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Con ”Batte il mio cuore” Martino Menghi ci porta alla scoperta dell’amore nella letteratura degli antichi Greci e Romani

Abbiamo intervistato Martino Menghi, che nel suo libro “Batte il mio cuore” ci porta nell’antichità classica di greci e romani, mostrandoci attraverso gli esempi della letteratura classica, della tragedia e della mitologia, come questi due popoli...

Intervista a Martino Menghi, l’autore del libro che ci aiuta a scoprire in che modo il mondo antico vivesse l’amore attraverso gli esempi del mito e della letteratura

 
MILANO – Abbiamo intervistato Martino Menghi, che nel suo libro “Batte il mio cuore” ci porta nell’antichità classica di greci e romani, mostrandoci attraverso gli esempi della letteratura classica, della tragedia e della mitologia, come questi due popoli conoscessero in profondità l’amore, con le sue gioie e le sue sofferenze.
 
Nel suo libro lei mostra al lettore tutta una varietà di “esempi”, “comportamenti” e “sentimenti” amorosi provenienti dall’antichità classica greco/romana. Ci sono differenze nel modo di intendere e vivere l’amore secondo gli scrittori dell’epoca, rispetto all’età moderna?
Direi che l’antichità greco-romana ci offre una serie di “rappresentazioni” dell’amore che sotto diversi aspetti ci corrispondono. Prendiamo quell’amore inteso come possesso di un corpo e di un’anima ottenuto con la violenza, di cui si legge nell’Iliade omerica: ebbene, le cronache odierne riportano non pochi casi in cui l’amore è ancora concepito in questo modo. Ma sempre Omero nell’Odissea, con Ulisse e Penelope, prefigura alcuni elementi fondamentali dell’amore coniugale quale lo conosciamo anche noi: la resistenza di fronte alle difficoltà, la speranza di superarle, e la forza di un affetto che dura una vita. E che cosa dire di quei matrimoni mancati, per la volontà contraria dei genitori e per una sorte crudele, di cui si legge nell’Antigone sofoclea e nelle Metamorfosi di Ovidio? Storie diverse tra loro, ma accomunate dallo stesso esito infausto, hanno conosciuto numerose repliche non solo in letteratura (si pensi a Romeo e Giulietta), ma anche nella realtà fino ai nostri giorni. Alla stessa stregua, per temi come la gelosia o l’abbandono, abbiamo nei classici greci e latini, con Catullo, Virgilio e Orazio, degli archetipi di esperienze affettive e psicologiche che non finiscono di riguardarci. Tacito poi ci rappresenta il nesso sinergico tra eros, potere e crimine che allora interessava la corte giulio-claudia, ma che ritroviamo in tante corti europee dei secoli XVI e XVII, e in certi contesti oligarchici d’oggi.
 
Quali lezioni possiamo imparare ancora oggi da questi autori e da queste opere? Quali lezioni invece rischiano di non essere più attuali?
Certamente possiamo imparare ancora molto, anche se sotto certi aspetti ci sentiamo diversi. Faccio un esempio. La violenza che connota le storie d’amore dei poemi omerici (dal ratto di Briseide nell’Iliade al massacro dei Proci, ultimo ostacolo al ricongiungimento di Ulisse con Penelope, nell’Odissea) ci viene rappresentata come un valore tutto sommato positivo. Ebbene per noi non lo è, tanto che giustamente ci indigniamo e invochiamo un rapido intervento della giustizia quando leggiamo di rapimenti, di stupri, di abusi di vario genere, o peggio ancora di omicidi passionali. Per il resto, ossia a parte la valorizzazione della violenza vista presso tanti protagonisti della cosiddetta “epopea omerica”, possiamo imparare ancora molto, comprese le ragioni che la filosofia e la medicina antica hanno saputo mettere in campo per sostenere la necessità di rapporti amorosi vissuti nel segno della temperanza e del rispetto dell’altro, e non della prepotenza e dell’abuso. Sì, perché Platone, gli epicurei, gli stoici e grandi medici come Rufo o Galeno scandagliano l’esperienza amorosa in tutti i suoi aspetti, illustrando i benefici ma anche i rischi che essa comporta. E di questa grande lezione noi siamo gli eredi: la rinuncia a comportamenti prevaricatori e violenti, anche in amore, è infatti la condizione perché possa esistere un consorzio civile, come avrebbe ripetuto Freud all’inizio del secolo scorso.  
 
Ha riscontrato differenze nel modo di vivere l’amore tra mondo greco e mondo romano?
La più vistosa differenza, direi, è quella che c’è tra il mondo omerico e quello successivo. A partire dallo sviluppo della polis in Grecia tra il VI e il V sec. a.C.,  o dello stato romano che per molti versi dell’esperienza greca è l’erede, tanto l’amore che gli altri rapporti interpersonali vengono per così dire regolamentati da un’etica e da leggi concepite in vista di un’idea di “bene comune”, che passa attraverso quella rinuncia all’eccesso e alla violenza cui si accennava prima. Certo, la letteratura ci rappresenta le molteplici deviazioni cui l’esperienza amorosa può dare luogo (si pensi alle figure di Medea e Fedra nei drammi di Euripide o, in ambito romano, a Messalina o Agrippina negli Annali di Tacito), ma lo fa allo scopo di sollecitare riflessioni ed eventualmente soluzioni adeguate al problema.   
 
Se dovesse scegliere una “storia”, la sua preferita, quale sarebbe? Per quale motivo?
Forse quella di Enea e Didone. Non solo Virgilio ci rappresenta da vero maestro la dinamica di quell’amore, ma ne mostra anche l’intrinseca fragilità dovuta a un fato che nel suo corso sembra nutrirsi solo del dolore che infligge ai mortali. Noi ci accostiamo a quella storia quasi parteggiando per il suo lieto fine, e invece una volontà avversa la volge in tragedia. L’interrogativo che scaturisce dal loro dramma non è solo la possibilità o meno dell’amore e della felicità, ma più in generale se l’uomo sia o non sia libero di scegliere il proprio destino.
 
 

 
22 febbraio 2015

 
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