C’è un motivo se “Careless People. Gente che se ne frega” è finito tra i 100 migliori libri del 2025 del New York Times Book Review: non è solo l’ennesimo libro su Big Tech, ma il racconto dall’interno di come una manciata di persone – “gente incurante”, per usare la citazione da “Il grande Gatsby” che dà il titolo al libro – abbia avuto in mano, per un decennio, una parte significativa del nostro destino digitale.
Sarah Wynn-Williams non è un’osservatrice esterna. Neozelandese, ex diplomatico, viene assunta nel 2011 da Facebook e in pochi anni diventa direttrice delle politiche pubbliche globali: è seduta nei meeting con Mark Zuckerberg e Sheryl Sandberg, vola su jet privati, discute con governi autoritari e ministri europei.
Quando decide di lasciare l’azienda, nel 2017, è “bruciata”, delusa, convinta che il sogno iniziale – connettere il mondo, dare voce a tutti – sia stato divorato dall’avidità, dall’opportunismo politico, dalla più banale incuria morale. “Careless People” è il tentativo di mettere per iscritto questo tradimento.
Chi cerca un saggio tecnico sulla moderazione dei contenuti resterà deluso: quello che Wynn-Williams consegna al lettore è un memoir in prima persona, a tratti quasi un romanzo di formazione che si trasforma, pagina dopo pagina, in un horror aziendale.
Di cosa parla “Careless People”
Dalla diplomazia alla Silicon Valley
Il libro si apre con una giovane Sarah che lascia il lavoro come addetta alle relazioni internazionali per il governo neozelandese per inseguire il miraggio di Facebook. È il 2011: l’azienda ha ancora l’aura della start-up idealista, la “rivoluzione araba” è stata appena raccontata come trionfo dei social, il motto “move fast and break things” suona rivoluzionario e cool.
L’idea di Wynn-Williams è semplice: se già da diplomatica cercava di risolvere piccoli conflitti, dentro Facebook avrebbe potuto cambiare il mondo in grande. La posizione che accetta – lavorare sulle politiche pubbliche – le sembra perfetta: un ponte tra la tecnologia e la democrazia.
In pochi anni si ritrova ai piani alti: entra nel team di Sandberg, partecipa alla definizione delle strategie globali, discute di contenuti “sensibili”, terrorismo, rivolte, libertà di espressione, rapporti con governi amici e ostili.
Jet privati, giunte militari e stanze ovattate
Il memoir è pieno di scene da film. C’è il jet privato su cui vola accanto a Zuckerberg, mentre il team discute come rispondere alle accuse di interferenza nelle elezioni americane del 2016. C’è la visita in Myanmar, dove Wynn-Williams comprende – troppo tardi, suggerisce – che la piattaforma è diventata il megafono perfetto per l’odio anti-rohingya, con solo due moderatori che parlano birmano, uno dei quali, sospetta, è legato alla giunta militare.
C’è la corte alla Cina: piani complicatissimi per entrare nel mercato più grande del mondo, fino all’idea di costruire strumenti di censura su misura per il Partito comunista, con la prospettiva concreta che utenti di Hong Kong possano finire in prigione per un post su Instagram.
E poi ci sono gli episodi quotidiani, velenosi proprio perché normalizzati: riunioni in cui le donne vengono interrotte sistematicamente, commenti sessisti che restano senza conseguenze, una cultura aziendale che premia l’aggressività, l’iper-disponibilità, il culto del capo. Secondo Wynn-Williams, perfino i casi di molestie imputati a figure di vertice vengono minimizzati o insabbiati.
“Careless people”: la metafora che tiene insieme tutto
Tom, Daisy e i nuovi ricchi della Silicon Valley
Il titolo non è casuale. Viene da una frase celeberrima di “Il grande Gatsby”:
“Erano gente incurante, Tom e Daisy – distruggevano cose e creature e poi tornavano ai loro soldi, alla loro immensa incuranza, o qualunque cosa fosse a tenerli insieme, e lasciavano che altri ripulissero il disastro”.
Per Wynn-Williams, i vertici di Facebook sono i nuovi Tom e Daisy: persone che, pur dichiarandosi visionarie e progressiste, prendono decisioni capaci di destabilizzare elezioni, alimentare genocidi, mettere a rischio la privacy di miliardi di utenti, salvo poi rifugiarsi dietro la burocrazia aziendale o i mantra sulla “neutralità della tecnologia”.
L’elemento interessante è che l’autrice non si pone fuori da questo quadro. All’inizio del libro è lei stessa una “careless person”: crede di essere dalla parte giusta, è affascinata dal potere, dai benefit, dal sentirsi dentro l’epicentro del mondo. Solo gradualmente, quasi con vergogna, si accorge di far parte della macchina che distrugge ciò che dice di voler proteggere.
La pinna di squalo nel quadrato blu
Anche la copertina, con quella pinna di squalo che affiora da un quadrato blu minimalista, è una metafora fin troppo chiara: sotto la superficie liscia del social network si muove qualcosa di predatorio. L’immagine richiama il logo di Facebook – il quadrato blu – e lo trasforma in uno specchio d’acqua da cui emerge il pericolo.
La “gente che se ne frega” del sottotitolo italiano rimanda proprio a questo doppio livello: in superficie l’azienda parla di community, amicizia, connessione; sotto, dominano la fame di dati e una spregiudicatezza che non guarda in faccia a nessuno.
Potere, avidità, idealismo perduto
Cina: quando la libertà di espressione è negoziabile
Una delle parti più forti del libro riguarda il corteggiamento della Cina. Wynn-Williams descrive meeting in cui si immaginano architetture sempre più complicate pur di convincere Pechino ad aprire le porte a Facebook: partnership con società locali legate al governo, strumenti di censura integrata, perfino la possibilità di fornire alle autorità i dati di chi usa i servizi dall’interno del Paese, Hong Kong compresa.
Per anni, come ricorda anche il Financial Times, l’idea di entrare in Cina viene considerata una sorta di ossessione personale di Zuckerberg, un Big Prize da conquistare a ogni costo.Che la democrazia liberale o i diritti umani ne escano a pezzi sembra interessare poco: l’importante è “non restare fuori dal mercato”.
Myanmar: l’“incuria letale” verso i Rohingya
Altro nodo centrale è la gestione – o meglio la non-gestione – dell’odio in Myanmar, dove Facebook diventa lo strumento principale per diffondere propaganda contro la minoranza musulmana rohingya.
Wynn-Williams racconta che, nel pieno della crisi, la piattaforma disponeva di soli due moderatori che parlassero birmano, entrambi basati a Dublino; sospetta inoltre che uno di loro favorisca di fatto i contenuti pro-giunta, mentre segnala come “hate speech” i post di attivisti per i diritti umani. Le sue preoccupazioni, scrive, vengono respinte con frasi del tipo “Myanmar non è una priorità per l’azienda”.
Qui il tema non è solo politico, ma morale: la “carelessness” non è un complotto malvagio, ma una combinazione tossica di ignoranza, provincialismo americano, delirio di onnipotenza.
Trump, Cambridge Analytica e Joel Kaplan
Il memoir dedica molte pagine anche all’elezione di Donald Trump nel 2016 e alla gestione dello scandalo Cambridge Analytica.
Wynn-Williams descrive un’azienda che arriva alle elezioni convinta di essere il simbolo della modernità progressista e che si scopre improvvisamente accusata di aver favorito un candidato che l’establishment tech disprezza. Il panico interno si traduce in riunioni infinite, rimpalli di responsabilità, dichiarazioni pubbliche che minimizzano il problema.
Figura chiave è Joel Kaplan, l’uomo forte dei rapporti con il Partito repubblicano, che nel libro appare come un personaggio quasi caricaturale: “un repubblicano duro e puro”, più interessato a proteggere i rapporti con Washington che a interrogarsi sull’impatto globale delle decisioni aziendali.
Un memoir che si legge come un techno-thriller
“Darkly funny and genuinely shocking”
Sul piano letterario, “Careless People” è stato accolto con toni in parte entusiastici, in parte scettici.
Jennifer Szalai, sul New York Times, ha definito il libro “darkly funny and genuinely shocking” (un ritratto brutale e dettagliato di una delle aziende più potenti del mondo), sottolineando il modo in cui Wynn-Williams alterna scene quasi comiche – dirigenti che giocano con droni in open space futuristici – a passaggi davvero agghiaccianti sulle conseguenze reali delle loro decisioni.
Il Financial Times parla di “jaw-dropping account”, un racconto a tratti “da far cadere la mascella”, che rende evidente come “il desiderio di crescere a tutti i costi sia diventato la bestia che divora la creatura di Zuckerberg”.
Per Stuart Jeffries, che lo recensisce sul Guardian, il libro somiglia a una versione distopica del romanzo “Microserfs” di Douglas Coupland: la storia di giovani entusiasti della tecnologia che si svegliano, troppo tardi, in una specie di setta diabolica capace di decidere il destino di elezioni e di interi Paesi.
Il Guardian Bookshop lo presenta ai lettori con una formula efficace: “scioccante e darkly funny, ‘Careless People’ ti concede un posto in prima fila davanti alle decisioni che stanno plasmando il nostro mondo – e alle persone che le prendono. Benvenuti su Facebook”.
“Il libro su Facebook che aspettavo da dieci anni”
Chi segue da vicino le vicende di Meta è stato ancora più esplicito. Jason Koebler, giornalista tech, ha scritto su 404 Media che “Careless People” è “il libro su Facebook che ho voluto per un decennio”, perché finalmente mette insieme, in un’unica narrazione, frammenti di scandali che negli anni erano emersi separatamente sulla stampa.
Altri, però, invitano a ridimensionare l’entusiasmo: Katie Notopoulos, su Business Insider, fa notare come “i momenti più devastanti del libro fossero già stati riportati dai media”, suggerendo che il vero valore del memoir non stia tanto nelle rivelazioni inedite quanto nella capacità di dare una forma narrativamente coinvolgente a fatti sparsi.
Sabhanaz Rashid Diya, ex responsabile delle policy di Meta in Bangladesh, in una recensione per Rest of World definisce il libro “un’impresa coraggiosa”, ma critica Wynn-Williams per non aver riconosciuto fino in fondo la propria complicità: “glissa sulla sua indifferenza di fronte agli avvertimenti che arrivavano da policy maker, società civile e team interni fuori dagli Stati Uniti riguardo ai danni reali che Facebook stava infliggendo a intere comunità”.
Il tentativo di censura e l’effetto Streisand
Il bavaglio e la classifica dei bestseller
Una parte importante della storia di “Careless People” si svolge fuori dal libro. Pochi giorni prima dell’uscita, Meta porta Wynn-Williams in arbitrato, sostenendo che il memoir viola gli accordi di non-disparaging firmati al momento del licenziamento. Un arbitro dell’American Arbitration Association stabilisce che l’autrice non possa “rilasciare dichiarazioni denigratorie sull’azienda o sui suoi dirigenti”, di fatto vietandole di promuovere il libro in interviste e presentazioni.
Macmillan, l’editore, annuncia che ignorerà il provvedimento; il caso rimbalza ovunque sui media, dai quotidiani americani a quelli europei. Michelle Goldberg, in un editoriale sul New York Times, scrive che “la goffa tentata censura di Meta finirà per convincere più persone a leggere il libro”, facendo notare quanto la reazione dell’azienda contraddica le sue dichiarazioni pubbliche a favore della libertà di espressione.
È esattamente quello che succede: nel giro di due settimane “Careless People” vola in cima alla classifica dei bestseller del New York Times e le vendite esplodono anche nel Regno Unito, dove The Guardian parla apertamente di effetto Streisand.
Dalla pagina al Senato
L’eco del libro arriva fino a Washington: nell’aprile 2025 Wynn-Williams viene chiamata a testimoniare davanti alla commissione Giustizia del Senato, in un’audizione dal titolo non proprio neutro, “A Time for Truth”. Davanti ai senatori, ribadisce di aver visto Facebook lavorare “hand in glove”, mano nella mano, con il governo cinese per sviluppare strumenti di censura e di controllo dei dati.
Il memoir entra così – letteralmente – negli atti di un’indagine parlamentare su Meta. È il segno di un cambio di percezione: non stiamo più parlando solo di “like” e foto delle vacanze, ma di un’infrastruttura che influenza geopolitica, democrazia, diritti umani.
I punti ciechi di “Careless People”
La prospettiva dell’insider privilegiata
Le critiche più convincenti non riguardano tanto la veridicità dei fatti – Meta si è limitata a definire il libro “un miscuglio di accuse false e informazioni superate”, senza però smentire nel dettaglio molte delle singole scene – quanto il punto di vista.
Wynn-Williams racconta il mondo da una posizione estremamente privilegiata: donna, sì, ma bianca, occidentale, diplomatica, con accesso diretto ai vertici del potere. È vero che subisce umiliazioni, ostracismo, infine il licenziamento; ma resta pur sempre una protagonista, non una vittima di quelle politiche sul campo.
Molti problemi che descrive – dalle conseguenze degli algoritmi in Myanmar alla manipolazione delle elezioni – vengono visti soprattutto dal lato di chi deve “gestire la crisi” nelle conference room di Menlo Park, non da quello di chi subisce la violenza nei villaggi o nei feed polarizzati.
Un racconto che si ferma un passo prima dell’auto-accusa
Diya e altri recensori fanno notare che l’autrice non affronta fino in fondo la domanda più scomoda: perché ci è voluto così tanto tempo per capire che il sistema era irrecuperabilmente marcio? Perché, pur avendo una posizione di potere, non ha alzato la voce prima, o non ha lasciato l’azienda anni prima?
Wynn-Williams accenna a sensi di colpa, alla vergogna che l’ha spinta infine a scrivere; ma spesso la sua consapevolezza sembra emergere ex post, quando ormai la carriera a Facebook è finita. È il limite strutturale di molti memoir da whistleblower: per quanto onesti, non possono che essere anche un tentativo di auto-assoluzione.
Detto questo, proprio questa ambivalenza rende il libro interessante: non abbiamo una narratrice eroica, ma una persona che ha creduto nella missione dell’azienda, se n’è innamorata, l’ha difesa a lungo, e che solo dopo una serie di delusioni e umiliazioni personali trova il coraggio (o la possibilità) di raccontare cosa ha visto.
Perché vale la pena leggerlo, anche se non usiamo Facebook
A questo punto la domanda è quasi inevitabile: abbiamo davvero bisogno di un altro libro per farci dire che i social sono cattivi?
La risposta – scomoda ma onesta – è sì. Non perché “Careless People” riveli una verità assolutamente inedita, ma perché mette insieme, in una narrazione compatta e a tratti avvincente, ciò che negli ultimi dieci anni abbiamo visto apparire in forma di articoli sparsi, leaks, report:
- le complicità con regimi autoritari, dalla Cina alla Myanmar;
- il ruolo nella manipolazione di processi democratici, dalla Brexit a Trump;
- la cultura tossica interna, fatta di sessismo e impunità per i vertici;
- la leggerezza con cui si sperimentano prodotti che possono danneggiare la salute mentale di adolescenti e comunità vulnerabili.
La forza del libro sta nel tono: non c’è tecnicismo, non c’è retorica dell’indignazione, ma una voce che oscilla fra ironia amara e dolore sincero. Il Guardian ha parlato di “ex discepola che toglie l’amicizia a Facebook”, e l’immagine è perfetta: Wynn-Williams non è venuta al mondo per odiare i social; al contrario, li ha amati abbastanza da volerci lavorare.
Per chi lavora nella comunicazione, nella politica, nell’editoria, leggere “Careless People” significa fare i conti con la parte del proprio lavoro che passa – volenti o nolenti – attraverso le piattaforme di Meta. Per chi è semplicemente un utente, è un promemoria: dietro ogni like e ogni “ci vediamo sui social” ci sono scelte concrete prese da persone in carne e ossa, spesso più interessate alla propria carriera che al bene comune.
Alla fine del libro, Wynn-Williams non propone soluzioni miracolose. Non c’è un capitolo “Ecco come salvarci da Facebook”. C’è, piuttosto, la consapevolezza – dolorosa e un po’ tardiva – che il primo passo per cambiare qualcosa sia smettere di essere “careless people”: smettere di dare per scontato che la tecnologia sia neutra, che qualcuno “più competente di noi” stia vegliando sul sistema.
È forse il lascito più utile del memoir: ricordarci che, quando deleghiamo senza far domande, stiamo consegnando la nostra attenzione e la nostra fiducia a persone che, troppo spesso, “se ne fregano”.