Il rigore, da uomo di legge responsabile. E l’ironia, quella capacità di porre tra sè e le cose (o i gesti, le scelte, le posizioni…) quella distanza che consente critica, ragionamento spiazzante, ipotesi di disvelamento di una migliore e più profonda verità. Un buon giudice, insomma, consapevole della forza e dei limiti della legge, in una relazione dialettica tra norma e giustizia. E non un pedante moralista giudicante.
Ecco cos’era Paolo Borsellino, per noi giornalisti di Palermo (lavoravo a L’Ora, in quei primi anni Ottanta della “guerra di mafia”) che cercavamo di capire i raccontare fatti e retroscena di una grande, terribile mattanza di corpi e d’anime. Era un magistrato che non smerciava carte riservate e faceva distorto uso di indiscrezioni e rivelazioni, ma aiutava semmai (come Giovanni Falcone, come gli altri bravi magistrati del pool palermitano) a capire contesti e relazioni, persone e personaggi, ambienti e rapporti, invitando i cronisti a rileggere atti di inchieste giudiziarie e sentenze, a trovare il senso più profondo di alleanze e conflitti tra le cosche mafiose, certi ambienti delle istituzioni e della politica, l’”area grigia” dei complici e dei conniventi.
La giustizia non è uno scoop, un’operazione mediatica, infatti. Ma il prodotto di una funzione istituzionale. E l’effetto di una scelta civile e culturale. Una lezione importante, dunque, quella di Borsellino. Che resta, valida e vitale, a dispetto del tempo, delle distorsioni di certe indagini, dei depistaggi, delle banalizzazioni, delle retoriche. Le persone serie, d’altronde, non sono mai banali.
Antonio Calabrò
19 luglio 2014
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