Tre giorni a Trieste possono sembrare una parentesi. In “Alma” diventano un ritorno breve, obbligato. C’è un’eredità improvvisa, c’è un padre che lascia più domande che oggetti, c’è una città che vive di vento, porto, confine, memoria. Trieste qui agisce, mette davanti alla parola “casa”.
Manzon attraversa la Storia senza trasformarla in “fondale importante”. La Storia entra in cucina, nei rapporti familiari, nelle frasi trattenute, nei legami che sembravano lineari e rivelano una lotta; ma soprattutto entra in un bisogno elementare, quello che il lettore riconosce subito: sapere da dove si viene, per smettere di vivere con la sensazione di dover sempre giustificare la propria presenza.
Un libro premiato, ma con un peso preciso
“Alma” ha raccolto riconoscimenti importanti: Campiello 2024, Alassio Centolibri 2024, Premio Stresa di Narrativa, e la finale al Premio Lattes Grinzane. Il dato del Campiello dice anche qualcosa di concreto: Manzon ha vinto con 101 voti della Giuria dei Trecento, su 287 schede inviate.
La bacheca, però, da sola non spiega il libro. Conta di più la sua sostanza: “Alma” tiene insieme materiali che in narrativa spesso si respingono: intimità e geopolitica, famiglia e frontiera, infanzia e guerra, lingua domestica e lingua pubblica; e li fa convivere senza farli diventare “tema”.
Trieste come punto di vista: la città che costringe a definire “casa”
Trieste in “Alma” è un punto di vista obbligato per osservare un fatto universale, spesso doloroso, cioè il tentativo di capire chi siamo e dove abitiamo davvero. Anche le presentazioni del libro insistono su questo: identità, memoria e storia familiare che si cercano, si urtano, si perdono e poi tornano, con Trieste come lente.
Alma rientra e ritrova luoghi che somigliano a stanze mentali: la casa dell’infanzia, il viale dei platani, il Carso. Ritrova anche persone che restano nodi vivi, non “comparse del passato”. Il romanzo lavora così: invece di chiederti di ricordare, si porta addosso quella sensazione fisica in cui un posto riconosce e, nello stesso gesto, contraddice.
Un padre sfuggente, un’eredità che chiede conto
Il padre di Alma è una figura che vive di sottrazioni: entra ed esce dal quadro, attraversa confini, lascia dietro di sé una zona d’ombra che Alma ha imparato a ignorare per riuscire a crescere.
Alma torna per riscuotere l’eredità di un uomo “senza radici”, ostile al culto del passato; riemergono tracce di lavoro oltreconfine, “all’ombra del maresciallo Tito”, e quel soprannome ha già la durezza di una ferita.
L’eredità, qui, non ha il tono del regalo. È un invito forzato alla ricostruzione: non tanto di “che cosa è successo”, quanto di “che cosa Alma ha scelto di non vedere” per poter andare avanti. Manzon tratta la famiglia come una forza geologica: sposta la terra sotto i piedi e poi pretende che tu costruisca sopra una vita stabile.
Il legame che taglia
Dentro i tre giorni triestini c’è Vili, definito come “un fratello, un amico, un antagonista”: la persona da cui Alma deve ricevere qualcosa che le pesa già prima di prenderlo. Il triangolo emotivo (Alma, il padre, Vili) è il centro più inquieto del romanzo, perché mette a nudo una verità semplice: alcuni legami non finiscono, cambiano forma. Diventano debito, rancore, gratitudine, dipendenza, nostalgia. E quando tornano, tornano con tutte le versioni di noi che avevamo lasciato sospese.
Anche la presenza della Pasqua ortodossa come orizzonte temporale conta: funziona come soglia, come scadenza emotiva. Non “colore locale”, ma pressione simbolica: arriva un punto in cui l’equilibrio chiede una risposta.
La scrittura: intensità controllata, concretezza
I romanzi che lavorano con identità e memoria rischiano spesso una lingua gonfia, tutta concetti e poca materia. In “Alma” accade altro: la scrittura si apre quando serve, e lo fa con controllo. Alcune schede critiche parlano di “vertigini liriche” e di “vividezza rara” nel restituire l’intensità dei temi: la parola che resta davvero utile è proprio “vividezza”.
Perché qui il confine è un’abitudine, la Storia è un modo di stare al mondo, la memoria è frizione. Non un ricamo.
Cosa vede la critica
Paolo Rumiz, in un intervento dedicato al romanzo, usa un’immagine efficace: parla di “labirinti mentali” e delle inquietudini della frontiera orientale d’Italia, in un luogo dove “la geografia ha la meglio sulla storia”. L’intuizione, al di là della formula, coglie un punto: in “Alma” la geografia sposta le vite, le deforma, le costringe a scegliere lingua, appartenenza, silenzi.
Ed è questo che rende il romanzo leggibile anche per chi ha poca familiarità con Trieste o con i Balcani: perché la frontiera diventa un modello emotivo. Esistono confini che vivono dentro le famiglie, dentro le amicizie, dentro le storie che ci raccontiamo per restare in piedi.
Come viene letto fuori
Quando “Alma” circola in contesti internazionali, spesso viene presentato come un libro capace di tenere insieme più piani senza perdere presa narrativa. Un articolo in inglese su Arcipelago Adriatico (che riprende un pezzo collegato a Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa) parla di un’opera matura, articolata, capace di muoversi dentro un magma di materiali. Un’altra scheda critica insiste su un’idea affilata: che cosa succede quando la geografia “trionfa” sulla Storia, quando i confini, che siano ideali o materiali, finiscono per decidere le persone.
Anche qui non serve aderire a ogni formula: basta cogliere il nucleo. “Alma” tratta l’appartenenza come una forza che seleziona, che mette alla prova, che chiede un prezzo.
Il nucleo del romanzo
Sotto i premi e sotto Trieste, sotto l’eredità e sotto i nomi propri, “Alma” lavora su un bisogno quasi imbarazzante da ammettere: il bisogno di avere una storia coerente su se stessi. Dire “questa è casa” e sentirlo vero. Guardare il passato senza vergogna. Immaginare il futuro senza la sensazione di scappare.
Il romanzo mostra che le risposte arrivano quando si smette di cercare una versione “pulita” delle origini. La memoria si muove, cambia insieme a noi, a volte ci contraddice. E i legami più decisivi spesso arrivano prima della scelta: proprio per questo presentano il conto.
Forse “Alma” risuona così tanto per questo: mette in scena una cosa che molti vivono senza formularla. Si torna nei luoghi quando la vita chiede un chiarimento. Quando una mappa interiore, piegata male per anni, pretende finalmente di essere riaperta.
Un romanzo sulla memoria individuale e collettiva
Non è semplice scrivere un romanzo in cui la componente avventurosa si mescoli a quella emotiva e psicologica. Nel suo “Alma”, Federica Manzon riesce in un’impresa complessa: la trama è avvincente e appassionante.
Ma lo sono anche le sensazioni, i sentimenti, gli stati d’animo raccontati all’interno delle pagine. In un romanzo che descrive una Trieste di confine, rivive il ricordo di una terra martoriata dalla guerra e troppo spesso dimenticata dalle cronache: la Jugoslavia. Manzon le ridà vita in modo accattivante e moderno, attraverso la storia individuale della giovane Alma.
Sebbene il romanzo sia frutto dell’immaginazione dell’autrice – Federica Manzon lo esplicita all’inizio dell’opera -, esso racconta una storia collettiva vera e dolorosa, che si dipana attraverso i ricordi della giovane Alma:
Sua madre era stata una bambina sopraffatta dagli armadi organizzati con rigore militare, dalla biancheria di cotone rigido riposta tra sacchetti di lavanda e scaglie di sapone di Marsiglia, dai divani abbinati al colore dei tappeti e delle pareti, soffocata dall’ordine decorativo e dal buon gusto, e provava quindi una spavalda attrazione per ogni forma di instabilità, di patologica irrequietezza […]
Chi è Federica Manzon
Nata a Pordenone il 2 ottobre 1981, l’autrice di “Alma” è laureata in Filosofia contemporanea. Vive fra Milano e Trieste, da dove collabora con diverse testate giornalistiche. È stata curatrice del festival letterario Pordenonelegge e ha lavorato come editor per Mondadori nella sezione dedicata alla narrativa straniera.
Ha all’attivo cinque romanzi: con il secondo, “Di fama e di sventura”, è già stata finalista al Premio Campiello e ha ottenuto il Premio Rapallo Carige per la donna scrittrice. Negli anni, ha curato tre importanti antologie. La più recente si intitola “I mari di Trieste”, è edita da Bompiani ed è stata pubblicata nel 2015.
