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Classici da scoprire e riscoprire: 10 libri da leggere almeno una volta nella vita

Un vero classico non è mai soltanto una testimonianza del passato: è un incontro che può sorprenderci, emozionarci e parlare al nostro presente più di quanto immagini. Ecco 10 classici da riscoprire.

In un’epoca dominata dalle novità e dai trend passeggeri, i classici della letteratura restano lì, come fari silenziosi che continuano a illuminare chi è disposto a guardare oltre l’immediato. Alcuni di questi libri sono celebri e celebrati da generazioni, ma altri, meno fortunati o semplicemente dimenticati, giacciono in attesa di essere riscoperti. Eppure, basta sfogliarli per rendersi conto di quanto siano ancora vivi: parlano di passioni, rivoluzioni interiori, paure e speranze che attraversano il tempo senza invecchiare.

Scoprire o riscoprire un classico è come intraprendere un viaggio doppio: da una parte ci si immerge in un’epoca diversa, con i suoi sogni e le sue contraddizioni; dall’altra si scopre qualcosa di nuovo su se stessi, perché i grandi libri non si limitano a raccontare storie, aprono porte, pongono domande, cambiano sguardi.

Classici da leggere e da riscoprire: 10 libri da leggere assolutamente

In questo articolo vi guideremo tra romanzi celebri e gemme dimenticate, tra pagine che meritano di essere vissute ancora una volta. Perché un vero classico non è mai soltanto una testimonianza del passato: è un incontro che può sorprenderci, emozionarci e parlare al nostro presente più di quanto immagini.

 

Fammi un indovinello di Tillie Olsen

Ci sono scrittrici che parlano per tutte quelle che non hanno potuto. Tillie Olsen è una di loro. Poco conosciuta in Italia, marginale anche nel canone americano, è una delle voci più radicali e necessarie del Novecento. Fammi un indovinello, pubblicato per la prima volta nel 1961 e oggi disponibile in italiano per Marietti 1820, è la sua unica raccolta di racconti. Eppure basterebbe da sola a garantirle un posto tra i grandi.

Olsen scrive delle madri, dei lavoratori, dei silenzi che consumano l’anima. Lo fa con una prosa nervosa, spezzata, densa di sottintesi e piena di dignità. I suoi personaggi non gridano, ma resistono. Non chiedono risarcimenti, ma presenza. I racconti – quattro in tutto – sono tasselli di un mosaico familiare e sociale che attraversa il tempo e i ruoli, e si tengono insieme come le fibre di una stoffa logora e preziosa: a tratti cedevole, ma mai fragile.

Nel racconto che dà il titolo alla raccolta, una madre si interroga sulla figlia cresciuta, cercando di afferrare, troppo tardi, le colpe silenziose della maternità. La scrittura si fa confessione, ma senza indulgere: Olsen non cerca il perdono, cerca verità. E lo fa come solo una scrittrice consapevole della propria responsabilità può fare. Nelle pagine più memorabili, si ha l’impressione che stia mettendo a nudo non solo un personaggio, ma una condizione universale: quella delle donne che hanno dovuto scegliere tra creatività e sopravvivenza, tra espressione e cura.

Tillie Olsen nasce nel 1912 a Omaha, Nebraska, da una famiglia di immigrati russi di origine ebraica. Militante comunista, operaia, madre di quattro figlie, impiega decenni a trovare tempo e spazio per scrivere. E proprio questo tema, la scrittura negata, diventa il cuore della sua riflessione letteraria e politica. Il suo saggio Silences è ancora oggi una pietra miliare del femminismo letterario: un’opera che indaga ciò che non si scrive, perché le condizioni materiali ed emotive impediscono la creazione.

Quella di Olsen è una scrittura necessaria. Ogni frase sembra avere il peso di ciò che è costato scriverla. Non c’è alcuna decorazione inutile, nessun compiacimento. Solo parole che scavano, con la grazia dell’urgenza e la precisione del dolore.

In un’epoca in cui molte voci femminili vengono finalmente recuperate, leggere Fammi un indovinello oggi non è solo un atto di giustizia letteraria, ma anche un richiamo potente a tutto ciò che la letteratura può (e deve) fare: illuminare le zone d’ombra dell’esistenza, dare voce a chi non ha voce, e trasformare il silenzio in resistenza.

Nel 1978 Olsen dichiarò che Fammi un indovinello era stato scritto “negli scarti di tempo, nei ritagli tra una lavatrice e una febbre”. Nessuna metafora potrebbe restituire meglio cosa significhi scrivere da donna, da madre, da proletaria.

 

Il Signore dei lupi di Alexandre Dumas 

Quando si parla di Alexandre Dumas, la mente corre veloce ai moschettieri, ai duelli, ai mantelli svolazzanti nei saloni del potere. Ma c’è un Dumas oscuro, stregato, gotico. Ed è proprio lui che emerge con tutta la sua potenza evocativa in Il signore dei lupi, pubblicato in Italia da Agenzia Alcatraz,  una scelta editoriale raffinata che riporta alla luce un racconto dimenticato, eppure inquietante, che affonda le zanne nel folklore e nella paura.

Scritto con mano sicura ma inusuale, Il signore dei lupi è un breve racconto che unisce l’avventura al mistero, l’horror alla leggenda. Ambientato nella Bretagna più rurale, fra brughiere e foreste, racconta di un nobile maledetto e del suo inquietante legame con una muta di lupi assetati di sangue. I contadini lo temono, lo chiamano “il Signore dei Lupi” perché quando lui appare, i lupi lo seguono. Ma Dumas non si limita al brivido del soprannaturale: costruisce un racconto che riflette sull’alterità, sulla solitudine e sull’animalità che abita l’umano.

La scrittura è elegante, carica di atmosfera, con quella musicalità tipica del feuilleton ottocentesco, ma qui attraversata da una corrente più cupa. Le descrizioni del paesaggio sembrano animarsi, e il bosco diventa un personaggio a sua volta: un luogo di metamorfosi, dove il confine tra uomo e bestia si sfalda.

C’è qualcosa di visionario, perfino romantico, in questo racconto: il protagonista non è un semplice villain, ma una creatura sospesa tra due mondi, condannata a un’esistenza di margine. Il lupo, simbolo ancestrale del male ma anche della libertà, diventa qui una metafora della condizione umana. E Dumas, con abilità sorprendente, riesce a evocare il fascino del gotico senza abbandonare la sua penna brillante e teatrale.

Il signore dei lupi è il perfetto racconto per chi crede che i classici abbiano ancora segreti da svelare. Per chi ama scoprire gli angoli meno battuti della letteratura, e per chi vuole leggere Dumas sotto una nuova luce, più lunare, più notturna.

Sapevi che Dumas scrisse più di 100.000 pagine nella sua vita, tra romanzi, racconti, cronache e testi teatrali? E tra questi, una manciata sono autentici racconti dell’orrore: lupi mannari, fantasmi, delitti. Il signore dei lupi è uno dei più riusciti. E sì, anticipa perfino certe atmosfere di Dracula.

 

L’amante del diavolo di J.W.Brodie-innes

Ci sono libri che sembrano evocati più che scritti. L’amante del diavolo di J.W. Brodie-Innes è uno di questi. Pubblicato per la prima volta nel 1914, e ora tornato nelle librerie italiane grazie alla raffinata collana Civette di Venezia di Venexia, questo romanzo è un piccolo classico dimenticato della letteratura esoterica e gotica britannica, perfetto per chi ama i romanzi che intrecciano magia, desiderio e perdizione.

Brodie-Innes, scrittore scozzese e occultista attivo nell’ambito dell’Hermetic Order of the Golden Dawn (la stessa società esoterica di Yeats e Aleister Crowley), costruisce un romanzo ipnotico e ambiguo, in cui la protagonista, la giovane e bellissima Margaret, diventa oggetto del desiderio di una presenza misteriosa che va oltre il mondo dei vivi. È davvero il diavolo? È una proiezione del desiderio? O è semplicemente l’ombra della libertà che la società vittoriana negava alle donne?

Il romanzo si muove sul confine sottile tra horror e misticismo, eros e redenzione. L’ambientazione nelle Highlands scozzesi, tra castelli solitari e brughiere battute dal vento, accentua il senso di spaesamento e vertigine. Ma ciò che colpisce davvero è la voce narrativa: lenta, solenne, piena di presagi. Come se ogni parola fosse una formula.

Pur seguendo le convenzioni del romanzo gotico, Brodie-Innes le carica di una tensione nuova: non è solo il Male a essere affascinante, ma l’idea che ci si possa abbandonare a esso con consapevolezza. L’amante del diavolo è, in fondo, un romanzo sull’attrazione per l’abisso. E Margaret non è una vittima, ma una scelta.

In un’epoca di riletture femministe e riscoperta di testi oscuri, questo romanzo arriva come una stella nera a illuminare una costellazione letteraria dimenticata. Brodie-Innes scrive con una cultura straordinaria e un gusto teatrale che lo rendono unico: e la traduzione italiana riesce a restituire l’atmosfera arcana senza scadere mai nel kitsch.

Brodie-Innes era uno dei massimi esperti europei di stregoneria e cabala. Si dice che abbia scritto questo romanzo ispirandosi a un caso di possessione reale nella campagna scozzese. Ma ciò che inquieta davvero è un dettaglio: il romanzo fu pubblicato l’anno in cui l’Europa cominciava a bruciare. Anche questo, forse, è un patto col diavolo.

 

L’arte della guerra di Sunzi 

Alcuni libri attraversano i secoli non come reliquie, ma come armi affilate. L’arte della guerra di Sunzi, scritto tra il VI e il V secolo a.C, è uno di questi. Questo piccolo trattato cinese, strutturato in 13 capitoli, è sopravvissuto a imperi, rivoluzioni, guerre e rinascite culturali. Oggi torna in libreria in una sontuosa edizione bilingue (italiano-cinese) per NuiNui, con testo basato sulla storica traduzione annotata da Lionel Giles del 1910, e risulta più attuale che mai.

Non si tratta solo di un manuale militare. L’arte della guerra è un testo sulla strategia, sul pensiero flessibile, sulla comprensione dell’altro, dell’avversario, ma anche di se stessi. Il genio di Sunzi sta proprio qui: nella capacità di trasformare la guerra in un esercizio di intelligenza, di misura, di lettura del contesto. “Il supremo arte della guerra è sottomettere il nemico senza combattere”, scrive. E in questa frase è racchiusa tutta la modernità del suo pensiero.

Il volume edito da NuiNui è visivamente curato, chiaro, adatto anche a lettori alle prime armi con la filosofia orientale. Ma è la versione bilingue a renderlo prezioso: accanto alla traduzione italiana scorre l’originale cinese in caratteri tradizionali, a ricordarci che ogni parola porta con sé un mondo, e che ogni strategia nasce da una visione della realtà.

I 13 capitoli affrontano tutto ciò che occorre per gestire un conflitto: dalla valutazione del terreno alle dinamiche del comando, dalla gestione delle truppe all’uso dell’inganno come strumento di vittoria. Ma ciò che colpisce di più è la profondità filosofica: Sunzi non invita a sconfiggere, ma a comprendere. Ogni battaglia evitata è una vittoria più grande di quella conquistata con le armi.

Non è un caso che da secoli questo testo affascini non solo militari, ma anche politici, imprenditori, scrittori. È stato letto da Napoleone e Mao, da Steve Jobs a Beyoncé. Perché il cuore del libro è una verità ineludibile: vincere non è dominare, è sapere quando agire e quando ritirarsi. È governare l’energia, come un artista marziale. È trasformare il mondo prima che sia lui a trasformare te.

La traduzione di Lionel Giles del 1910, base di questa edizione, fu commissionata dal British Museum per “ispirare gli ufficiali britannici nella lettura orientale della guerra”. Nel 2009, L’arte della guerra è stato inserito da Forbes tra i 10 libri più influenti di sempre per i leader d’impresa. Ma la citazione preferita da Hollywood è un’altra: “Conosci il tuo nemico e conosci te stesso, e la tua vittoria non sarà mai in dubbio”.

 

La signora Berta Garlan di Arthur Schnitzler 

Pochi scrittori hanno saputo sezionare con tale precisione chirurgica il cuore umano quanto Arthur Schnitzler. E La signora Berta Garlan, pubblicato nel 1901 e oggi disponibile in una raffinata edizione BUR con la splendida traduzione di Renata Colorni e un saggio illuminante di Vittorio Lingiardi, è un esempio perfetto della sua arte: scrittura elegante, psicoanalisi ante-litteram, e un’inquietudine che pulsa sotto ogni frase.

Berta Garlan è una vedova borghese che vive ai margini della vita vera. Educata a obbedire, ha rinunciato all’eros, alla libertà, alla voce. Quando, dopo anni, rincontra un amore giovanile diventato nel frattempo celebre violinista, si illude di poter riscrivere la propria storia. Ma Schnitzler non racconta fiabe: il desiderio qui non redime, rivela. E la delusione non è un accidente, è la forma del mondo.

Il romanzo si consuma in dodici giorni, ma ciò che accade è eterno: Berta viene sedotta e abbandonata con la leggerezza crudele tipica degli uomini che abitano il centro del mondo, e che possono permettersi di dimenticare. Lei, invece, deve “pensare”, come nota acutamente Lingiardi,  e prendere coscienza della trappola in cui è vissuta: quella riservata alle donne, educate a essere ignorate.

Schnitzler, con la sua prosa limpida e tagliente, mostra quanto sia sottile il confine tra normalità e abisso. La protagonista è fragile ma non passiva, vittima ma non ingenua. C’è una tensione potente tra ciò che sogna e ciò che la realtà le restituisce: un disincanto che non è mai cinico, ma umano, troppo umano.

Nella Vienna fin de siècle, tra repressione, bellezza e psicoanalisi nascente, questo romanzo è un documento bruciante sul desiderio femminile e sulla violenza sottile del patriarcato. E la figura di Berta, lontanissima dalle eroine romantiche, ci parla ancora oggi con la sua voce spezzata ma non muta.

Arthur Schnitzler intellettuale e femminista? 

Nel saggio in appendice, Lingiardi scrive che Berta abita il “dark continent” di cui parlava Freud: un continente femminile misterioso e rimosso, fatto di emozioni negate. Ma le donne di Schnitzler, da Fräulein Else alla signora Garlan, si ribellano: il loro desiderio infrange il silenzio e mette in crisi le regole sociali. Sono moderne, fragili e pericolose.

 

Il fuoco nella carne di Garibaldi M. Lapolla 

Con Il fuoco nella carne, Garibaldi M. Lapolla ci consegna un ritratto potente e stratificato dell’emigrazione italiana negli Stati Uniti a cavallo tra XIX e XX secolo, ambientato nella tumultuosa East Harlem di fine Ottocento. È una narrazione che si addentra nel cuore pulsante delle comunità di immigrati, raccontandone non solo le difficoltà materiali, ma anche l’irriducibile spinta emotiva che guida ogni scelta: quel “fuoco nella carne” che dà il titolo al romanzo.

Tutto inizia in un piccolo paese del Sud Italia, Villetto, dove Agnese Filoppina, giovane donna dal temperamento fiero e indipendente, partorisce il figlio di un prete, Gelsomino Merlino. In un contesto rurale soffocante, Agnese affronta lo scandalo e il disprezzo della comunità sposando Michele Dantone, un uomo semplice e rassegnato, e parte con lui, il figlio Giovanni e una parte della sua famiglia per l’America. Inizia così l’epopea dell’emigrazione, fatta di sacrifici, sogni, ma anche compromessi morali.

Una volta giunta a New York, Agnese non accetta la marginalità a cui il suo genere e la sua origine sembrano destinarla. La sua ascesa, spesso costruita su scelte dure e mezzi discutibili, la porta a diventare una figura di spicco all’interno della comunità italiana, costruendo un piccolo impero immobiliare. In netto contrasto con il marito Michele, incapace di adattarsi e piegato dalla vergogna, Agnese emerge come un personaggio tragico e grandioso: una donna che incarna sia la sete di riscatto che il prezzo pagato per ottenerlo.

Intrecciata alla sua vicenda c’è quella di Giovanni, il figlio nato dallo scandalo, che cerca di fuggire dalla gabbia delle aspettative familiari e della comunità. Se Agnese punta sulla concretezza e sull’affermazione economica, Giovanni sogna una via di elevazione attraverso l’arte: il disegno e la pittura diventano per lui strumenti di emancipazione, un modo per trovare una propria identità tra la memoria di un’Italia abbandonata e il disincanto americano.

Lapolla costruisce un affresco vivido e autentico della “Little Italy” di East Harlem, scavando nelle dinamiche di potere, nei legami familiari soffocanti, nelle aspirazioni e nelle ferite di chi vive in bilico tra il bisogno di appartenenza e il desiderio di affermazione personale. L’America descritta dall’autore non è un mito, ma un territorio in cui i sogni spesso si infrangono contro barriere invisibili: l’ignoranza, il pregiudizio, la nostalgia.

Lo stile di Lapolla è diretto, mai edulcorato, capace di restituire l’asprezza e la tenerezza della vita degli emigranti. Il fuoco nella carne non si limita a raccontare una storia d’amore o di scalata sociale: è un romanzo di desideri brucianti, di colpe mai sopite, di sogni e redenzioni negate o solo parzialmente raggiunte.

Con la sua opera, Garibaldi M. Lapolla si inserisce a pieno titolo nel solco della letteratura dell’emigrazione, accanto a figure come John Fante e Pietro Di Donato, offrendo un punto di vista unico: quello di un insider che conosceva da vicino le tensioni di East Harlem, perché vi era cresciuto. Attraverso Agnese e Giovanni, Lapolla mette in scena due strategie opposte di sopravvivenza in terra straniera: la lotta feroce per l’integrazione e la fuga nell’arte come forma di resistenza.

Il fuoco nella carne è un romanzo intenso, duro e sincero, che restituisce il battito vivo della comunità italiana in America, sospesa tra antiche radici e nuovi orizzonti. Un libro che racconta la forza delle donne, le illusioni spezzate dell’emigrazione e l’inestinguibile bisogno di lasciare il segno nel mondo.

 

La trappola di sabbia di Margarita Nelken 

Ci sono libri che arrivano dal passato con una voce troppo viva per essere ignorata. La trappola di sabbia di Margarita Nelken è uno di questi. Pubblicato nel 1923 in Spagna e oggi, per la prima volta, tradotto in italiano da Flavia Zibellini, è un romanzo che parla delle donne e della loro condizione sociale con una lucidità feroce, scomoda, ancora attualissima.

Margarita Nelken, intellettuale, femminista, critica d’arte e politica rivoluzionaria, scrive una storia che non è solo narrativa, ma analisi, denuncia, grido. Al centro del romanzo ci sono donne povere, madri senza scelte, figlie travolte dall’eredità del silenzio, mogli senza potere, corpi usurati dal lavoro e dal desiderio degli altri. Non c’è redenzione, ma resistenza.

La “trappola di sabbia” non è una metafora astratta: è la condizione in cui vivono le protagoniste. Una sabbia che soffoca, che intrappola i corpi e le vite in una morsa economica, sociale e culturale da cui è impossibile liberarsi. Margarita Nelken scrive senza abbellire nulla. Non c’è pietismo, non c’è romanticismo, ma un senso tragico della realtà, degno della miglior Zola. Eppure, nel mezzo di questa crudezza, si apre una scrittura di potenza lirica, capace di dare voce all’invisibile.

Nelken mostra come le disuguaglianze si imprimano sui corpi, come la maternità possa diventare condanna, e come la povertà sia una gabbia costruita anche con gli strumenti della morale e del patriarcato. La sua critica è radicale, e non risparmia nessuno: né gli uomini né le donne che accettano il proprio ruolo come destino.

La traduzione di Flavia Zibellini è attenta, acuminata, rispettosa del ritmo e della temperatura emotiva dell’originale.

Oggi che si torna a parlare, spesso con leggerezza,  di femminismo, maternità, povertà educativa, La trappola di sabbia arriva come un colpo al petto. È un romanzo che chiede di essere letto con gli occhi aperti e con il cuore sveglio. E ci ricorda che la letteratura può e deve essere uno strumento di giustizia.

Margarita Nelken fu una delle prime donne a sedere nelle Cortes spagnole. Difese pubblicamente il diritto all’aborto e all’istruzione femminile, e fu costretta all’esilio dopo l’ascesa di Franco. Nella sua vita e nella sua opera, la militanza e la letteratura sono una cosa sola. La trappola di sabbia è il suo testamento più vivo.

 

Il collegio delle piccole donne di Henry Handel Richardson 

Nel 1910, in pieno fervore vittoriano, una donna australiana pubblica un romanzo sulla crescita, l’educazione e l’angoscia dell’adolescenza femminile. Lo fa firmandosi Henry Handel Richardson, nome maschile scelto con determinazione: per scavalcare la condiscendenza verso le donne scrittrici, certo, ma anche per difendere uno spazio espressivo radicalmente altro, non conforme. Ethel Florence Lindesay Richardson, questo il suo vero nome, non cerca consolazione né riscatto: Il collegio delle piccole donne è una cronaca asciutta, pungente, in certi momenti perfino crudele, della formazione di una ragazza sola, povera e inadatta alla norma. Garzanti ne pubblica ora la prima edizione italiana, con la traduzione attenta e limpida di Sara Caraffini: un recupero prezioso, che restituisce a questo romanzo il posto che merita nella storia letteraria e culturale queer.

Laura Tweedle Rambotham, la protagonista, è un personaggio che resta sotto pelle. Non è simpatica, non è docile, non è una “piccola donna” nell’accezione addomesticata a cui il titolo sembra alludere con ironia. È ribelle, testarda, a volte patetica nella sua goffaggine sociale, ma anche ferocemente viva. Inviata in collegio grazie al sacrificio della madre, Laura si muove in un microcosmo oppressivo, fatto di convenzioni rigide, umiliazioni rituali, educazione repressiva e rapporti ambigui con le insegnanti. Ma ciò che rende il romanzo straordinario è la capacità con cui Richardson – ben prima di qualsiasi pedagogia progressista o letteratura “young adult” racconta l’adolescenza per quello che è davvero: un periodo di sospensione, di trasformazione dolorosa, di lacerazione tra desiderio e dovere.

La scuola femminile, in Il collegio delle piccole donne, è una macchina sociale che forma e schiaccia allo stesso tempo. Le amicizie sono intense e mutevoli, il linguaggio è sorvegliato, il corpo è un campo di battaglia. C’è una dimensione erotica latente, soprattutto nel rapporto tra Laura e una giovane insegnante, che oggi possiamo leggere in chiave queer ma che, all’epoca, era relegata ai non detti e ai sospetti. Ed è proprio questa ambiguità a rendere il romanzo tanto moderno: non spiega, non educa, non giudica. Mostra. E lascia che sia il lettore a sentirsi a disagio o complice, escluso o implicato.

Henry Handel Richardson, considerata oggi una delle madri della letteratura australiana, visse gran parte della sua vita in Europa, in una dimensione sospesa e cosmopolita. Fu musicista, intellettuale, eclettica. Scrisse romanzi complessi, spesso autobiografici, e sempre difficili da classificare. La sua opera più celebre è la trilogia The Fortunes of Richard Mahony, ma Il collegio delle piccole donne è forse il testo che meglio custodisce il nucleo emotivo della sua scrittura: la tensione tra ciò che siamo e ciò che ci costringono a diventare.

La traduzione italiana arriva in un momento fertile per il recupero delle scrittrici dimenticate e dei classici queer. Ma Il collegio delle piccole donne non è un testo da museo. È un romanzo vivo, inquieto, sorprendente, che ci parla con la voce spezzata e coraggiosa di chi ha attraversato il margine senza mai rinunciare alla complessità. Laura non è un’eroina da imitare, ma una figura da riconoscere. E leggendo la sua storia, è difficile non rivedere tutte le adolescenti troppo intelligenti, troppo intense, troppo diverse per il mondo che le circonda.

Il nome Henry Handel Richardson è un omaggio al compositore tedesco Georg Friedrich Händel. L’autrice fu convinta sostenitrice del suffragio femminile, omosessuale dichiarata e legata a lungo a una donna, Lilian Galbally. Il romanzo, spesso censurato o ridotto a lettura per ragazze, è stato riscoperto negli anni ’70 da critiche femministe australiane, che lo hanno riconosciuto come uno dei primi romanzi a tematizzare il desiderio lesbico in modo realistico e non moralizzante.

Henry Handel Richardson è stata molto amata, letta e studiata da alcune delle più importanti scrittrici contemporanee, soprattutto in ambito queer, femminista e postcoloniale. Ecco una selezione di autrici che hanno espresso ammirazione o hanno scritto su di lei:

Ali Smith l’ha citata in diverse interviste come una delle sue influenze formative. Ha sottolineato il modo in cui Richardson ha saputo raccontare l’adolescenza, l’identità e il non detto con una modernità sorprendente.

Carmen Maria Machado. Sebbene non l’abbia citata direttamente tra le sue ispirazioni, i critici hanno notato molti punti di contatto tra Il collegio delle piccole donne e Nel sogno della casa (soprattutto per l’atmosfera claustrofobica, il desiderio represso e la critica alle strutture patriarcali dell’educazione femminile).

Sarah Waters. Ha parlato positivamente del romanzo nelle sue ricerche accademiche e nelle sue letture formative. Waters, come Richardson, scrive spesso di relazioni queer in contesti storici repressivi, ed è molto attenta a recuperare autrici del passato che hanno esplorato la complessità dell’identità femminile.

Helen Garner. Grande scrittrice australiana contemporanea, ha definito The Getting of Wisdom (titolo originale de Il collegio delle piccole donne) uno dei romanzi più importanti dell’Australia letteraria, capace di parlare anche alla contemporaneità.

Kate Grenville. Altra scrittrice australiana, autrice de Il segreto del fiume, ha inserito Richardson tra le scrittrici fondanti della narrativa australiana d’autrice, evidenziando il coraggio con cui ha affrontato temi scomodi per il suo tempo.

 

Scoop di Evelyn Waugh

Prima di The Post, prima di Spotlight, prima che il giornalismo diventasse epica da Oscar, c’era Scoop. Un romanzo scritto nel 1938 da Evelyn Waugh, cinico, lucidissimo, devastante. E ancora, nel 2025, irresistibilmente attuale. Pubblicato in Italia da Feltrinelli, Scoop è una satira che colpisce al cuore il mito del reporter eroico, smontandolo pezzo per pezzo a colpi di equivoci, snobismo, colonialismo e macchine da scrivere.

Il protagonista è William Boot, timido e impacciato autore di articoli naturalistici per il Daily Beast, spedito per errore in una guerra africana con l’ordine di trovare “lo scoop”. Ma Boot non capisce nulla di politica internazionale, detesta i viaggi e confonde i ministri. Il suo sguardo, però, è quello giusto: ingenuo abbastanza da cogliere l’assurdo. E l’assurdo, qui, è il modo in cui l’informazione si costruisce: tra pettegolezzi, invenzioni, dispacci falsi, editori che non leggono e inviati speciali che si rubano le battute a vicenda.

Waugh, ex reporter del Daily Mail, sa bene di cosa parla. E mette a nudo, con eleganza spietata, il funzionamento del giornalismo come teatro, come produzione industriale della realtà. Ma lo fa con una scrittura brillante, rapidissima, piena di frasi cesellate e personaggi memorabili. Scoop non è solo un attacco al giornalismo: è una riflessione sul potere della parola, sulla manipolazione del pubblico e sulla tragica comicità del mondo moderno.

La guerra africana raccontata nel romanzo, in uno stato immaginario chiamato Ishmaelia, è una parodia dei conflitti reali che l’Occidente non ha mai davvero raccontato, ma solo confezionato. Il colonialismo, l’arroganza britannica, l’ossessione per lo scoop a tutti i costi diventano qui strumenti di una critica feroce al modo in cui la verità viene trattata come merce.

Leggerlo oggi, nell’epoca della disinformazione algoritmica e dei giornalisti-influencer, fa ancora più impressione. Perché tutto ciò che Waugh racconta con umorismo – l’ego smisurato dei corrispondenti, la superficialità delle redazioni, il sensazionalismo, è ancora con noi. Solo che oggi si chiama breaking news.

Lo stesso Waugh fu mandato in Abissinia durante la guerra italo-etiopica, ma odiava il lavoro di inviato. Anni dopo scrisse: “I giornalisti non vanno alla ricerca della verità. Vanno alla ricerca di un taxi”. Il Daily Beast, il fittizio giornale di Scoop, ha ispirato il nome del celebre sito d’informazione americano fondato nel 2008. E William Boot è oggi considerato l’alter ego archetipico del reporter per sbaglio: onesto, goffo, fuori luogo, e proprio per questo vero.

 

Lana caprina di Casanova 

Giacomo Casanova non fu solo seduttore e giocatore d’azzardo. Fu anche filosofo eretico, scrittore irregolare, alchimista delle parole e dell’identità. E Lana caprina. Epistola di un licantropo, pubblicato da Elliot in una delle sue collane più radicali, ce lo restituisce in una veste inedita: quella di un uomo in fuga da se stesso, che si reinventa creatura notturna per evadere dal carcere del raziocinio e della morale.

Questo testo, scritto probabilmente tra il 1791 e il 1793, mentre Casanova era ormai vecchio, solo e impiegato come bibliotecario nel castello di Dux, è una delle sue opere meno note e più sorprendenti. Una lettera immaginaria, un monologo visionario in cui il protagonista – forse l’autore stesso, forse un alter ego, racconta la propria trasformazione in licantropo come se fosse una confessione psicoanalitica ante litteram. Il tono è barocco, osceno, filosofico, autoironico: si ride, ci si inquieta, si riflette.

Ma non è solo gioco. In questa metamorfosi animalesca Casanova insinua una critica feroce alla civiltà illuminista che lo ha espulso: il licantropo è l’altro, il reietto, il desiderio che non si può dire. È l’emblema di chi non si adatta, di chi resiste con il corpo, con la carne, con l’istinto. Il testo è pieno di allusioni erudite, di latinismi, di sarcasmo verso le accademie e le ipocrisie morali dell’epoca.

Eppure, tra le righe, si sente la malinconia di un uomo che ha vissuto troppo. Il licantropo non è solo una maschera: è anche una difesa, una disperata ultima metamorfosi per non morire dimenticati. Casanova, che aveva attraversato l’Europa intera tra carceri, duelli e corti, qui si ritira nella selva interiore della follia letteraria, e ne fa il suo testamento simbolico.

Si dice che Casanova avesse letto avidamente le teorie di Paracelso, e che credesse in una forma di licantropia non solo fisica, ma spirituale. In Lana caprina ci sono citazioni deformate da Plinio, Ovidio e Voltaire: è una miniatura delirante del Settecento europeo. Elliot ne propone un’edizione curata, elegante, ma volutamente disturbante: come un piccolo grimorio erotico-filosofico dimenticato in una biblioteca stregata.

 

LIBRO BONUS: I fascisti invecchiano di Vitaliano Brancati 

Cosa resta del fascismo quando la retorica svanisce e l’uomo resta solo con se stesso? I fascisti invecchiano, scritto nel 1953 da Vitaliano Brancati, è uno dei testi più taglienti, lucidi e velenosamente ironici sul fallimento morale di un’epoca e di un carattere nazionale. Pubblicato postumo e oggi ristampato da Elliot, è un monologo teatrale travestito da racconto, una confessione a mezza voce che smaschera il cuore vuoto del potere e l’inerzia dei suoi fantasmi.

Il protagonista, mai nominato, ma perfettamente riconoscibile,  è un ex gerarca, un reduce senza gloria né rimorso, ormai vecchio, dimenticato, ridicolo. Parla da solo, a se stesso, al pubblico, in un flusso che alterna cinismo, nostalgia, arroganza e viltà. Il fascismo, per lui, non è mai stato un’ideologia: è stato uno stile di vita, un esercizio di vanità, una carriera. Ora che tutto è finito, ciò che resta è un’eco grottesca. E Brancati, con la sua scrittura sottile e incandescente, ci obbliga a stare lì, ad ascoltare, senza sconti.

Il fascismo di questo vecchio uomo non è quello delle parate e dei proclami, ma quello più inquietante: quello quotidiano, quello domestico, quello che si nasconde dietro le battute, le posture virili, l’idea che comandare sia un destino. Ed è proprio per questo che il libro brucia ancora oggi. Perché ci dice che i fascisti non scompaiono: invecchiano. Cambiano pelle. Si mimetizzano. E continuano a parlarsi addosso, a giustificarsi, a cercare un pubblico che li ascolti.

Brancati non scrive un pamphlet politico. Scrive una tragedia farsesca. E lo fa con una maestria rara: una lingua piena di ritmo, scarti comici e dolori profondi, capace di tenere insieme l’intelligenza e la disperazione. La voce narrante è al tempo stesso fastidiosa e commovente: ci si ride sopra, ma ci si sente anche coinvolti, chiamati in causa. Perché quel gerarca decaduto ha qualcosa di familiare. È la caricatura dell’uomo che si crede potente solo perché nessuno osa contraddirlo.

Brancati scrisse questo testo poco prima di morire, come se volesse chiudere un cerchio. Già in Il bell’Antonio e Gli anni perduti aveva smontato il machismo fascista e la sua ossessione per la virilità. Con I fascisti invecchiano, mette il chiodo finale nella bara del regime: non con la condanna, ma con la messa in scena del patetico. È un libro che oggi si dovrebbe leggere nelle scuole. Perché il fascismo, spesso, sopravvive non nei proclami, ma nei tic.

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