con cura. È l’equivalente cartaceo di un giardino d’inizio secolo: pieno di vita, di profumi dimenticati, di grazia. Un testo imprescindibile non solo per gli amanti delle rose, ma per chi crede che anche nella botanica possa esistere, e resistere, una forma d’arte.

 

Africa: Cosa scrivono le lacrime di Musih Tedji Xaviere

Ci sono storie che resistono al tempo, al silenzio, alla violenza. Storie che continuano a esistere anche quando tutto congiura per seppellirle. La storia di Bessem e Fatima è una di queste. Ed è anche molto di più: è il ritratto di un amore proibito in un luogo in cui amare chi si desidera davvero è, ancora oggi, un reato. È un grido sommesso ma tenace, che attraversa tredici anni e mille ostacoli. È una lettera che non viene mai spedita, ma che continua a vivere nel cuore di chi l’ha scritta.

Bessem è una ragazza come tante, o almeno così si mostra: brillante a scuola, beneducata, figlia di una famiglia cristiana della buona borghesia camerunese. Ma dentro di sé custodisce un segreto, uno di quelli che, in Camerun, possono spezzare una vita. Fin da piccola, nei suoi sogni d’amore, non c’è un principe ad attenderla, ma una principessa. E quando Fatima entra nella sua vita, bellissima, forte, piena di una luce diversa, tutto le è improvvisamente chiaro: quel sogno ha un volto, una voce, un nome.

Il loro amore è totalizzante, sincero, ma vissuto nell’ombra. Eppure la passione che le unisce è anche ciò che le distruggerà: denunciate, arrestate, separate. Mentre Bessem riesce a salvarsi grazie alla protezione della sua famiglia, Fatima, figlia di una rigida famiglia musulmana, scompare. Senza tracce. Senza spiegazioni. Senza addii.

Inizia allora per Bessem un tempo sospeso. Gli anni passano, ma Fatima resta. Resta nella memoria, nei sensi, nel corpo che si nega ad altri. Resta nelle lettere che Bessem scrive e non spedisce, come un esercizio di sopravvivenza emotiva, come un modo per non impazzire. Ogni parola è una ferita e una preghiera. Un atto di resistenza privata.

E poi, tredici anni dopo, accade qualcosa. Una scintilla. Un incontro. Una possibilità. Forse Fatima non è perduta per sempre. Forse quell’amore non è stato inutile. Forse, dopo tutto, si può ancora sperare.

Il romanzo è uno squarcio struggente su una realtà ancora troppo taciuta: quella delle persone LGBTQ+ in paesi in cui l’omosessualità è punita dalla legge, dallo stigma sociale, dalla violenza istituzionalizzata. Ma non è solo un libro di denuncia: è un racconto sull’amore che resiste, sulla forza dei sentimenti che sopravvivono anche quando sembrano condannati.

Con una prosa asciutta e delicata, l’autrice riesce a raccontare sia la tenerezza adolescenziale che la crudeltà dell’emarginazione. La narrazione si muove tra il passato e il presente, tra il Camerun delle repressioni e il mondo interiore di una donna che non ha mai smesso di cercare se stessa e la propria libertà.

Questa è una storia che fa male, ma che non cede mai al patetismo. Una storia che parla di due ragazze, ma anche di tutte le persone che ogni giorno, in ogni parte del mondo, devono scegliere tra la verità e la sopravvivenza. Un romanzo che ci ricorda perché raccontare certi amori, e certe assenze, non è solo letteratura: è un atto di giustizia, è memoria, è speranza.

 

Roma: Roma capovolta di Giò Stajano

Questa è una Roma che non si trova sulle cartoline della Dolce Vita. Una Roma notturna, capovolta, scandalosa, in cui l’apparenza balla stretta al disonore e l’identità si conquista a caro prezzo. È questa la città che vive, ama e racconta Giò Stajano, icona queer ante litteram, protagonista e autrice di Roma capovolta, il primo romanzo omosessuale italiano, sequestrato, bruciato, censurato, e oggi finalmente riconosciuto come pietra miliare di una letteratura nascosta e coraggiosa.

Nata come Gioacchino Stajano, discendente da una delle famiglie più in vista del Salento e nipote del gerarca fascista Achille Starace, Giò cresce nel cuore della contraddizione: nobiltà, ombre patriarcali e una profonda, luminosa consapevolezza della propria diversità. Negli anni Cinquanta decide di sfidare l’Italia più bacchettona e bigotta vivendo apertamente la propria omosessualità, raccontando con ironia tagliente, e una sensualità provocatoria, ciò che gli altri fingevano non esistesse.

Roma capovolta è più di un romanzo: è una cronaca lirica e sfrontata dei bassifondi e dei salotti della Capitale, una mappa sentimentale della Roma nascosta, che Giò attraversa tra monsignori ambigui, attrici in declino, nobili decadenti e ragazzi bellissimi. È una confessione, una vendetta, un atto d’amore e di rivolta. Con uno stile spiazzante e un linguaggio che unisce frivolezza e dramma, l’autrice mette a nudo i vizi della società bene, la solitudine dei corpi desideranti e l’illusione di essere liberi in un mondo che vuole solo normalizzarti.

Alla sua uscita, il libro è un terremoto: viene ritirato dal commercio, bruciato in piazza, messo all’Indice. Eppure, la forza del testo è tale che continua a circolare clandestinamente, tramandato da chi in quelle pagine si è sentito, per la prima volta, riconosciuto. Lungi dall’essere solo uno scandalo da rotocalchi, Roma capovolta è un documento fondamentale per capire l’Italia del dopoguerra, ma anche per interrogarsi sul prezzo che le persone queer hanno pagato, e pagano, per esistere.

Oggi, con la postfazione di Walter Siti e una nuova lettura critica, il romanzo torna a essere ciò che è sempre stato: una dichiarazione d’esistenza, d’identità e di dignità, piena di malinconia, ma anche di energia vitalissima. È l’eco di una voce che ha avuto il coraggio di raccontarsi quando farlo significava mettere in gioco tutto. E che ancora oggi brilla per modernità, autoironia e forza.

Roma capovolta non è solo il racconto di una città o di una vita eccentrica: è un manifesto queer ante litteram, un libro che scardina le ipocrisie sociali e le convenzioni letterarie con un sorriso amaro sulle labbra. Leggerlo oggi è un atto di memoria, di giustizia, e di gratitudine verso chi ha aperto la strada, con lo stile, con lo scandalo e con l’amore.

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