Disegnando un 8 si parte e si arriva sempre nello stesso punto. Eppure, nulla è rimasto immobile. Ogni passaggio ha lasciato una traccia, una trasformazione, l’inizio di una storia. È da questo gesto continuo, da questo simbolo che fonde movimento e ritorno, che nasce 8tto edizioni una casa editrice che fa dell’esplorazione la sua direzione e dell’identità il suo orizzonte.
Alla casa editrice interessano le narrazioni che si muovono: nello spazio, nel tempo, nell’interiorità umana. Libri che respirano, che fanno respirare. Storie capaci di raccontare l’infinitamente vicino e l’infinitamente lontano. Testi che si piegano, si arrotolano, si estendono come la forma dell’infinito, per ricordarci che ogni lettura è un ritorno e insieme una scoperta.
Il viaggio parte da qui: da scrittori anglofoni: inglesi, scozzesi, irlandesi, inediti o dimenticati, ma non mancano figure del panorama femminile dimenticato, capaci di rompere gli schemi tradizionali e aprire varchi nella letteratura contemporanea. Preferiscono l’esordio alla certezza, il rischio alla replica, la lingua che si trasforma a quella che rassicura. Scelgono romanzi e racconti che sfidano i confini, sperimentano, deviano, sorprendono.
8tto edizioni: Scopriamo la casa editrice tra novità e perle editoriali
Come l’8 che disegniamo con una matita senza mai staccarla dal foglio, anche le nostre storie formano un circuito vivo, ininterrotto. Storie che parlano di esseri umani in movimento, perché muoversi, nello spazio o dentro sé, è il nostro modo di esistere. 8 è il numero atomico dell’ossigeno: ci farà respirare. 8tto è il nome che abbiamo scelto per attraversare la letteratura con occhi spalancati e fiato sospeso.
Alcuni romanzi selezionati e consigliati:
“Tutte chiacchiere” di Silvia Falcione – 8tto edizioni
“Tutte chiacchiere” nasce come un invito a riascoltare ciò che la Storia ha provato a zittire. Il libro, pubblicato da 8tto Edizioni, ci accompagna nella seconda metà dell’Ottocento italiano, quando la voce delle donne era relegata BCC a un paesaggio di sussurri: il salotto, lo spazio domestico, gli angoli privati dove chiacchierare era permesso, purché non fosse troppo udibile, purché non interferisse con il grande racconto maschile della politica, della società, della cultura. Eppure, proprio in quei luoghi intimi, nasce
In “Tutte chiacchiere” si incontrano figure come Anna Maria Mozzoni, Marchesa Colombi, Matilde Serao, Contessa Lara: donne che hanno attraversato i salotti per conquistarne le uscite, trasformando la conversazione in pensiero critico, la confidenza in presa di posizione pubblica. Sono scrittrici, giornaliste, conferenziere che hanno saputo cambiare la prospettiva del loro tempo, persino quando nessuno voleva davvero ascoltarle. La voce femminile che prima restava un’eco fioca tra mura domestiche prende corpo, forma e spazio: un fenomeno culturale che anticipa il femminismo del Novecento e che merita una narrazione attenta, documentata, ma soprattutto coinvolta. E Falcione riesce proprio in questo: non scrive un manuale accademico, ma una storia viva, che restituisce le implicazioni emotive, politiche e simboliche di quelle “chiacchiere” che oggi possiamo riconoscere come una battaglia.
Silvia Falcione adotta una scrittura accessibile, che non semplifica ma chiarisce. Approfondisce l’ambiguità della parola “chiacchiera”, spesso usata per sminuire la comunicazione tra donne, e la ribalta. Se la chiacchiera era giudicata inutile, frivola, perfino dannosa per i costumi, “Tutte chiacchiere” mostra che in realtà era la culla di idee che potevano spostare equilibri sociali e culturali. In quelle discussioni, nei pettegolezzi ironici, nelle confidenze condivise tra donne, c’erano intuizioni politiche e desideri di libertà. La parola privata, appropriata e difesa, diventa un primo atto di liberazione.
Bellissima l’idea di inserire un “bugiardino” alla fine del libro: con ironia e intelligenza, Falcione offre una sorta di foglietto illustrativo per l’uso della chiacchiera, definendola “indicata per chi fa della parola orale il principio cardine da cui partire per discutere e confrontarsi su ogni tipo di argomento”. La posologia è chiara: “più volte al giorno, l’esercizio deve essere costante”. Gli effetti collaterali? “Si potrebbe tendere a parlare sempre e comunque, anche quando di fatto non si avrebbe nulla da dire.” È una trovata che sintetizza perfettamente il cuore del libro: un saggio nutritissimo di ricerca storica, ma capace di giocare, sorridere, smascherare i pregiudizi con eleganza.
“Tutte chiacchiere” affronta temi fondamentali senza pietrificarli in una narrazione museale. Racconta una storia collettiva attraverso le storie singole, i gesti quotidiani, gli scritti pubblicati e quelli rimasti nel cassetto, i salotti che diventano laboratori di futuro. Qui la memoria non è un esercizio nostalgico: è il riconoscimento di un’eredità. Perché ciò che era ancora inascoltato allora — la prospettiva femminile, oggi è essenziale per comprendere il mondo.
Il contributo critico di Roberta Cesana e Maria Vittoria Vittori arricchisce ulteriormente il volume, fornendo letture trasversali che sottolineano quanto quei passi siano stati decisivi e quanto debbano ancora continuare.
“Tutte chiacchiere” è un libro che parla al presente senza dover forzare nulla: ci ricorda che la libertà femminile nasce anche dal diritto di parlare e di essere ascoltate. E che ogni voce che sembrava marginale ha costruito una crepa nel muro del silenzio. Una crepa che è diventata ingresso, poi porta, poi piazza aperta. Se la chiacchiera ha dato inizio a tutto, questo libro le restituisce la dignità che merita.
“L’innamorata” di Contessa Lara – 8tto edizioni
“L’innamorata” è un romanzo che pulsa di passioni distorte, desideri pericolosi e una voglia disperata di libertà. La protagonista, Leona, è una donna che sfida il suo tempo e persino sé stessa: amazzone e acrobata del Circo Alhambra, simbolo di una femminilità indomabile, selvaggia, pronta ad ammaliare chiunque osi avvicinarsi troppo. Il suo è un corpo che parla, una presenza che incendia ogni sguardo. Ma dietro la brillantezza dello spettacolo si nasconde una ferita: la sua fragilità emotiva la rende vulnerabile all’amore sbagliato, quello che sembra un rifugio e invece divora.
A Roma, nella fine ottocentesca umbertina, Leona incontra Paolo Cappello, un conte affascinante e irresponsabile, seduttore egocentrico incapace di restituire ciò che riceve. Lui gioca a farsi amare, lei rischia la vita pur di meritare il suo interesse. È una dinamica feroce: una donna che dà tutto, un uomo che considera l’amore una moneta di poco valore. Quando i due si trasferiscono a Napoli, tra difficoltà economiche e barriere sociali, la passione si sbriciola rapidamente e Paolo non esita a cederla, come fosse un oggetto, all’amico ricco Gabriele Caligaris. Leona sembra trovare un riparo più solido al fianco di Gabriele: un’altra illusione, un altro compromesso.
“L’innamorata” esplora quel terreno scivoloso in cui l’amore non è salvezza ma condanna. La spirale di dipendenza affettiva si stringe sempre più, fino a un inevitabile ritorno al conte Cappello: un incontro che risveglia in lui un’ossessione malata e trascina Leona in un matrimonio tossico, dove il potere è violenza e il sentimento diventa trappola. Contessa Lara scrive di un’eroina che cade, ma che non si spezza: nella parte più oscura della sua storia, Leona riscopre una forza che credeva perduta. E quando sceglie finalmente di vendicarsi, il gesto non è solo rivalsa personale: è il recupero di ciò che il mondo ha provato a toglierle, dignità, identità, libertà.
Ciò che rende “L’innamorata” così incisivo non è solo la trama densa di colpi emotivi, ma lo sguardo dell’autrice sul corpo e sull’anima delle donne. Contessa Lara, al secolo Evelina Cattermole Mancini, conosce bene i confini soffocanti imposti alla femminilità: li ha vissuti sulla propria pelle, attraversando scandali, passioni e un epilogo tragico che l’ha resa figura pubblica chiacchierata e controversa. La sua scrittura, attenta alla psicologia femminile e al peso dei giudizi sociali, non chiede pietà: chiede ascolto. Chiede di riconoscere che l’amore può diventare arma, e che il riscatto può nascere dalle cicatrici più profonde.
La modernità del romanzo si avverte nella rappresentazione senza filtri dei rapporti di potere tra uomini e donne e nel modo in cui Leona lotta, anche quando sembra sconfitta. È una protagonista che vive sulla linea sottile tra tragedia e rinascita: simbolo di una libertà che, pur negata, si ostina a esistere.
Bellissima e intelligente l’aggiunta del bugiardino in questa edizione 8tto: un gioco editoriale che diventa sintesi del tono del romanzo. “Indicata: per chi ama i colori forti e accesi, le passioni vibranti e sorseggiare un caffè nel cuore pulsante di Napoli insieme a un conte.” La posologia raccomanda parsimonia “per evitare eccessi di sentimentalismi e assicurare un sano e concreto cinismo”. Gli effetti collaterali, invece, svelano il cuore emotivo di “L’innamorata”: “un irrefrenabile desiderio di vendicarvi nel modo più spettacolare e crudele che riusciate a immaginare.” Una definizione perfetta per un romanzo che non teme l’eccesso, perché sa che la vita reale spesso lo supera.
“L’innamorata” è un atto di denuncia e insieme una celebrazione della forza femminile: anche nell’abisso più buio, Leona sceglie di non smettere di combattere. E il suo grido, nato tra i velluti consumati dei teatri e il fumo denso dei caffè napoletani, arriva fino a noi con una lucidità che fa male e insieme libera.
“Berlino blues” di Paul Scraton – 8tto Edizioni
“Berlino blues” è un romanzo che si muove come la città che racconta: inquieto, stratificato, sempre in trasformazione. Paul Scraton ci porta in una Berlino che non è un semplice sfondo, ma un organismo vivo, un animale urbano che divora ciò che ingloba per restituirlo mutato, ricoperto di nuove storie. Un narratore senza nome vaga per locali, strade segnate dalle cicatrici della Storia, boschi che premono ai margini della città, e soprattutto per quei pub dove gli incontri sono più reali di qualsiasi monumento. Ed è proprio nell’incontro con le persone che “Berlino blues” prende forma: Annika, artista delle mappe, che restituisce alla geografia un peso emotivo; Markus, ex impiegato della Stasi, con un passato che non sa dove archiviare; Boris, l’amico di mille avventure; Charlotte, arrivata dal Canada e stregata da Berlino dopo la morte del nonno. I loro destini individuali si intrecciano in un coro di voci che restituisce l’anima frammentata della città.
È un romanzo su come i luoghi plasmano le vite: ogni personaggio porta con sé un pezzo di storia personale e collettiva, e Scraton cuce queste schegge come la città ha fatto, negli anni, con i villaggi assorbiti dal suo perimetro in espansione. La divisione della Germania, il Muro che separa ma inevitabilmente connette, la memoria che permane anche quando si tenta di cancellarla: in “Berlino blues” tutto ciò non viene spiegato, ma lasciato respirare. Il lettore lo sente attrito, movimento, vibrazione irrisolta. Il cuore di questo libro sta nel suo sguardo: malinconico ma mai nostalgico, critico senza cinismo, capace di far sentire il lettore trascinato nella città come fosse già per strada. Non è un caso se il bugiardino del romanzo suggerisce di assumerlo “una o due volte al giorno, preferibilmente con una buona birra di accompagnamento” e avverte tra gli effetti collaterali “un irrefrenabile desiderio di partire alla scoperta di luoghi fisici… in cui imbattersi in un viaggio senza una meta precisa”. Perché è così che funziona: dopo poche pagine ci si ritrova su un treno della U-Bahn, di notte, con il fiato che sa di luppolo e pensieri che scorrono come binari.
Scraton sceglie una narrazione corale, ma al centro resta sempre Berlino, fragile e feroce, colta nel suo presente continuo. L’autore non ha bisogno di grandi svolte drammatiche: gli basta seguire una camminata, una conversazione, un ricordo improvviso per suggerire quanto complesso sia essere vivi in una città costruita sulla perdita. Eppure, leggendo “Berlino blues”, si percepisce una cura profonda per l’umano: la compassione per chi prova ad andare avanti, nonostante tutto. È questa la forza del romanzo. Non ti dà risposte facili, ti chiede di restare dentro la contraddizione. Ti dice che per conoscere davvero un luogo devi perderti almeno una volta, e accettare che i confini della memoria siano mobili quanto quelli di una metropoli in divenire.
“Berlino blues” è un libro per chi non sa resistere davanti a una mappa e sente già l’urgenza di mettersi in cammino; per chi soggiorna nei margini, nelle storie che non finiscono mai davvero; per chi ama i romanzi che non cercano di sedurre, ma di lasciare cicatrici. Dopo averlo letto, si prova la sensazione precisa e testarda che la città ci abbia chiamati: e che ad aspettarci, da qualche parte nel buio, ci sia un pub, una birra, una storia da ascoltare.
“La rivincita del maschio” di Amalia Guglielminetti – 8tto Edizioni
“La rivincita del maschio” è un romanzo che palpita del desiderio e della rovina del suo tempo: la Liguria dei primi del Novecento diventa la scenografia di una danza di seduzione dove l’amore è un’arma e la libertà un veleno da dosare con attenzione. Il barone Ugo di sant’Agabio è un uomo che cerca di sfuggire alla noia attraverso il gioco, il piacere e una mondanità che gli sembra infinito divertimento. Quando incontra Reré Lajoie, canzonettista di cabaret, moderna fino all’insolenza e capace di fumare, bere e sedurre con lo stesso gesto languido, Ugo si convince di aver trovato un nuovo senso alle sue giornate, una musa da plasmare per compiacersi della propria virilità. Ma in “La rivincita del maschio” niente è mai come appare: Reré non è un premio da conquistare, è una donna che si sottrae alle regole del possesso maschile, pronta a ribaltare la partita.
La loro relazione è un incendio che brucia troppo veloce, un divertimento destinato a finire nel momento stesso in cui comincia, e il colpo finale arriva con Nora, la cugina di Ugo. Timida, pura, l’antitesi vivente di Reré, Nora incarna la donna che la società vuole: docile, desiderosa di compiacere, priva di voce se non attraverso lo sguardo con cui si consegna al suo uomo. Ugo cede. E nella sua fuga dalla complessità femminile, sceglie ciò che crede la tranquillità: una felicità addomesticata, priva di scintille ma rassicurante. Solo che la donna messa da parte non dimentica. Il romanzo si avvita qui nella spirale avvelenata della vendetta: Reré non aspetta, agisce. Trascina i protagonisti in una notte torbida, lisergica, dove tutte le regole saltano, e il corpo femminile diventa ancora una volta campo di battaglia per il trionfo dell’orgoglio maschile. Ma a quale prezzo?
“La rivincita del maschio”, apparso inizialmente a puntate sul “Secolo Illustrato” e poi ripubblicato e ampliato nel 1923, suscitò scandalo e un’accusa di oltraggio al pubblico pudore: una pubblicità clamorosa, figlia di un’epoca che non sapeva dove collocare una donna libera anche nella scrittura. Guglielminetti conosce bene la modernità inquieta della Belle Époque e la plasma in figure che non permettono al lettore di restare neutrale. Ugo è fragile sotto la maschera virile, Reré una dominatrice che non chiede permesso, Nora il prodotto di un’educazione soffocante che la condanna alla sconfitta prima ancora di cominciare a vivere.
Il bugiardino del romanzo avverte di assumere “una volta al giorno, dopo i pasti”, e mette in guardia dal rischio di “sfasamenti temporali e momentanea perdita della ragione”. Effetti collaterali? “Un’irrefrenabile desiderio di giocare al Casinò, stabilire la propria residenza in un grande albergo in Riviera e chiamare tutti, ma proprio tutti!, barone e baronessa.” È un modo ironico per dire che questo libro è un viaggio nel vizio elegante di un’Italia che crediamo di conoscere, ma che la scrittura conturbante della sua autrice rende sorprendente. Perché con “La rivincita del maschio” ci si accorge che i meccanismi del desiderio, potere, possesso, paura, non sono poi così lontani dal presente.
Amalia Guglielminetti non si limita a raccontare una storia scandalosa: mette a nudo la vulnerabilità maschile e l’efficacia di una donna che sceglie, anche quando la società non glielo permette. La sua modernità è incendiaria: nel modo in cui smonta il mito della femme fatale, dimostrando che spesso la crudeltà che le viene imputata non è altro che la difesa estrema contro chi vorrebbe tenerla in gabbia.
“La rivincita del maschio” è un romanzo da scoprire e discutere, ideale per chi ama la Belle Époque ma non la osserva con tenerezza, per chi sa che il passato non è mai davvero passato, per chi vuole leggere una donna che scrive della libertà femminile prima che fosse un diritto. E forse proprio qui sta la vera rivincita: non del maschio, ma di una scrittrice che oggi torna finalmente a occupare il posto che merita nella letteratura italiana.
“Il maggiore e Cher Ami” di Kathleen Rooney – 8tto Edizioni
“Il maggiore e Cher Ami” è uno di quei libri che ti sorprendono perché decidono di raccontare una storia vera da un’angolazione che non avresti immaginato. Qui gli eroi della Prima guerra mondiale non sono solo uomini temprati dal fango e dal fuoco, ma anche un piccione viaggiatore: Cher Ami, piccolo corpo fragile con una tenacia capace di piegare il destino. Kathleen Rooney intreccia le voci del Maggiore Charles Whittlesey e di questo uccello che nel 1918 salvò la vita al Battaglione Perduto, inchiodato tra le Argonne senza più via di scampo, sotto il fuoco nemico e quello, tragico, degli alleati.
Il romanzo dà respiro a due vite ferite, cambiate per sempre. Da un lato Whittlesey, decorato e celebrato al rientro in patria, ma tormentato da un’ombra che nessuna medaglia riesce a cancellare. Dall’altro Cher Ami, che porterà la sua gloria fino allo Smithsonian Institution, monumento alla memoria degli uomini che ha salvato. Rooney racconta cosa accade quando l’eroismo finisce sulle prime pagine dei giornali, ma la guerra resta tatuata dentro: un trauma che non si scuce, un’eco che non smette di bussare alla mente.
La scrittura di Rooney vibra in bilico tra documento storico e invenzione poetica. Non si limita a ricostruire i fatti: guarda negli interstizi, nei silenzi, nei simboli. L’alternanza di punti di vista, quello umano e quello animale, apre il racconto a una dimensione inaspettata, quasi metafisica: che cosa significa essere eroi quando si è costretti a sopravvivere al proprio eroismo? È davvero un trionfo, o una condanna?
In filigrana, si legge un discorso più ampio sulla memoria: cosa tratteniamo, cosa rimuoviamo, che cosa scegliamo di ricordare di noi stessi. E soprattutto: chi decide il valore del sacrificio? Il Maggiore appare come una figura spezzata, che porta il peso di un gesto salvifico diventato troppo grande. Cher Ami, invece, incarna la purezza di un atto senza consapevolezza, l’istinto di andare avanti anche quando tutto sanguina.
“Il maggiore e Cher Ami” è un romanzo che ci costringe a fermarci davanti a un’altra verità della guerra: gli eroi non sono statue di bronzo ma esseri vulnerabili, pieni di paure, che spesso non reggono il mito che viene cucito loro addosso. Rooney rende il lettore partecipe di questo paradosso con delicatezza e profondità emotiva, evitando retorica e pietismo. Una storia che commuove senza cedere alla lacrima facile, che illumina senza tradire la complessità dei fatti reali.
È un inno silenzioso al coraggio in tutte le sue forme: quello di un soldato e quello di un uccellino. Due vite che si sfiorano per un attimo e che per sempre restano unite nella memoria, perché la grande Storia, a volte, è custodita nelle ali minuscole di chi nessuno avrebbe creduto capace di salvarla.
“Humoursex. Pratiche di umorismo nelle scrittrici di fine Ottocento” di Matilde Serao – 8tto edizioni
è uno di quei libri che arriva per ribaltare convinzioni troppo radicate: l’idea che la letteratura femminile dell’epoca fosse esclusivamente sentimentale, devota, confinata al privato e al melodramma. Invece, la raccolta curata da Maria Vittoria Vittori ci mostra un panorama vivace e sorprendente, in cui ironia e ribellione diventano armi affilatissime nelle mani delle autrici italiane tra la fine del XIX secolo e i primi del Novecento.
Una risata sovversiva, perché quando ridono le donne, di solito trema qualcosa.
Il volume riunisce scrittrici come Regina di Luanto, la Marchesa Colombi, Contessa Lara, Annie Vivanti, Matilde Serao, e Amalia Guglielminetti: penne note, altre dimenticate, tutte accomunate da un gesto di disobbedienza. Raccontano il corteggiamento, il matrimonio, l’adulterio e il desiderio non per aderire ai canoni, ma per smascherarli. La risata diventa lo strappo nella tela delle convenzioni. È un gesto letterario che reclama il diritto alla complessità del femminile, contro chi lo voleva docile e immobile.
Siamo nella seconda metà dell’Ottocento: la donna italiana è ancora definita “provincia irredenta”, da conquistare e controllare. Ma alcune autrici iniziano a praticare un umorismo che non consola, non edulcora: morde. È qui che “Humoursex. Pratiche di umorismo nelle scrittrici di fine Ottocento” trova il suo senso più forte: riportare alla luce una genealogia della satira femminile che si intreccia con il femminismo nascente, con il giornalismo impegnato, con la volontà di farsi sentire nel mondo pubblico, non più relegate al salotto buono.
Tra i racconti spicca la Checchina di Matilde Serao, protagonista ostinata e moderna, pronta a giocarsi la propria reputazione nella speranza di un riscatto che arriva sempre a un soffio, in uno spazio di tragicomica sospensione. È il racconto della donna che sfiora la libertà, ma è intrappolata da regole che non ha scritto lei. E proprio questo spaesamento, questa tensione farsesca verso una meta che si sposta continuamente, diventa satira sociale lucidissima.
Annie Vivanti, invece, offre personaggi che vivono la carne e il desiderio senza vergogna, sovvertendo l’idea borghese della donna come custode del pudore. La sua ironia è una dichiarazione politica: non si ride per alleggerire, si ride per far esplodere le contraddizioni.
E poi c’è tutto l’immaginario mondano, la “Belle Époque” fatta di gioco, seduzione e scandalo: terreno perfetto perché le scrittrici si approprino del cliché femminile della civetteria e lo rivoltino dall’interno. Il risultato? Una risata che mette a nudo chi guarda, più che chi è guardata.
Il bugiardino editoriale del libro, che parla di indicazioni, posologia ed effetti collaterali, dice che questo titolo è “per chi vuole vivere la magia e la decadenza della Belle Époque senza rinunciare alla comodità del proprio divano”. E, con acume, avverte che gli effetti potrebbero includere “un’irrefrenabile desiderio di entrare in gioco” e mettere in discussione qualche certezza sulla storia della letteratura italiana.
“Humoursex. Pratiche di umorismo nelle scrittrici di fine Ottocento” è proprio questo: un farmaco contro l’oblio, una piccola overdose di intelligenza narrativa. È un recupero necessario perché ci ricorda che le donne non sono state solo muse o vittime del patriarcato letterario: sono state soggetti attivi, critiche spietate, narratrici capaci di sfondare porte chiuse a doppia mandata, sorridendo.
Il merito della curatrice sta nell’aver ridato voce a scrittrici che, spesso, sono state oscurate da etichette fuorvianti (“letteratura rosa”, “letteratura femminile”) o sostituite da figure maschili ingombranti. Qui ritornano al centro, con la loro brillantezza e la loro impertinenza: qualità che forse hanno fatto più paura del talento stesso.
In un momento in cui si parla molto di riscrivere i canoni, “Humoursex. Pratiche di umorismo nelle scrittrici di fine Ottocento” non riempie un vuoto: dimostra che il vuoto non è mai esistito. È stato semplicemente cancellato. Questa raccolta lo riporta sotto i nostri occhi con la leggerezza più sovversiva e necessaria: una risata.
