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”Caduto fuori dal tempo”, una lettera d’amore da David Grossman al figlio Uri

Una delle letture più scomode che mi sia capitato di affrontare negli ultimi tempi. Credo occorra aver vissuto un'esperienza (una perdita), se non simile, per lo meno affine a quella dello scrittore per comprenderlo pienamente: è un libro di una sensibilità talmente pura che leggere diventa quasi una sofferenza fisica. ''Caduto fuori dal tempo'' è una storia, ma più di questo è una lettera d'amore, da David Grossman per Uri
Pubblichiamo la recensione di Maria Di Biase per il coinvolgimento con cui sa rendere l’amore e la sofferenza per il figlio scomparso raccontati dall’autore attraverso i suoi personaggi

Vennero degli uomini, di notte, portavano una notizia.

Una delle letture più scomode che mi sia capitato di affrontare negli ultimi tempi. Credo occorra aver vissuto un’esperienza (una perdita), se non simile, per lo meno affine a quella dello scrittore per comprenderlo pienamente: è un libro di una sensibilità talmente pura che leggere diventa quasi una sofferenza fisica. “Caduto fuori dal tempo” è una storia, ma più di questo è una lettera d’amore, da David Grossman per Uri, suo secondogenito, ucciso in missione da un missile anticarro sul fronte libanese nel 2006.

L’amore, come e più del dolore, trapela in ogni virgola: un sentimento così intenso e totale che, anche nello scenario più tragico, emerge in modo assoluto.

Un uomo e una donna sono costretti a condividere un silenzio iniziato cinque anni prima, in concomitanza alla morte del figlio. Non parlano da allora.
La storia descritta nel romanzo inizia la notte in cui l’uomo, senza una motivazione apparente, si alza di scatto e si rivolge alla moglie:

            — Devo andare.
            — Dove?
            — Da lui.
            — Dove?
            — Da lui, laggiù.
            — Dove è successo?
            — No, no. Laggiù.
            — Cos’è laggiù?
            — Non lo so.
            — Mi fai paura.

L’uomo invita la moglie a seguirlo ma lei rifiuta spiegandogli che non si può andare laggiù, che non esiste nessun laggiù, che tra qui e là è il confine del mondo.
Non esiste però ragione che possa placare la disperazione e così l’uomo si avvia alla porta, esce di casa e cammina. Prima intorno alla casa.  Poi intorno al quartiere. Poi intorno al villaggio.

            Un passo,
            un altro passo,
            un altro ancora,
            cammino
            verso di te.

Lo scriba delle cronache cittadine, incaricato dal duca del luogo di appostarsi dietro case e recinzioni per annotare gli accadimenti del villaggio, si accorge dell’uomo e ne scrive; scrive di lui, del suo incedere continuo. E non solo.
Altri abitanti vivono in pena accomunati dalla stessa tragica esperienza: la perdita di un figlio.
Così la levatrice e il ciabattino, così la riparatrice di reti, così il professore di matematica che disegna calcoli e formule sulla mura di casa, così il duca stesso, così la moglie dello scriba, così lo scriba stesso.
E così centauro (soprannome dovuto al fatto che, dalla morte di suo figlio, non riesce più a scrivere come un tempo e non ha la forza di alzarsi dalla scrivania al punto tale da considerare la stessa come parte integrante di sé).
È proprio il centauro che ci racconta la storia di tutti gli altri abitanti che, accecati da quello strazio condiviso, decidono di seguire l’uomo che cammina in quel percorso circolare senza fine e senza destinazione.
I viandanti, così verranno chiamati.

            Camminiamo, non possiamo
            fermarci. Il corpo
            non lo permette, le gambe
            sono deboli, il respiro
            è un po’ affannato, eppure il corpo
            non vuole fermarsi, spinge
            dall’interno, sempre più
            avanti…

Lo scriba, martoriato dal dolore per la morte di sua figlia, si unisce alla processione e riporta fedelmente sul taccuino le urla strazianti e i respiri affannosi dei genitori senza pace.

            Presto, figlio mio, passa attraverso tutto questo,
            c’è tempo solo per sfiorare,
            dura così poco una simile
            illusione, tocca, accarezza
            un corpo caldo, una donna

Procedono i viandanti, alla ricerca del confine del mondo, dilaniati a fasi alterne dalla voglia di vivere e dalla speranza di morire.

            E devo accomiatarmi
            da te, gli dico pure.
            Non fraintendermi (avverto
            nella mia carne
            la fitta di dolore che lo ha colpito): allontanarmi
            solo quel tanto necessario
            perché il petto possa allargarsi
            in un respiro
            completo.

La presenza di Grossman in quel corteo lacerato è tangibile.
Al punto tale che, all’ultima pagina, e per bocca del centauro, lo scrittore conclude.

            È solo che il cuore
            mi si spezza,
            tesoro mio,
            al pensiero
            che io…
            che abbia potuto…
            trovare
            per tutto questo
            parole.

Un amore, fuori dal tempo.

27 gennaio 2013

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