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Dante e l’Italia, che rapporto abbiamo oggi noi italiani con il Sommo Poeta?

Lo abbiamo monumentalizzato e chissà se lo abbiamo capito. In qualche modo è stata una forma di rimozione, quella di collocarlo su un piedistallo di granito e in questo modo di tenerlo a debita distanza. Il Sommo, il Padre Dante. Il colosso di Santa Croce, il convitato di pietra.

Lo abbiamo monumentalizzato e chissà se lo abbiamo capito. In qualche modo è stata una forma di rimozione, quella di collocarlo su un piedistallo di granito e in questo modo di tenerlo a debita distanza. Il Sommo, il Padre Dante. Il colosso di Santa Croce, il convitato di pietra. C’è in giro tantissima gente che del poema non ha letto che una ventina di canti al massimo e si gargarizza il poeta al sommo della bocca. Ah Dante! Uh Dante! Ma certo lui è il Sommo, l’integrità e la forza morale senza cedimenti gli si addicono straordinariamente: a noi, che non siamo lui, qualche strappo alla regola sarà pur concesso, lasciateci venerare l’altissimo poeta e continuare tranquillamente a evadere il fisco, a corrompere e farci corrompere, a sperperare denaro pubblico e a concederci serenamente le nostre consuete piccole meschinità quotidiane. Monumentalizzarlo è un modo come un altro per esorcizzarlo, per non fare più i conti con lui. Così fecero con san Francesco i seguaci che volevano cavalcarne la fama senza abbracciarne la durezza di vita; rappresentarono nelle loro chiese, più che la scelta pauperistica, i suoi miracoli, e così, amplificandone la santità, si esonerarono dall’emularlo: lui era un santo, faceva i miracoli, loro no, non si poteva pretendere da loro l’imitatio Christi. Esattamente così abbiamo fatto con Dante: lo abbiamo messo sugli altari, e siamo disposti a celebrarlo come un santo patrono, pur di non farci più scalfire dal suo messaggio.

Gli attori italiani del dopoguerra avevano un modo di recitarlo che non si applicava a nessun altro poeta, solo all’autore della Commedia. Si doveva atteggiare la faccia a dannati michelangioleschi, descrivere con le mani gesti ampi e solenni, e scandire i versi col tono più innaturale che si fosse in grado di produrre, dilatando e incupendo le vocali e trascinando il più a lungo possibile le nasali o le fricative. L’unico altro personaggio cui Vittorio Gassman abbia prestato l’intonazione dantesca era Brancaleone da Norcia, ed è singolare che l’esatta impostazione che rendeva comico quest’ultimo rendesse in quegli stessi anni credibilissimo Dante. Si vede che era così che lo volevamo: sovrumano, innaturale, sublime e soprattutto lontano. Poi è arrivato Benigni a recitarlo come si usa recitare Pascoli, una rivoluzione culturale di cui si sono accorti in pochi, tra gli osanna a priori, le critiche accademiche e l’atteggiamento di gran lunga prevalente del “ben venga Benigni” (come dire: qualche strafalcione nell’esegesi, lasciamo perdere la recitazione, ah Carmelo Bene, ma, se milioni di persone tramite lui si accostano a Dante, tanto di cappello! Qualcuno si è spinto oltre: avessimo avuto al liceo un insegnante di lettere così!). Nessuno si è accorto che la vera rivoluzione di Benigni è stata proprio quella di riportare Dante sulla terra, quasi a sbeffeggiare il mastodonte romantico di piazza Santa Croce (il significante, non il significato) sotto il quale la rappresentazione avveniva.

Benigni è forse davvero “intuizione pura”, in ogni caso ha avvertito prima di chiunque che bisognava riportare il grande fiorentino giù dal piedistallo che le generazioni precedenti gli avevano montato sotto. Ha iniziato i suoi spettacoli con le sue provocazioni politiche, poi si è nascosto ai piedi del gigante, infine lo ha recitato svelandoci col tono della voce che era uno come noi: semplicemente geniale! Scacco al re in tre mosse: prima c’è Benigni, poi Dante, infine l’equazione Dante = Benigni. Con questi tre gesti ha ottenuto contemporaneamente di riumanizzare il poeta e di mettere la propria satira sotto inappuntabile tutela.

Adesso però tocca ai dantisti. È un caso che, da qualche tempo, fiorisca in Italia un vero e proprio genere narrativo che di questa riumanizzazione di Dante fa la sua bandiera? Ha iniziato Giulio Leoni con i suoi gialli che mettevano in scena un suggestivo Dante detective (l’ultimo, La sindone del diavolo, Nord, è del 2014). Io ho cercato di fare la mia parte con due romanzi (Il libro segreto di Dante e La profezia perduta, Newton Compton) e, ora, con la riscrittura dell’Inferno (La selva oscura, Rizzoli: ho ritenuto che fosse importante metterlo di nuovo alla portata di molti, dei più, se non proprio di tutti). E adesso c’è il romanzo di Marco Santagata, Come donna innamorata (Guanda), candidato allo Strega, che su questa linea d’onda mette in scena un notevole Dante personaggio, intento a scrivere la Vita nova sul tavolo della sua cucina, tra donne che sfogliano cavoli. Il romanzo mi è piaciuto molto, allo Strega è ovvio che io faccia il tifo per lui. La causa è giusta. Siamo probabilmente nella stessa trincea. La battaglia culturale che si sta combattendo adesso è quella di riportare Dante sulla terra, per potercene ancora nutrire. È evidente che la riteniamo importante. Dobbiamo far leggere la Commedia ai politici, agli imprenditori di domani. Perché è sempre stato così, ci siamo sempre riappropriati del nostro poeta più amato nel mondo quando si trattava di stringere i denti, di manifestare una reazione forte a un presente che minacciasse il declino, di riprenderci, in una parola, il nostro avvenire.

© Francesco Fioretti

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