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Dal libro al palcoscenico, Cuore di Cactus mette in scena una Sicilia bellissima e tragica

Un viaggio al termine della notte dei ricordi e dei bilanci, che ci interroga tutti. E' questo Cuore di Cactus, il monologo tratto dal libro del giornalista e scrittore Antonio CalabrĂ², stasera e domani in programma al teatro Franco Parenti di Milano...

L’attore Fausto Russo Alesi porta stasera in scena lo spettacolo tratto dall’omonimo libro del giornalista e scrittore Antonio Calabrò

MILANO – Un viaggio al termine della notte dei ricordi e dei bilanci, che ci interroga tutti. E’ questo Cuore di Cactus, il monologo tratto dal libro del giornalista e scrittore Antonio Calabrò, stasera e domani in programma al teatro Franco Parenti di Milano, per proseguire a Roma, al Piccolo Eliseo, dal 23 aprile al 5 maggio. In scena, la Sicilia, le pagine di cronaca de L’Ora, i ricordi d’una generazione, la fatica di Palermo durante gli anni della guerra di mafia e la partenza per Milano. Uno spettacolo di 100 minuti con la regia e l’interpretazione di Fausto Russo Alesi. Siciliano proprio come Calabrò, l’attore parla dello spettacolo, dando corpo e voce all’analisi severa e appassionata delle ragioni di una partenza dalla Sicilia, "per cercare altrove una nuova dimensione di lavoro e di vita".  Riflessioni emozionanti e problematiche, attraversate dal tentativo di fare i conti con il proprio tempo, con l’impegno professionale e culturale, con il ruolo “di uno che se ne va”, ma non dimentica né abbandona.

Cosa rappresenta per lei mettere in scena il monologo tratto dal libro di Antonio Calabrò “Cuore di cactus”?
Per me è una grande opportunità di riflessione sulle mie radici. Un libro nel quale mi sono immediatamente riconosciuto. E’ un testo molto passionale, ma anche lucido. Il punto di osservazione di questo racconto è Milano, anche se si racconta della Sicilia e di Palermo come metafora delle contraddizioni di un intero Paese. Per me è molto appassionante mettere in scena le diverse anime di questo libro. Da una parte, c’è la mia curiosità di raccontare fatti di cui non sono stato testimone, mi riferisco agli anni ‘50 vissuti da Calabrò, della spinta vitale di quell’epoca.  Poi arrivano gli anni più difficili ‘70-‘80, in cui Calabrò lavora a L’Ora di Palermo, giornale che poi è stato chiuso nel ’92. Man mano che si procede, si raccontano gli anni terribili delle stragi del ’92, anni che io in qualche modo ho vissuto da palermitano, anche se in maniera diversa.


Ci sono state difficoltà nella trasposizione in scena dell’opera?

Ovviamente, il testo è molto sfrondato. Ho incentrato il racconto sugli anni palermitani. Io e Calabrò ci siamo riconosciuti nel non essere “siciliani di scoglio”, da non confondersi con quelli “di altomare”. Quelli “di scoglio” sono coloro che restano aggrappati alla loro terra per mille ragioni, mentre quelli “di altomare” non sopportano i confini dell’isola e quindi partono, salpano alla ricerca di qualcosa. Entrambi siamo partiti e ci siamo ritrovati a Milano. Proprio da Milano, simbolo di un ipotetico nord, si cerca di fare un’analisi critica sui problemi della Sicilia, icona delle conflittualità del sud.

 

 

Come si svolge lo spettacolo?
Ho cercato di portare in scena la parola come protagonista. E’ un diario in pubblico, capace di dare corpo alle parole. Attraverso il ricordo del passato, provando a porsi delle domande per un futuro migliore, si analizza il presente della parola. Calabrò dice “niente è nessuno muore se vive all’interno di un racconto”. La messa in scena è molto semplice, scarna: un leggio, simbolo di Milano come luogo dell’analisi, e un vecchio pianoforte, metafora della Sicilia e delle sue note passionali. Nel mezzo, una barriera, una linea d’ombra, e la parola è l’unica capace di attraversarla.


Cosa significa abbandonare la propria terra?

La Sicilia è una terra ricca di contraddizioni, bellissima e tragica allo stesso tempo. La possibilità di portare in scena queste due anime, raccontare quegli anni contrassegnate da quelle stragi atroci del ’92. Lo spettacolo indaga le ragioni di una partenza, e quelle di un ipotetico ritorno. Domande universali e problematiche, che riguardano tutti. Quando vai via da un luogo, e perché in quel luogo non riesci a ritrovare te stesso, perché ti tappa le ali mentre tu hai bisogno di volare. Sicuramente, guardare da lontano è faticoso perché apre una ferita aperta, ma dall’altro è una cosa molto più semplice da fare rispetto a chi si trova lì all’interno.


19 aprile 2013

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