Cosa hanno in comune Colette e il True Crime?

2 Agosto 2025

Scopri le sorprendenti affinità tra Colette e il genere del True Crime in questo affascinante articolo.

Cosa hanno in comune Colette e il True Crime?

Nella memoria collettiva, Colette è l’incarnazione stessa della scrittura sensuale e ribelle. La sua figura: affilata, enigmatica, teatrale, evoca i profumi della Belle Époque e la grazia ambigua delle protagoniste di romanzi come Chéri o Claudine.

Eppure, al di là dei riflettori letterari, c’è una Colette meno nota, ma altrettanto affascinante: la cronista. E non una cronista qualunque, bensì una delle più singolari penne della cronaca nera e giudiziaria della prima metà del Novecento.

A testimoniarlo oggi è Cronaca nera, un volume edito da Passigli che raccoglie per la prima volta in Italia i suoi articoli più importanti in questo ambito.

Curiosità: Colette e il caso Weidmann

Eugen Weidmann fu l’ultimo condannato a morte giustiziato pubblicamente in Francia. Il 17 giugno 1939, a Versailles, una folla si radunò per assistere alla decapitazione in piazza.

Colette, presente tra gli inviati, restituì un racconto straniante e dolente, più interessato al comportamento del pubblico che all’evento in sé.

A colpirla non fu tanto l’orrore dell’esecuzione, quanto la sua trasformazione in spettacolo. In quelle righe, si coglie già il dubbio morale che pochi anni dopo porterà alla fine delle esecuzioni pubbliche.

Colette e la cronaca nera cosa hanno in comune?

La raccolta “Cronaca nera” è molto più di un’antologia di articoli giudiziari: è un’opera letteraria in sé, capace di riscrivere i confini tra narrativa e giornalismo.

Colette si conferma una maestra della parola anche nei territori dell’oscurità, e ci invita,  ancora una volta, a guardare l’abisso con occhi lucidi e cuore vigile.

Perché la cronaca, se osservata da vicino, è un riflesso nitido del nostro modo di essere umani. Anche quando sbagliamo. Anche quando uccidiamo.

La reporter invisibile

Colette giornalista non fu mai una semplice spettatrice. Nei suoi articoli, che vanno ben oltre la semplice narrazione degli eventi, emerge una capacità straordinaria di leggere il non detto, di cogliere il dettaglio rivelatore, di spingere l’occhio, e la penna, in profondità.

Non si limita a raccontare i fatti: li interpreta, li sente, li trasforma in racconti psicologici vibranti e inquieti.

Tra le pagine di Cronaca nera troviamo processi giudiziari seguiti in prima persona, come quello a Oum-el-Hassen, tenutaria di un bordello algerino accusata di sevizie e omicidi, o quello celebre contro Eugen Weidmann, autore di sei omicidi e ultimo giustiziato pubblicamente in Francia, a Versailles, il 17 giugno 1939.

In entrambi i casi, Colette non si accontenta della ricostruzione fredda: si insinua nelle aule, ascolta le voci, annota le mani tremanti, le espressioni degli imputati, il borbottio del pubblico. E poi scrive, con uno stile che non assomiglia a nulla di già letto.

Vedere senza inventare

“Vedere, senza inventare.” È questo, secondo Maurizio Ferrara, curatore del volume, il principio cardine della sua scrittura giornalistica.

Eppure, quella che Colette chiama osservazione è in realtà un gesto letterario potentissimo. Perché nei suoi pezzi l’osservazione si fa racconto, e il racconto diventa sguardo morale.

Non giudicante, mai, ma profondamente umano. Anche quando scrive di assassini seriali o di figlie che avvelenano i genitori, Colette non cerca lo scandalo. Cerca l’enigma dell’animo.

È così nei ritratti dei criminali più noti dell’epoca: Violette Nozière, la diciassettenne che uccide il padre; Germaine Berton, simpatizzante anarchica e omicida celebrata dai surrealisti; Marie Becker, pluriomicida belga; Landru, il “Barbablù” francese.

Ogni volta, la scrittrice rifiuta la semplificazione. Non si chiede soltanto “chi ha fatto cosa”, ma soprattutto “perché lo ha fatto”. E in questa tensione verso la verità psicologica, la sua penna raggiunge una raffinatezza ineguagliabile.

Il crimine come specchio della società

Quello che colpisce di più in questi articoli,  scritti per quotidiani e riviste spesso molto diverse tra loro,  è la capacità di Colette di restituire il contesto sociale e culturale entro cui si muovono i colpevoli e le vittime.

Ogni caso di cronaca, nel suo sguardo, diventa una spia della società. La violenza non è mai soltanto individuale: è il prodotto di tensioni, disuguaglianze, abusi, ipocrisie.

Nel processo a Oum-el-Hassen, ad esempio, si intrecciano razzismo, patriarcato e colonialismo. Nell’affare Weidmann, si riflette lo sconcerto di una Francia che sta per precipitare nella guerra, e che ancora usa la ghigliottina come simbolo della giustizia pubblica.

Nei casi delle giovani assassine, si fa strada una riflessione (ancora attualissima) sulla condizione femminile, sui tabù familiari e sulla repressione dei desideri.

Una voce fuori dal coro

Colette non è mai neutrale, ma nemmeno ideologica. È una voce fuori dal coro, spesso ironica, talvolta malinconica, sempre empatica.

Il suo punto di vista è quello di una donna libera, che non si lascia intimidire dai codici della morale dominante. Proprio per questo, il suo approccio al giornalismo risulta così moderno: femminista senza proclami, letteraria senza autocompiacimenti, rigorosa senza rinunciare all’inquietudine.

Cronaca nera ci restituisce una Colette inedita, eppure profondamente coerente con la scrittrice che già conosciamo: amante dei margini, attratta dal desiderio, ossessionata dalla verità intima dei corpi e delle parole. Ma soprattutto ci mostra quanto possa essere potente la scrittura giornalistica, quando a esercitarla è una vera artista della lingua.

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