8 saggi da leggere per capire il presente da regalare a Natale

20 Dicembre 2025

Saggi, poesia e cinema: 8 libri per leggere il presente tra memoria, identità, arte e immaginario contemporaneo.

8 saggi da leggere per capire il presente da regalare a Natale

Capire il presente significa attraversare linguaggi diversi, intrecciare memoria e visione, riconoscere come la cultura, alta e popolare, continui a dialogare con il nostro tempo. Dai saggi sulla letteratura e sull’arte alle riflessioni sull’identità di genere, dalla poesia come gesto collettivo al cinema come archivio emotivo, questi otto libri raccontano il mondo contemporaneo da prospettive complementari.

Sono testi che non si limitano a spiegare, ma interrogano: la storia letteraria come rete intermediale, la scrittura come spazio di autodeterminazione, Internet come luogo della memoria instabile, il genere come costruzione fluida, il cinema come rito quotidiano, l’horror come specchio dei nostri limiti, la botanica come linguaggio simbolico. Otto titoli diversi per stile e ambizione, ma uniti dalla stessa urgenza: comprendere chi siamo oggi, attraverso ciò che leggiamo, guardiamo e raccontiamo.

8 libri per leggere il presente

Questi otto libri dimostrano come la cultura contemporanea non sia fatta di compartimenti stagni, ma di connessioni continue: tra passato e presente, tra parola e immagine, tra esperienza individuale e collettiva. Leggerli significa attraversare territori diversi, dalla teoria alla poesia, dal cinema all’arte, per tornare con uno sguardo più consapevole sul nostro tempo.

In un’epoca frammentata e accelerata, questi testi offrono qualcosa di prezioso: la possibilità di fermarsi, leggere, comprendere. E forse anche di riconoscersi.

“La letteratura italiana dal 1895 a oggi. Una storia intermediale” di Giuliana Benvenuti – Einaudi

È un saggio che prova a fare una cosa tutt’altro che scontata: raccontare più di un secolo di letteratura italiana non come una sequenza ordinata di autori, correnti e opere, ma come un organismo vivo, attraversato da immagini, suoni, media, contaminazioni e continue metamorfosi. Curato da Giuliana Benvenuti e pubblicato da Einaudi, “La letteratura italiana dal 1895 a oggi. Una storia intermediale”si pone esplicitamente fuori dal modello tradizionale della storia letteraria, scegliendo come punto di partenza il 1895, anno simbolico dell’invenzione del cinema, per affermare fin da subito che la letteratura del Novecento non può più essere letta come un sistema chiuso, autosufficiente, separato dalle altre arti.

Il cuore del saggio sta proprio in questa prospettiva: la letteratura non come centro, ma come nodo di una rete. Cinema, teatro, arti visive, radio, televisione, fotografia, nuovi media digitali diventano interlocutori costanti della scrittura, strumenti che la trasformano e che, a loro volta, vengono trasformati dal dialogo con il testo letterario. In “La letteratura italiana dal 1895 a oggi. Una storia intermediale” il Novecento non appare come un’epoca di “crisi” della letteratura, ma come un laboratorio continuo, in cui la parola scritta si ridefinisce attraverso il confronto con altri linguaggi e con un pubblico sempre più ampio e differenziato.

Uno degli aspetti più interessanti del volume è la scelta di dedicare spazio non solo ai grandi nomi canonici, ma anche a voci e generi a lungo marginalizzati. L’approccio intermediale permette infatti di ripensare le gerarchie tradizionali: la collaborazione tra scrittori e artisti, la scrittura per il cinema o per il teatro, l’ibridazione tra poesia e arti visive, la narrativa che dialoga con la musica o con la cultura di massa diventano elementi centrali, non note a piè di pagina. “La letteratura italiana dal 1895 a oggi. Una storia intermediale” suggerisce così che molte esclusioni del canone non sono state solo estetiche, ma anche mediali: ciò che sfuggiva alla forma-libro veniva spesso considerato “minore”.

Il linguaggio del saggio, pur mantenendo un solido impianto critico, resta accessibile e leggibile anche da chi non è uno specialista. Non c’è l’aridità del manuale universitario né la pretesa di esaustività totale: il volume è suddiviso in sei grandi capitoli, ognuno dei quali copre circa vent’anni di storia letteraria, e si chiude con una serie di letture esemplari che funzionano come lenti di ingrandimento su casi specifici. Questa struttura rende “La letteratura italiana dal 1895 a oggi. Una storia intermediale” uno strumento utile tanto per lo studio quanto per una lettura curiosa, orientata a capire come e perché la letteratura italiana sia cambiata insieme alla società.

C’è anche un valore politico, nel senso più ampio del termine, in questa operazione. Raccontare la letteratura come pratica intermediale significa riconoscerle una funzione sociale mobile, capace di adattarsi ai mutamenti culturali e tecnologici. Il libro mostra come la scrittura abbia risposto alle fratture del Novecento, guerre, avanguardie, mass media, cultura industriale, globalizzazione, non arroccandosi su se stessa, ma cercando nuove forme di espressione e di comunicazione. In questo senso “La letteratura italiana dal 1895 a oggi. Una storia intermediale” parla anche al presente, offrendo strumenti per leggere le trasformazioni contemporanee, in cui la distinzione tra media è sempre più porosa.

Nel complesso, “La letteratura italiana dal 1895 a oggi. Una storia intermediale” è un saggio che invita a cambiare sguardo: non a imparare una lista di nomi, ma a osservare i processi, le relazioni, le contaminazioni. È un libro che restituisce complessità senza risultare respingente, che stimola domande più che fornire risposte definitive, e che riesce a far percepire la letteratura non come un oggetto del passato, ma come una pratica ancora profondamente intrecciata con il nostro modo di vedere, raccontare e abitare il mondo.

“Ragazze che scrivono poesie” di Alba Donati – Einaudi

Non è un saggio sulla poesia femminile, né una semplice galleria di grandi nomi. È, piuttosto, un libro sulla giovinezza come stato di combustione, sulla scrittura come gesto originario, necessario, spesso pericoloso. Alba Donati costruisce un atlante emotivo e intellettuale in cui le poetesse non vengono osservate dall’alto della loro consacrazione, ma colte nel momento in cui tutto è ancora fragile, instabile, in formazione. È lì, in quel tempo liminare, che la poesia accade davvero, ed è lì che Donati decide di sostare.

In “Ragazze che scrivono poesie” la parola “ragazze” non ha nulla di diminutivo o nostalgico: è una categoria esistenziale, un modo di stare nel mondo prima che il mondo chieda di essere normalizzato. Emily Dickinson, Anna Achmatova, Antonia Pozzi, Wisława Szymborska, Sylvia Plath, e le altre che attraversano il libro, non sono icone da manuale scolastico, ma corpi vivi, menti febbrili, giovani donne che scrivono perché non possono fare altrimenti. Donati restituisce la loro scrittura al suo momento di massima esposizione: quando la poesia non è ancora “opera”, ma rischio, ossessione, desiderio, talvolta autodistruzione.

Il merito più evidente di “Ragazze che scrivono poesie” è la capacità di evitare sia la mitizzazione romantica sia il pietismo biografico. Le sofferenze, le costrizioni sociali, la violenza simbolica e concreta che molte di queste poetesse hanno subito non diventano mai spettacolo del dolore. Al contrario, Donati mostra come la poesia nasca spesso in un campo di tensione tra libertà interiore e controllo esterno: famiglie, istituzioni, regimi politici, canoni letterari, aspettative di genere. Scrivere versi, per queste ragazze, è un atto di disobbedienza silenziosa, una forma di resistenza che non cerca proclami ma verità.

C’è un filo sotterraneo che attraversa tutto “Ragazze che scrivono poesie”: l’idea che la poesia non sia un genere letterario, ma una postura dello sguardo. Donati insiste sul fatto che queste giovani donne vedono il mondo in modo diverso, con una radicalità che spesso mette a disagio chi le circonda. Non è un caso che molte di loro vengano giudicate “eccessive”, “inadeguate”, “troppo”. La loro intensità non è conciliabile con le forme di vita che vengono loro offerte, e la poesia diventa lo spazio in cui quell’intensità può finalmente respirare.

Il libro dialoga apertamente con Virginia Woolf, evocata come presenza costante, non tanto per citazione quanto per metodo: l’attenzione ai “momenti di essere”, agli istanti in cui la vita si condensa e si rivela. In questo senso, “Ragazze che scrivono poesie” è anche un libro sulla memoria, su ciò che resta quando il tempo e la storia cercano di appiattire le differenze. Ogni ritratto è un tentativo di sottrarre queste voci alla monumentalizzazione, restituendo loro la vibrazione originaria.

Lo stile di Alba Donati è parte integrante del progetto: limpido, partecipe, mai professorale. La sua scrittura non spiega, accompagna. Non interpreta dall’esterno, ma entra in ascolto. Questo rende “Ragazze che scrivono poesie” un libro accessibile senza essere semplificato, colto senza essere esclusivo. È un testo che parla a chi ama la poesia, ma anche a chi ha conosciuto, almeno una volta, quella sensazione di urgenza assoluta che spinge a scrivere per non scomparire.

In definitiva, “Ragazze che scrivono poesie” è un libro necessario perché rimette al centro una domanda fondamentale: cosa succede quando una giovane donna decide di prendere sul serio la propria voce? La risposta non è mai pacifica, ma è proprio in quella inquietudine che la poesia trova la sua ragione più profonda. Donati non offre modelli, né consolazioni. Offre sguardi, traiettorie, possibilità. E ci ricorda che ogni poesia, prima di essere letteratura, è stata una ragazza che ha osato dire “io”.

“You have a new memory. Internet e la fuga perenne” di Aiden Arata – Mercurio

Un saggio che riesce in un’operazione rara: parlare di Internet senza né demonizzarlo né assolverlo, ma attraversarlo come si attraversa un paesaggio che ormai coincide con la nostra stessa interiorità. Fin dalle prime pagine, “You have a new memory. Internet e la fuga perenne” si presenta come un libro che non vuole spiegare il digitale dall’esterno, con la distanza dell’analisi fredda o dell’allarme morale, bensì dall’interno, assumendo fino in fondo la condizione di chi Internet lo vive, lo abita, lo subisce e allo stesso tempo lo desidera.

Il punto di partenza di “You have a new memory. Internet e la fuga perenne” è tanto semplice quanto destabilizzante: non siamo mai stati così connessi, eppure siamo sempre più distratti da noi stessi. La memoria, parola chiave già nel titolo, non è più solo un deposito del passato, ma un flusso continuo di immagini, notifiche, archivi automatici che ci sollevano dal peso di ricordare, salvo poi restituirci una sensazione costante di smarrimento. Arata non parla della memoria come nostalgia, ma come responsabilità: cosa scegliamo di salvare, cosa lasciamo fuori dall’inquadratura, cosa decidiamo che merita di essere ricordato e cosa invece condanniamo all’oblio silenzioso?

In “You have a new memory. Internet e la fuga perenne” il digitale non è mai una semplice infrastruttura tecnica. È una forma di vita, un ambiente emotivo e simbolico che plasma identità, desideri, scelte politiche, relazioni. L’autore riflette sul mondo degli influencer non con lo sguardo scandalizzato di chi li osserva da lontano, ma con una consapevolezza più inquietante: su Internet siamo tutti, in misura diversa, venditori e merce, spettatori e spettacolo, produttori e prodotti. Il valore di questo saggio sta proprio nel non fingere una purezza impossibile, ma nel mostrare quanto sia sottile il confine tra partecipazione e sfruttamento, tra visibilità e consumo di sé.

Uno degli aspetti più riusciti di “You have a new memory. Internet e la fuga perenne” è il tono: ironico senza essere superficiale, nostalgico senza diventare reazionario, critico senza trasformarsi in predica. Arata alterna riflessione teorica e racconto personale, domande collettive e inquietudini intime, costruendo un discorso che procede per accumulo e risonanza, più che per tesi rigide. È un libro che non offre soluzioni facili, e proprio per questo risulta onesto. Non ci dice di spegnere il telefono per salvarci, né di abbracciare ingenuamente il progresso: ci chiede piuttosto di chiederci che tipo di presenza vogliamo avere nel tempo di Internet.

La “fuga perenne” evocata nel titolo di “You have a new memory. Internet e la fuga perenne” non è solo una fuga dal reale verso lo schermo, ma anche una fuga dal silenzio, dalla lentezza, dalla possibilità di restare con ciò che non è immediatamente condivisibile. L’episodio del ritiro in monastero, lontano dal telefono, non viene raccontato come un gesto eroico o definitivo, ma come un esperimento fragile, destinato forse a fallire. Ed è proprio in questo fallimento potenziale che il libro trova la sua forza: l’ascetismo digitale non è una soluzione stabile, ma un tentativo, una domanda aperta sul senso dell’esserci.

“You have a new memory. Internet e la fuga perenne” è dunque un saggio che parla del presente senza arroganza e senza indulgenza, restituendo la complessità emotiva dell’essere vivi in un’epoca iperconnessa. Non cerca di insegnare come vivere meglio online, ma di rendere visibile il disagio sottile che attraversa le nostre giornate, fatto di scroll infiniti, memorie salvate automaticamente, identità frammentate. È un libro che lascia il lettore con una sensazione precisa: non tanto l’urgenza di cambiare immediatamente abitudini, quanto la necessità di guardarle con più lucidità. E, oggi, questa è già una forma potente di resistenza.

“Il genere è fluido?” è uno di quei saggi che riescono nell’impresa più difficile della divulgazione contemporanea: rendere accessibile un tema complesso senza semplificarlo, e allo stesso tempo non trasformarlo in uno slogan. Il libro di Sally Hines, inserito nella collana The Big Idea, parte da domande apparentemente elementari, che cos’è il genere, da dove nasce, se è qualcosa che siamo o qualcosa che facciamo, per mostrare quanto queste stesse domande siano tutt’altro che banali, e quanto abbiano inciso, e continuino a incidere, sulle vite reali delle persone.

“Il genere è fluido?” Di Sally Hines è Matthew Taylor tradotto da Martina Rinaldi – Nutrimenti

Il libro non propone risposte definitive né verità dogmatiche. Al contrario, il suo punto di forza sta proprio nel rifiuto delle posizioni rigide. Hines costruisce un percorso che attraversa biologia, psicologia, storia, sociologia e cultura pop, mostrando come l’idea di genere sia sempre stata una costruzione dinamica, modellata dai contesti storici e sociali più che da una presunta natura immutabile. Il genere, ci suggerisce il libro, non è un’essenza da scoprire una volta per tutte, ma un processo: qualcosa che si vive, si negozia, si esprime, talvolta si subisce.

Uno degli aspetti più interessanti di “Il genere è fluido?” è il modo in cui affronta la dissonanza tra sesso biologico e identità di genere senza spettacolarizzarla. Il tema non viene trattato come un’eccezione da spiegare o giustificare, ma come una delle molte possibilità dell’esperienza umana. In questo senso, il saggio lavora contro l’idea stessa di normalità come categoria fissa, mostrando come ciò che oggi viene percepito come “nuovo” o “radicale” sia spesso il risultato di un cambiamento di sguardo più che di una reale trasformazione dell’umano.

La struttura del libro, con testi organizzati su diversi livelli di approfondimento, non è solo una scelta grafica, ma una dichiarazione di intenti. “Il genere è fluido?” riconosce che il tempo, l’attenzione e le competenze dei lettori non sono uguali per tutti. È un saggio che si può leggere velocemente per farsi un’idea, oppure lentamente per entrare nel dettaglio, senza che nessuna delle due modalità venga svalutata. In un’epoca di letture frammentarie e intermittenti, questa scelta appare tutt’altro che secondaria: è un modo per includere, non per escludere.

Dal punto di vista critico, il libro ha il merito di non separare mai il discorso teorico dalle sue conseguenze pratiche. Quando “Il genere è fluido?” parla di ruoli di genere, di binarismo, di identità non conformi, lo fa sempre interrogandosi sugli effetti concreti di queste categorie: chi viene legittimato, chi viene escluso, chi deve continuamente spiegarsi per esistere. Il genere non è presentato come un tema astratto, ma come una lente attraverso cui leggere le relazioni di potere, le aspettative sociali, le pressioni culturali che attraversano i corpi e le biografie.

Importante è anche lo spazio dedicato alla dimensione storica. “Il genere è fluido?” smonta l’idea che il binarismo maschio/femmina sia universale e naturale, mostrando come molte culture e molte epoche abbiano concepito il genere in modi molto più articolati di quanto si creda. Questo sguardo storico non serve a idealizzare il passato, ma a relativizzare il presente, ricordandoci che ciò che oggi viene difeso come “tradizione” è spesso una costruzione recente.

In definitiva, “Il genere è fluido?” è un libro che non pretende di convincere, ma di far pensare. Non urla, non polarizza, non riduce il dibattito a uno scontro ideologico. È un saggio che invita alla complessità, alla curiosità, alla sospensione del giudizio facile. Ed è forse proprio questa la sua qualità più preziosa: ricordarci che comprendere il genere significa, prima di tutto, accettare che l’umano non si lascia mai rinchiudere del tutto nelle definizioni.

“Vecchie maestre. Donne, arte e ideologia” di Griselda Pollock e Rozsika Parker – Tlon

Non è soltanto un saggio di storia dell’arte: è un libro che smonta un intero modo di guardare, di raccontare e di insegnare l’arte occidentale. Leggerlo oggi, nella sua finalmente disponibile edizione italiana, significa rendersi conto di quanto la Storia dell’arte che abbiamo interiorizzato non sia mai stata neutra, ma il prodotto di una costruzione ideologica precisa, stratificata nei secoli e raramente messa davvero in discussione.

Il punto di partenza di “Vecchie maestre. Donne, arte e ideologia” è tanto semplice quanto destabilizzante: le donne non sono assenti dalla storia dell’arte perché “non c’erano”, ma perché il sistema che ha costruito il canone ha scelto di non vederle, o di relegarle in ruoli marginali e funzionali allo sguardo maschile. Pollock e Parker non si limitano a denunciare un’ingiustizia quantitativa, il fatto che le artiste siano meno studiate o meno presenti nei musei, ma affrontano una questione più profonda e scomoda: i criteri stessi con cui giudichiamo cosa è arte, cosa è genio, cosa è valore estetico sono stati storicamente pensati per escludere le donne.

In “Vecchie maestre. Donne, arte e ideologia” la Storia dell’arte emerge come un linguaggio di potere, un sistema che ha definito l’artista come figura maschile, autonoma, geniale, libera da vincoli domestici e corporei. Tutto ciò che non rientrava in questo modello veniva automaticamente considerato minore, decorativo, artigianale, o addirittura invisibile. Le autrici mostrano con grande lucidità come la distinzione tra “alta arte” e “arti minori”, tra pittura storica e generi considerati femminili, sia tutt’altro che naturale: è una gerarchia culturale costruita per consolidare un dominio simbolico.

Uno degli aspetti più potenti del libro è il rifiuto di una soluzione facile. “Vecchie maestre. Donne, arte e ideologia” non propone semplicemente di “aggiungere” artiste donne a un canone già esistente, come se bastasse ampliare una lista. Al contrario, Pollock e Parker sostengono che il problema non si risolve senza una revisione radicale degli strumenti critici stessi. Inserire qualche nome femminile senza interrogare le categorie che regolano il discorso artistico rischia di diventare un’operazione cosmetica, che lascia intatto il meccanismo di esclusione.

Il saggio è anche estremamente attento al contesto sociale, economico e simbolico in cui le donne hanno prodotto arte. “Vecchie maestre. Donne, arte e ideologia” mostra come l’accesso alla formazione, agli spazi di lavoro, alle committenze e alla visibilità pubblica fosse profondamente diverso per uomini e donne. L’arte non nasce nel vuoto: nasce dentro relazioni di potere, ruoli di genere, aspettative sociali che condizionano non solo ciò che viene creato, ma anche ciò che viene ricordato.

Dal punto di vista stilistico, il libro mantiene un equilibrio notevole tra rigore teorico e chiarezza espositiva. “Vecchie maestre. Donne, arte e ideologia” è un testo denso, ma non respingente: richiede attenzione, certo, ma restituisce molto a chi legge. Non è un manifesto urlato, bensì un lavoro critico stratificato, che invita a rallentare lo sguardo e a sospendere automatismi interpretativi che spesso diamo per scontati.

Leggere oggi “Vecchie maestre. Donne, arte e ideologia” significa anche riconoscere quanto molte delle dinamiche analizzate siano ancora attive. Nonostante mostre, recuperi e riscritture, il sistema dell’arte continua a riprodurre disuguaglianze strutturali. Il valore di questo libro sta proprio nella sua capacità di fornire strumenti, non risposte preconfezionate: dopo la lettura, è difficile tornare a osservare un museo, un manuale o una narrazione artistica con lo stesso sguardo di prima.

In definitiva, “Vecchie maestre. Donne, arte e ideologia” è un testo fondamentale non solo per chi si occupa di arte o di studi di genere, ma per chiunque voglia interrogarsi sul modo in cui la cultura costruisce ciò che consideriamo naturale, universale, indiscutibile. È un libro che non consola, ma chiarisce. E proprio per questo resta necessario, vivo, profondamente attuale.

“Cinecalendario. Un anno al cinema in 365 film e 99 serie TV” Andrea Fiamma – Bruno

Non è un semplice libro da consultazione, né un compendio nostalgico pensato per cinefili collezionisti di aneddoti. È piuttosto un oggetto culturale ibrido, che prende sul serio un’idea apparentemente ludica, associare un film o una serie a ogni giorno dell’anno, e la trasforma in un dispositivo narrativo capace di raccontare il cinema (e oggi inevitabilmente anche la serialità televisiva) come esperienza quotidiana, diffusa, intrecciata al tempo che viviamo.

La forza di “Cinecalendario. Un anno al cinema in 365 film e 99 serie TV” sta proprio qui: nel rifiuto di una storia del cinema monumentale, gerarchica, fatta solo di capolavori intoccabili, a favore di una mappa temporale che mescola grandi classici, film popolari, opere di culto, successi recenti e titoli apparentemente laterali. Il cinema, in questo libro, non è un pantheon ma un flusso: qualcosa che accade ogni giorno, che si deposita nella memoria collettiva e individuale come una data, un’immagine, una scena che continua a risuonare.

L’idea di associare ogni film al giorno “esatto” in cui è ambientato o in cui accade un evento significativo non è un semplice gioco di precisione filologica. È un modo per ricordarci che il cinema è sempre legato al tempo, che racconta stagioni, attese, anniversari, passaggi, svolte. Sfogliare “Cinecalendario. Un anno al cinema in 365 film e 99 serie TV” significa attraversare l’anno come se fosse una lunga sequenza cinematografica, dove ogni data diventa una soglia narrativa: un 25 dicembre che non è solo Natale, un 14 febbraio che non è solo San Valentino, un giorno qualunque che improvvisamente si carica di senso perché lì, in un film, è successo qualcosa che continuiamo a ricordare.

La nuova edizione arricchita, con l’ingresso delle serie TV, è uno degli aspetti più interessanti del progetto. “Cinecalendario. Un anno al cinema in 365 film e 99 serie TV” riconosce senza snobismi che oggi la serialità è parte integrante dell’immaginario audiovisivo, e lo fa mettendola sullo stesso piano del cinema, non come succedaneo ma come linguaggio autonomo. Le date dedicate a Breaking Bad, Friends, Stranger Things o The Bear non sono concessioni al gusto del pubblico, ma la presa d’atto di un cambiamento profondo nel modo in cui raccontiamo storie e nel modo in cui queste storie abitano la nostra vita quotidiana.

Il tono del libro è divulgativo nel senso migliore del termine: accessibile, curioso, mai didascalico. Le schede non si limitano a riassumere le trame, ma offrono contesto, curiosità, collegamenti, piccoli scarti di sguardo che invitano a rivedere un film con occhi diversi o a scoprire un titolo che magari era rimasto ai margini. “Cinecalendario. Un anno al cinema in 365 film e 99 serie TV” non pretende di insegnare cosa sia il cinema “giusto”, ma suggerisce percorsi, accende associazioni, stimola una relazione personale con le opere.

C’è anche un aspetto profondamente contemporaneo in questo libro: la consapevolezza che oggi il cinema non si consuma più solo in sala, in un tempo rituale e separato, ma si intreccia alle nostre giornate, alle piattaforme, alle abitudini frammentate. In questo senso, “Cinecalendario. Un anno al cinema in 365 film e 99 serie TV” funziona quasi come un antidoto alla dispersione: restituisce ordine senza rigidità, memoria senza nostalgia sterile, piacere senza feticismo.

Alla fine, il vero merito di “Cinecalendario. Un anno al cinema in 365 film e 99 serie TV” è quello di ricordarci che il cinema, e oggi anche la televisione, non è solo qualcosa che guardiamo, ma qualcosa che ci accompagna. Ogni giorno dell’anno può essere un pretesto per tornare a una storia, a un’immagine, a un personaggio. E in un’epoca in cui il flusso di contenuti sembra infinito e spesso indistinto, questo libro riesce in un gesto semplice e radicale: ridare al tempo il suo ritmo, e alle storie il loro posto nella nostra memoria.

“50 film horror estremi impossibili da guardare” di Carlo Baranzini – Bruno

Non è un semplice catalogo di titoli scioccanti né una lista costruita per solleticare la curiosità morbosa di chi cerca il prossimo limite da superare. È piuttosto un attraversamento consapevole, a tratti scomodo, del lato più radicale del cinema horror, quello che mette in crisi lo sguardo prima ancora del gusto e che costringe lo spettatore a interrogarsi non solo su ciò che vede, ma sul perché lo sta guardando. Carlo Baranzini affronta questo territorio con una voce riconoscibile, che nasce dal dialogo diretto con il pubblico e dall’esperienza di chi ha costruito un linguaggio critico sui social senza rinunciare alla profondità.

In “50 film horror estremi impossibili da guardare” l’estremo non è mai fine a sé stesso. Ogni film viene inserito in un discorso più ampio che tiene insieme contesto produttivo, ricezione culturale, reazioni emotive e conseguenze sullo spettatore. Baranzini non si limita a dire “questo film è disturbante”, ma prova a spiegare come e perché lo è, quali meccanismi attiva, quali nervi scopre, quali tabù infrange. Il risultato è un libro che parla tanto di cinema quanto di noi, del nostro rapporto con la violenza rappresentata, con il dolore messo in scena, con l’attrazione ambigua per ciò che ci respinge.

Uno degli aspetti più interessanti di “50 film horror estremi impossibili da guardare” è la capacità di evitare la trappola della classifica o della gara al ribasso. Non c’è una scala del “più estremo”, né l’idea che esista un unico modo di scandalizzare. Al contrario, il libro mostra come l’horror estremo assuma forme diverse a seconda delle epoche, dei paesi, delle sensibilità culturali. Ci sono film che colpiscono per la violenza esplicita, altri per l’insistenza psicologica, altri ancora per la crudeltà simbolica o per il modo in cui mettono in scena corpi, identità, potere. L’estremo, qui, è una categoria mobile, instabile, mai del tutto definibile.

Baranzini scrive con un tono che riesce a essere insieme appassionato e critico, ironico senza diventare superficiale. In “50 film horror estremi impossibili da guardare” si sente costantemente la presenza di uno spettatore che non si mette mai al di sopra di ciò che analizza, ma si espone, ammette disagio, repulsione, fascinazione. Questo rende il libro credibile e umano: non c’è l’arroganza del “tutto mi è permesso perché so”, ma la consapevolezza che certi film mettono in crisi anche chi li studia da anni.

Il valore del libro sta anche nel modo in cui riesce a parlare a lettori diversi. Chi conosce già il cinema horror più radicale troverà spunti critici, connessioni, riflessioni che vanno oltre la superficie dello shock. Chi invece si avvicina a questo territorio con curiosità o timore troverà una guida che non spinge a guardare tutto a ogni costo, ma invita a scegliere, a interrogarsi sui propri limiti, a riconoscere che non tutti i film sono “per tutti” e che va bene così. “50 film horror estremi impossibili da guardare” non celebra la resistenza allo choc come un valore morale, ma restituisce dignità anche al rifiuto.

In definitiva, “50 film horror estremi impossibili da guardare” è un libro che usa l’horror per parlare di etica dello sguardo, di responsabilità dello spettatore, di cinema come esperienza che può ferire, disturbare, lasciare segni. Non è una lettura comoda, e non vuole esserlo. È un testo che chiede attenzione, consapevolezza, onestà emotiva. Ed è proprio in questa richiesta, mai gridata ma sempre presente, che risiede la sua forza più autentica.

“Per un erbario” di Colette – Elliot

Un libro minuscolo solo in apparenza. In realtà è uno di quei testi che, come certi fiori selvatici, sembrano fragili e invece resistono al tempo, alla catalogazione, alle mode. Pubblicato per la prima volta nel 1948 e ora finalmente disponibile in un’edizione italiana che ne restituisce il valore letterario e sensibile, “Per un erbario” appartiene alla fase estrema e più concentrata della scrittura di Colette: una scrittura che non ha più nulla da dimostrare e proprio per questo può permettersi l’essenziale, la deviazione, il gesto minimo.

L’origine stessa di “Per un erbario” dice molto del suo spirito. Le edizioni Mermod di Losanna proposero a Colette un gioco: ricevere periodicamente dei bouquet di fiori e lasciarsene ispirare per scrivere brevi testi. Da questa idea apparentemente decorativa nasce invece un libro di straordinaria densità, composto da ventidue ritratti vegetali che sono, in realtà, altrettanti autoritratti indiretti. Ogni fiore, la rosa, il giglio, la gardenia, il glicine, l’orchidea, diventa un pretesto per osservare il mondo, il corpo, la memoria, il desiderio, il tempo che passa. Colette non descrive: ascolta. Non classifica: divaga. Non insegna: confida.

In “Per un erbario” la botanica è solo un punto di partenza. I fiori non sono mai ridotti a simboli rigidi, né a eleganti allegorie letterarie. Al contrario, sono creature vive, ambigue, spesso contraddittorie. La rosa può essere sensuale e crudele, il giglio insieme casto e inquietante, la gardenia un monologo interiore che sfiora il teatro. Colette osserva le piante come ha sempre osservato gli esseri umani: con uno sguardo che mescola precisione sensoriale e indulgenza morale, attenzione quasi scientifica e compassione istintiva. È uno sguardo che non giudica, ma registra.

Ciò che rende “Per un erbario” un libro profondamente letterario, e non un semplice esercizio lirico, è la sua capacità di trasformare il dettaglio in visione. Ogni testo nasce da un’esperienza concreta: un fiore visto, toccato, annusato, coltivato. Ma immediatamente si apre a una riflessione più ampia sulla femminilità, sull’invecchiamento, sull’attaccamento alle cose minime, sulla sensualità che non ha bisogno di clamore. In queste pagine Colette scrive da una posizione rarissima: quella di una donna anziana che non rinnega il desiderio, ma lo osserva con lucidità e ironia, senza nostalgia né compiacimento.

“Per un erbario” è anche un libro sul tempo. Non il tempo storico, ma quello biologico, ciclico, vegetale. I fiori nascono, fioriscono, appassiscono, tornano. Colette li accompagna in questo movimento con una scrittura che accetta la transitorietà come forma di bellezza. Non c’è tragedia nella fine, ma una sorta di consapevolezza calma, quasi sorridente. È una lezione sottile, mai esplicitata, che attraversa tutto il libro: la vita non ha bisogno di essere eterna per essere intensa.

La nuova edizione italiana restituisce inoltre il dialogo originario tra testo e immagine, ricordando come “Per un erbario” sia stato anche un oggetto d’arte, impreziosito dagli acquerelli di Raoul Dufy. Questo dettaglio non è marginale: Colette pensava il libro come qualcosa da sfogliare e risfogliare, non da consumare in una lettura rapida. È un libro che chiede lentezza, disponibilità, attenzione ai margini. Un libro da tenere sul comodino, da aprire a caso, da leggere come si osserva un giardino.

In un panorama editoriale spesso dominato dall’urgenza del messaggio, “Per un erbario” appare quasi inattuale. Ed è proprio questa la sua forza. Colette ci ricorda che la scrittura può essere un gesto di cura, un atto di presenza, una forma di intimità con il mondo naturale che non ha nulla di ingenuo o decorativo. Questo libro non offre risposte, ma affina lo sguardo. Non spiega, ma accompagna. E nel farlo, continua a parlare con una voce sorprendentemente contemporanea.

“Per un erbario” è, in definitiva, un piccolo manifesto silenzioso: una dichiarazione d’amore alla vita minuta, imperfetta, sensoriale. Un libro che non si impone, ma resta. E che, come certi profumi leggeri, continua a farsi sentire molto tempo dopo aver chiuso l’ultima pagina.

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