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Chiara Mezzalama e la vita degli intellettuali che vivono a Parigi dopo l’attentato alla redazione di Charlie Hebdo

Chiara Mezzalama è psicoterapeuta e autrice di narrativa. Il suo primo romanzo, Avrò cura di te, è stato pubblicato da Edizioni e/o nel 2009...

Chiara Mezzalama è psicoterapeuta e autrice di narrativa. Il suo primo romanzo, Avrò cura di te, è stato pubblicato da Edizioni e/o nel 2009.

 

Chiara, come sei arrivata alla pubblicazione del tuo primo romanzo con una casa editrice importante come Edizioni e/o? Di solito dietro un esordio così luminoso ci sono anni di rifiuti e di silenzi. A te come è andata?

Rifiuti e silenzi. Soprattutto silenzi direi, che sono peggio dei rifiuti. Negano la tua esistenza come autrice. E questa purtroppo è la prassi. Nessuno si prende più la briga di rispondere. Lo trovo inaccettabile. Nel caso delle Edizioni e/o è stato attraverso un incontro. Più vado avanti e più mi sembra che siano gli incontri, più dei progetti, ad avere valore. Conobbi Michael Reynolds ai giardinetti mentre portavamo a spasso le nostre bambine in passeggino. Lavorava ancora a Roma presso la casa editrice (adesso è Editor-in-chief di Europa Editions a New York). Lesse il manoscritto (che peraltro avevo mandato mesi prima alla casa editrice senza ricevere risposta). Lo passò a Sandra Ozzola Ferri che lo apprezzò. Poco dopo ricevetti la proposta di pubblicazione. Era l’inizio di settembre. Piansi di gioia.

 

Ma sfondare il muro di gomma dell’editoria che punta solo sui nomi già noti significa che poi le difficoltà sono finite? O si ricomincia ogni volta da capo?

Muro di gomma. Mi sembra l’espressione giusta. In realtà, a meno che il libro di esordio non conosca un grande successo (e i casi sono molto rari e nella maggior parte vengono decisi prima dalle case editrici), la pubblicazione del primo romanzo non cambia un granché. Sì, certo, c’è l’emozione di vedere il proprio lavoro trasformato in un libro, con una copertina, una quarta e tutto il resto. C’è l’incontro con i lettori che danno vita al romanzo, ci sono alcune interviste, forse qualche festival. Ma finite quelle cinque o sei presentazioni, ricevuti i complimenti delle amiche di tua madre, ti ritrovi senza soldi come prima e con quell’ansia che sempre arriva quando devi iniziare un nuovo romanzo: ce la farò a scrivere ancora? A passare tutte quelle ore chiusa in casa a pensare, sognare, scrivere, perdere tempo? E poi ancora leggere, rileggere, correggere, ricorreggere? Per me le difficoltà sono venute dopo il primo libro: due romanzi rifiutati. Altri silenzi. Dubbi. Scoraggiamento. Poi finalmente il terzo romanzo è stato accettato. Quasi non ci speravo più.

 

Te lo avranno chiesto molte volte: uno scrittore che è anche psicoterapeuta ha un particolare modo di narrare le storie, di costruire i personaggi?

Il rapporto tra questi due mestieri è molto complicato. All’inizio ho cercato in tutti i modi di tenerli separati. La mattina scrivevo, il pomeriggio vedevo i pazienti a studio. Per qualche anno ha funzionato. Sicuramente ciò che mi interessa è il mondo interno e questo si riflette anche sulla scrittura. È la vita interiore dei personaggi che cerco. Ma a differenza dei pazienti, i personaggi sono sotto il mio controllo. Sono io che li creo, li faccio vivere e se voglio li faccio anche morire. C’è una forma di grande onnipotenza in tutto ciò. Con il tempo però ho cominciato a sentire che lo spazio dedicato alla scrittura non bastava più. Così come la scrittura consumava molte energie che avrei dovuto consacrare ai pazienti. Mi sembrava di fare male entrambe le cose. E così alla fine ho deciso: ho lasciato il mio lavoro di psicoterapeuta per dedicarmi soltanto alla scrittura. È una scelta suicida, ma non potevo fare altro. Adesso vivo in Francia, scrivo e sono contenta. Ma continuo a non guadagnare niente. Mi sono data un tempo, poi si vedrà. Prima o poi ci sarà in un mio romanzo un personaggio che fa l’analista, o che è una paziente o un paziente in analisi!

 

L’amicizia fra donne, il viaggio come percorso che conduce da un mondo a un altro ma anche da una condizione esistenziale a un’altra. Che genesi ha avuto Avrò cura di te, che ha per protagoniste due donne in qualche modo in fuga da qualcosa e da qualcuno e narra il legame che nasce dal loro incontro?

Il viaggio è una dimensione esistenziale imprescindibile. Può essere un viaggio interiore, o un viaggio verso l’altrove. Quello che mi interessa è di osservare il cambiamento che si produce quando ci si mette in viaggio. Il cambiamento è faticoso ma è sinonimo di vitalità. È stato sempre così per me, vengo da una famiglia che si è spostata molto: mio padre faceva il diplomatico, da bambina ho vissuto in tanti paesi diversi. In Avrò cura di te avevo voglia di raccontare di un incontro ma anche di un viaggio. Sono partita dal Marocco, dove ho abitato per quattro anni. Poi c’era la stazione “Termini” di Roma, un luogo che mi ha sempre affascinato. Le stazioni sono dei crocevia, non a caso è intorno alle stazioni che la popolazione delle città si mischia. Questo genera anche violenza, l’incontro con l’altro non è mai facile. Ma può anche essere una grande opportunità di crescita. È quello che succede ai due personaggi di Bianca e Yasmina. L’amicizia che nasce tra loro sarà ciò che le salverà entrambe.

 

Chi scrive di solito si è appassionato prima alle parole scritte da altri. Tu leggevi molto da bambina? E hai continuato a leggere, crescendo? Un autore che ami? Un libro che ha segnato la tua vita?

Ho sempre letto molto. Da piccola ho avuto occasione di annoiarmi molto. Ho vissuto in luoghi isolati, dove non c’erano amici, e così passavo il tempo a leggere. La lettura è stata la mia salvezza. E lo è tutt’ora. Non posso immaginare di vivere senza leggere. Credo che se dovessi scegliere tra rinunciare a leggere o rinunciare a scrivere, rinuncerei a scrivere. La lista degli autori, e soprattutto delle autrici che amo è così lunga che non basterebbe un’intervista. Ultimamente leggo molto in francese, mi sono appassionata a un’autrice di origini giapponesi che vive in Canada. Mi piacciono le scrittrici americane, ho appena finito di leggere un romanzo bellissimo di Louise Erdrige per esempio, Love Medicine. Non seguo per forza l’attualità. Anzi le mode mi infastidiscono un po’. Lascerò passare del tempo prima di leggere il quarto volume de L’amica geniale di Elena Ferrante. Troppi rumori intorno ai libri non ti lasciano la libertà di apprezzarli davvero.

 

Hai scritto diverse volte libri in collaborazione con altri. Com’è stata l’esperienza di una scrittura a più voci? Quali le difficoltà, ammesso che tu ne abbia incontrate? E cosa ti è invece particolarmente piaciuto in questa modalità di scrittura?

La scrittura è per definizione un’attività solitaria. Perciò rompere questa solitudine ogni tanto può essere divertente. Ho scritto per la rivista “Leggendaria” un romanzo a sei mani: tre donne di tre generazioni diverse. È stata dura all’inizio perché dovevi seguire la storia cominciata da un’altra, fare lo sforzo di entrare nella sua testa, cercando tuttavia di conservare il tuo stile, il tuo pensiero. Si crea una sorta di affinità con le altre, un immaginario comune. Credo che alla fine la storia sia venuta bene. Una delle tre donne era Lidia Ravera, una scrittrice molto esperta e ho potuto imparare qualcosa da lei. È stata un’occasione preziosa.

 

Cosa stai scrivendo adesso?

Ho finito di scrivere qualche mese fa un romanzo autobiografico che uscirà a luglio prossimo. Ambientato a Teheran nel 1980, racconta la storia della mia famiglia quando mio padre fu ambasciatore d’Italia in Iran. È la storia di una lunga estate passata nel giardino dell’ambasciata, senza poter uscire. È un libro che parla dell’infanzia e della guerra e di cosa significhi vivere in luogo protetto mentre tutto intorno sta crollando. Da quando sono arrivata in Francia ho iniziato a tenere un diario in francese…è molto difficile scrivere in una lingua che non è la tua lingua madre, dove incontri limiti di ogni genere: lessicali, grammaticali… il francese ha un’ortografia impossibile. Eppure mi sembra che queste difficoltà aiutino ad avere una scrittura più chiara, essenziale, forse un po’ scarna. Diciamo che sto facendo un esperimento. In fondo la scrittura è una scoperta continua di sé e del mondo che ti circonda. Per esempio non avrei mai pensato di rivivere a Parigi alcune sensazioni che avevo provato a Teheran. L’attentato terroristico alla redazione del giornale satirico Charlie Hebdo ha smosso in me delle memorie molte antiche.

Abito molto vicino alla redazione e la scuola di mio figlio è a poche decine di metri di distanza. Sono rimasta molto colpita da ciò che è accaduto e per gestire l’angoscia mi sono messa a scrivere e non ho più smesso. Ho scritto un reportage che uscirà la prima settimana di febbraio, intitolato Voglio essere Charlie: diario minimo di una scrittrice italiana a Parigi, pubblicato da Edizioni Estemporanee. Una sorta di diario di questi giorni terribili, ma anche una riflessione sulla libertà di espressione, sull’importanza della scrittura, sulla difficoltà di vivere in un mondo sempre più complesso e mondializzato.

 

Per tutto il mondo il massacro di Parigi è una ferita, credo, di gravità pari a quella dell’attentato alle Twin Towers del 2001, al di là del numero dei morti. Ma quali sentimenti si agitano negli intellettuali che abitano a Parigi? Di cosa parlano, tra loro, in questi giorni di lutto ancora recente?

            La manifestazione oceanica dell’11 gennaio è la prova di quanto questi attentati abbiano toccato qualcosa di profondo. Da un lato c’è la difesa dei valori repubblicani della Francia che sono il fondamento della democrazia. “Liberté, Egalité, Fraternité”, a cui aggiungerei “Laicité”; sono i quattro pilastri della società e sono intoccabili. Dall’altro ci sono le crescenti difficoltà che nascono da una società che non garantisce a tutti questi stessi diritti. I musulmani di Francia sono spesso discriminati per motivi economici e sociali, la religione è soltanto un aspetto della complessità dei rapporti interculturali. Sarebbe troppo lungo da spiegare ma in generale gli intellettuali parlano della necessità di garantire più educazione e più strumenti di emancipazione a quella parte della popolazione che è più svantaggiata. La radicalizzazione islamica è spesso frutto di frustrazione, povertà, fragilità esistenziale. Due dei tre assassini uscivano di prigione. Credo che sarà difficile ricomporre questa frattura, non dimentichiamo che il partito di estrema destra, Le Front National, ha preso 25% dei voti alle ultime elezioni. Un aspetto positivo comunque è che si discute molto in questi giorni. Ho letto moltissimi articoli con opinioni diverse. Ecco, continuare a pensare e a scrivere in questo momento è di un’importanza cruciale.

 

Grazie, Chiara, per il tuo tempo e le tue risposte.

 

Lia Messina

 

 

7 febbraio 2015

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