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Davide Enia e la sua verità sulla scrittura, ”Un romanzo si scrive una parola dopo l’altra. Il resto non conta affatto”

Gli autori assomigliano alla loro scrittura? A me sembra che l’essenzialità, l’incisività, caratteristiche del modo di scrivere di Davide Enia, lo connotino anche nell’agire quotidiano. Almeno, a giudicare dalla comunicazione telematica...

Davide Enia, palermitano, classe 1974, è drammaturgo, attore teatrale e autore del romanzo ‹‹Così in terra››, finalista al premio Strega del 2012

Gli autori assomigliano alla loro scrittura? A me sembra che l’essenzialità, l’incisività, caratteristiche del modo di scrivere di Davide Enia, lo connotino anche nell’agire quotidiano. Almeno, a giudicare dalla comunicazione telematica. Ma questa mi sembra una domanda da porre a lui. E quindi è così che inizia questa intervista: ti riconosci nella tua scrittura − gli chiedo − nel senso che dicevo prima? Ti assomiglia il tuo stile?
Credo che la scrittura sia uno spaventoso esercizio di controllo sulle cose. Si crea un mondo, si cerca di fornire ad esso regole e coerenza interna, si nominano oggetti e sentimenti battezzandoli di continuo, in uno svelamento progressivo. Mi riconosco quindi nella scrittura se riconosco rigore e scrupolo al mio lavoro, che mira all’incisività che, ricordiamolo, altro non è se non una costruzione mirata. Di sicuro mi riconosco nel sentimento sotteso alle singole parole, in quella nota ora carica di ansia ora di innocenza che lega le sillabe e permette alle virgole di poggiarsi, in quella angoscia che, nel momento di composizione di «Così in terra», ha pervaso ogni interstizio del mio essere e contro la quale combattevo, proprio attraverso la scrittura.

Essere innanzitutto un drammaturgo influenza il tuo modo di raccontare una storia? A me è sembrato di no, ma vorrei sentire il tuo punto di vista.
Sì, lo influenza perché riesco a pensare alla carne, al sangue, ai muscoli dei personaggi e, per esempio, a fare transitare l’azione drammatica tramite il dialogo. Provenire dal teatro permette quindi una considerazione all’oralità e al senso dell’azione che la scena richiede di continuo.  

Dal tuo romanzo traspare un grande amore per Palermo, per la Sicilia, per la lingua dei siciliani e dei palermitani in particolare. Ma ti accadrà senz’altro anche di guardare alla Sicilia e ai siciliani con spirito critico. C’è qualcosa che ti senti di rimproverare ai tuoi conterranei?
Palermo è una città che ho amato troppo e che ho abbandonato troppo tardi. I miei conterranei, non tutti grazie a dio ma proprio i più, si sono rassegnati. Hanno tollerato la munnìzza e la mala gestione, si sono venduti il voto per dieci euro e continuano a sentirsi superiori in nome di un passato che mai hanno vissuto, men che meno studiato. Oggi come oggi la mia Palermo è una città ignorante, sporca e incattivita la cui magnifica lingua la maggior parte dei suoi abitanti non si merita affatto.

Sei un eclettico, ti sei dedicato a tante cose. Invece della solita biografia racimolata in rete (ce n’è una molto articolata anche su Wikipedia) preferirei sentire come la racconti tu, la tua vita, così puoi scegliere cosa mettere in luce e cosa lasciare in ombra. Anche questa scelta, l’ordine in cui si enunciano i fatti, dicono molto di una persona.
L’eclettismo è stata una necessità, figlia di una situazione culturale drammatica. L’Italia taglia i fondi alla cultura, il teatro muore e i teatranti si sono spostati, per vivere, a fare altro, dignitosissimo ma altro: cinema e televisione, per lo più. Io ho scritto un romanzo, dopo una esperienza molto bella a RADIORAIDUE con «Rembò», il programma che ho realizzato assieme a Fabio Rizzo. Non riconoscere la mancanza di prospettiva in chi governa sarebbe grave, oltre che miope. E in Italia la cultura è presa a calci in culo, più per ignoranza che per altro. Ma studiare costa fatica, ed ecco spiegata la situazione di un Paese pigro, cieco e ignorante, in cui la briciola oggi vale più di un investimento che insegni a panificare e coltivare il grano domani.

Ti va di parlare della tua esperienza di ricerca di un editore? È stata dura? Essere un uomo di teatro in qualche modo agevola questa fase (non esaltante, penso che condividerai) della scrittura, quella che segue il momento creativo?
Io ho avuto la fortuna di non cercare un Editore ma di essere stato contattato. Ho una persona, Luca Marengo, che dai tempi del teatro cura per me tutta la parte contrattuale, ma non so quindi cosa significhi davvero avere un libro nel cassetto e bussare in cerca di pubblicazione. Di certo dico senza problema che in Italia si pubblica troppo, troppissimo, senza che si faccia quasi più un vero lavoro editoriale. Un po’ come per il teatro, in cui si è aperto il palco a vallette della tv e profughi dei reality. Ma voi, vi fareste mai operare da qualcuno solo perché è apparso in TV? Quando si inizierà a comprendere che anche stare sul palcoscenico è un lavoro e richiede studio e competenza?

Sei uno scrittore metodico o hai ritmi irregolari, umorali? E cosa stai scrivendo adesso?
Scrivere è un lavoro, come lo sono le prove per uno spettacolo. Mi alzo presto e consegno alla scrittura, o alle prove, le ore migliori della mia giornata. Poi, da compulsivo quale sono, ci penso sempre. Ma di norma ho scritto riuscendo a poggiare il culo sulla sedia ogni giorno dalle nove alle dodici e trenta e dalle quattordici alle diciannove. Poi, ovvio, a volte sforavo e facevo le quattro. Questo non significa che si scriveva sempre, anzi. Significa però che la battaglia con la bianchezza del foglio è stata combattuta ogni giorno. Anche perché esiste solo una verità riguardo la scrittura: un romanzo si scrive una parola dopo l’altra. Il resto non conta affatto. A maggio pubblicherò un romanzo breve per EDT, «Uomini e pecore», che parla di fame e d’amore, di deportazioni e di Roma, di guerra e di come il cibo riesca davvero a salvare la vita.

Grazie per le tue risposte e per il tempo che hai dedicato a questa intervista.

Rosalia Messina

5 aprile 2014

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