8 libri Fantasy e gotici. I mondi da regalare a Natale

2 Dicembre 2025

8 libri fantasy per regalare a chi ami un viaggio tra mondi incantati, avventure epiche e magie che restano nel cuore.

8 libri Fantasy. I mondi da regalare a Natale chi ama immergersi nell’immaginario

Il regalo più bello è quello che non finisce mai, che continua a vivere nella mente e nel cuore di chi lo riceve. Un libro fantasy è esattamente questo: un passaggio segreto verso un mondo diverso, pieno di meraviglia, creature straordinarie, incantesimi e prove da affrontare. Regalare un fantasy significa offrire un’avventura, un rifugio, un sogno.

In questa selezione abbiamo scelto storie magiche da mettere sotto l’albero, pensate per chi ama perdersi tra le pagine e ritrovarsi in regni incantati, con protagonisti indimenticabili e narrazioni che scaldano l’anima. Mondi da scoprire, da vivere, da condividere.

8 libri fantasy da regalare agli amanti del genere

Questi sette romanzi non sono solo storie: sono viaggi, alleanze, rivelazioni. Perfetti per chi ha bisogno di evadere, di sperare o semplicemente di meravigliarsi. Che siano letti davanti a un camino o sotto le coperte, questi mondi incantati diventeranno parte di chi li riceve. Perché non c’è regalo più prezioso di una buona storia.

“La notte dell’inverno. La trilogia” di Katherine Arden – Fanucci

“La notte dell’inverno. La trilogia” di Katherine Arden è un’opera che lavora su un confine sottilissimo: quello tra fiaba e storia, tra il folklore ancestrale e la brutalità del potere medievale. Il risultato è un fantasy che ha l’odore degli inverni interminabili del Nord, la neve che copre ogni cosa e il fuoco che si accende solo per respingere ciò che vive nell’ombra. Arden prende per mano il lettore e lo trascina in una Russia arcaica, dove la paura è più forte della fede e le leggende non sono soltanto storie da raccontare accanto al camino: sono entità reali, spiriti antichi, dèi dimenticati che respirano nel buio dei boschi.

La protagonista, Vasja, nasce in un villaggio ai margini della tundra, in un mondo dove la magia è una presenza naturale quanto l’inverno. Fin da bambina vede e dialoga con i domovoi, i piccoli spiriti che proteggono le case, e con creature che nessun altro è più disposto ad ammettere. La sua capacità è un dono, ma soprattutto un peso: il prezzo di essere diversa in una società che pretende obbedienza e conformità. Arden coglie con grande empatia il percorso di Vasja, una ragazza che vuole essere libera e autentica ma a cui la comunità impone un destino che sa di gabbia. Quando il sospetto di stregoneria inizia ad alzarsi come una tempesta, Vasja è costretta a fuggire, a cambiare pelle, persino a fingersi ragazzo pur di restare padrona di sé stessa.

Uno degli aspetti più riusciti del romanzo è la complessità del rapporto tra credenze antiche e religione cristiana. La scrittrice evita semplificazioni: non c’è un bene puro e un male assoluto. C’è invece un conflitto tra due modi di guardare il mondo. Da una parte, un cristianesimo che arriva nel villaggio con imposizioni e paura, e che lentamente soffoca le tradizioni popolari. Dall’altra, creature dimenticate che rischiano di svanire perché nessuno crede più in loro. Arden racconta questo cambiamento culturale non come un passaggio ordinato, ma come un trauma collettivo che apre le porte a un male molto più grande: la paura rende ciechi, e ciò che non si vede diventa terreno fertile per la rovina.

La figura di Morozko, il signore dell’inverno, è magnetica. È un dio duro come il ghiaccio che governa, ma anche capace di una forma di protezione spietata e misteriosa. Il suo legame con Vasja è uno dei motori emotivi più affascinanti della storia: un rapporto lontano dai cliché romantici, costruito sul rispetto reciproco e su un’attrazione che non cerca mai di definire sé stessa. Accanto a lui si staglia il fratello gemello Medved, incarnazione della paura che divora, e il loro conflitto mitologico si inserisce con naturalezza nella trama storica della Rus’, minacciata da invasori e instabilità.

Il romanzo esplora il coraggio di una ragazza che non vuole scegliere tra il mondo degli uomini e quello degli spiriti, tra il dovere e la propria verità più profonda. La sua determinazione ha conseguenze immense: si ritrova nel cuore di una guerra fatta di acciaio e superstizione, dove ogni scelta rischia di portare distruzione. Ma Arden non la trasforma mai in un eroina infallibile. Vasja sbaglia, soffre, paga un prezzo altissimo per le sue azioni. Ed è proprio questa fragilità a renderla così potente e credibile.

La scrittura di Arden è ricca di immagini visive, di suoni e sensazioni. La neve sembra davvero scricchiolare sotto i piedi, il gelo entra nelle ossa, le notti hanno una luce propria. Il mondo prende corpo con una densità che raramente si trova nel fantasy più commerciale, perché l’autrice non usa il folklore come semplice ornamento, ma come tessuto vivo della narrazione.

“La notte dell’inverno” è una trilogia che parla di libertà, identità e memoria. È un inno a ciò che sopravvive quando tutto sembra perdersi. Chi ama i racconti che bruciano lentamente, che costruiscono la magia con pazienza e rispetto per le tradizioni, troverà in queste pagine un rifugio e una sfida. Perché l’inverno di Arden non è solo una stagione: è una prova, un confine da attraversare per scoprire cosa siamo disposti a diventare.

“Victorian Psycho” di Virginia – Mercurio

“Victorian Psycho” di Virginia Feito è un romanzo che graffia. Non finge di intrattenere con la grazia consueta del gotico vittoriano: il suo obiettivo è incrinare quel mondo di merletti e buone maniere, far emergere la ferocia trattenuta dietro un sorriso educato. Ambientato nel 1858, a pochi giorni dal Natale, il libro ci trascina a Ensor House, una dimora elegante immersa nella campagna inglese, dove l’oscurità non ha bisogno di fantasmi per esistere. Vive nei pensieri, si annida negli sguardi, cresce negli angoli dove nessuno guarda. È una storia che sa giocare con la tensione sottile, fatta di urla soffocate, porte che si chiudono troppo piano, verità dette a bassa voce.

La protagonista, Winifred Notty, arriva alla casa dei Pounds come istitutrice: un ruolo che la società vittoriana ha sempre considerato rassicurante, fatto di buone maniere, pazienza, servizio. Ma Feito smonta immediatamente questa immagine: Miss Notty non è la salvatrice angelica dei racconti familiari. La sua mente è un territorio instabile, attraversato da pensieri violenti, sguardi estranei, una fame oscura che non viene mai pienamente spiegata ma che il lettore sente crescere a ogni pagina. Il lavoro con i piccoli rampolli della famiglia, Andrew e Drusilla, diventa un pretesto per esplorare una crudeltà infantile che somiglia sinistramente a quella degli adulti.

La scrittrice costruisce un’atmosfera claustrofobica, in cui ogni dettaglio domestico sembra minacciare: i ritratti che osservano, i corridoi che ascoltano, le pareti che sembrano impregnate di un segreto collettivo. Ensor House trattiene il silenzio come una creatura viva, e Miss Notty ne diventa presto la discepola perfetta. L’annuncio dei festeggiamenti natalizi non produce alcun effetto rassicurante: al contrario, la festa diventa lo scenario del massacro psicologico che lega i personaggi come burattini malati. Il lettore si ritrova a osservare la calma della superficie sapendo che qualcosa si spezzerà, senza sapere quando.

Feito definisce la sua eroina come una “Mary Poppins gotica”. L’espressione può sembrare ironica, ma descrive con precisione la sua doppia natura: una figura femminile che, al posto dello zucchero, porta dosi di veleno emotivo; al posto di canzoni rassicuranti, sussurra paure indicibili. Miss Notty è una giustiziera antieroica, una donna schiacciata dai codici vittoriani che sceglie la violenza come rivalsa, come identità. In questo, “Victorian Psycho” è anche un romanzo profondamente politico: prende un archetipo femminile della letteratura, quello dell’educatrice devota, e lo ribalta con un gesto crudele ma liberatorio.

La scrittura di Feito è scavata, teatrale, molto attenta al ritmo. Frasi brevi, colpi improvvisi, dettagli anatomici che sembrano uscire da un quadro inquietante. Ogni personaggio è esagerato quanto basta per sembrare un attore di un dramma vittoriano, ma anche terribilmente reale perché mosso da desideri e vizi riconoscibili: la vanità, la paura, l’egoismo, la pretesa che l’apparenza basti a reggere la dignità di una famiglia.

È significativo che “Victorian Psycho” sia stato inserito dal New York Times nella classifica dei 100 migliori libri del 2025: non è un romanzo che si limita a intrattenere il pubblico amante del gotico, ma qualcosa di più radicale, un esperimento sul modo in cui la narrativa storica può farsi tagliente, disturbante, volutamente sgraziata, eppure elegante nella costruzione del terrore.

Con questo libro, Virginia Feito racconta una discesa interiore che sfugge a ogni tentativo di ordine morale. Non c’è redenzione in queste pagine: c’è solo la constatazione che il male può essere domestico, silenzioso, perfettamente educato. E che l’orrore, quando indossa un vestito di buona fattura e un sorriso gentile, fa più paura di qualsiasi mostro dietro la porta.

“Victorian Psycho” è un romanzo feroce, intelligente, iconoclasta. E soprattutto, lascia un segno: come una pennellata di rosso brillante su un quadro che voleva restare immacolato.

“Un fiore tra le rovine”, terzo volume della serie La benedizione dell’ufficiale divino di Mo Xiang Tong Xiu – Mondadori

Proseguel’enorme lavoro emotivo, mitologico e narrativo che ha reso questa saga un fenomeno globale. Xie Lian, protagonista della storia, è una figura unica nell’universo del fantasy contemporaneo: un dio caduto, un eroe fallibile, un uomo che si rialza sempre, anche quando il cielo stesso gli nega valore e dignità. È proprio questa tensione tra divinità e umanità ad alimentare la forza del romanzo: la divinità non è più simbolo di perfezione, ma di ferita e resistenza.

L’autrice gioca da subito con un contrasto teatrale: “gli dèi non dovrebbero immischiarsi negli affari dei mortali”. Ma Xie Lian lo fa, e lo fa per amore della sua gente, per speranza ostinata, per un senso morale che travalica ogni legge celeste. La sua caduta è una punizione crudele: nessuna buona azione resta indenne, e la gloria di ieri diventa la vergogna di oggi. Mo Xiang Tong Xiu descrive tutto questo senza pietismi, ma con un’intensità che scava nell’animo del lettore, costringendolo a misurarsi con la domanda che attraversa tutta la saga: cosa rimane di noi quando tutto ciò in cui abbiamo creduto si sgretola?

Accanto a lui, come una promessa che attraversa il tempo e la morte, c’è Hua Cheng. Un giovane soldato incontrato nel momento del crollo, un compagno di viaggio che porta sul volto le cicatrici del mondo e nel cuore una lealtà incrollabile. Hua Cheng incarna la devozione nella sua forma più radicale: essere fedeli non al dio, ma all’uomo che vive dentro di lui. Il legame tra i due è il cuore pulsante del romanzo. È una relazione costruita nel silenzio, nel non detto, negli sguardi che salvano più delle parole. Mo Xiang Tong Xiu non sfrutta il romance come ornamento, ma come la radice emotiva che sostiene ogni scelta narrativa: l’amore non come evasione, ma come verità che insiste, persiste, sfida il destino.

In questo volume, la dimensione epica si fa più ampia: guerre civili, siccità, imperi sull’orlo del collasso. Il caos dilaga, e dalle sue ceneri spuntano desideri, ambizioni, pericoli che superano la volontà dei singoli. L’autrice intreccia con raffinatezza la storia individuale e quella collettiva: quando un regno cade, non crollano solo le sue mura, ma anche le certezze di chi lo abita. In questo senso, Un fiore tra le rovine è un romanzo che parla della speranza come ultima forma di ribellione possibile.

Il mondo creato dall’autrice è ricco di simboli, rituali e credenze che traggono linfa dalla spiritualità e dal folklore cinese. Non c’è mai un eccesso di esposizione: la costruzione dell’universo narrativo avviene attraverso l’esperienza diretta dei personaggi, come se ogni passo in avanti aprisse una porta nuova nella leggenda. Eppure non manca mai il lato più umano: fame, freddo, dolore, paura. È un fantasy che non idealizza nulla, che lascia i suoi protagonisti sanguinare e poi rialzarsi, sapendo che ogni ferita è un capitolo della loro crescita.

La scrittura di Mo Xiang Tong Xiu, resa in italiano con cura, alterna poesia e ironia, momenti di puro lirismo e battute che alleggeriscono la tensione emotiva. L’autrice conosce perfettamente il ritmo del cuore: sa quando farlo accelerare e quando permettergli di respirare. E quando colpisce, lo fa con una sincerità devastante.

“Un fiore tra le rovine” è un titolo che racchiude l’intero percorso di Xie Lian: essere bellezza in mezzo al dolore, ricordare che anche nell’oscurità più cupa cresce qualcosa di ostinato e luminoso. Questo libro parla della possibilità di rinascere senza dimenticare le proprie rovine, di trovare nell’altro una casa quando il cielo ti ha chiuso le porte.

Con questo volume, Mo Xiang Tong Xiu dimostra ancora una volta di saper costruire un fantasy che tocca corde profondissime: non solo battaglie e magia, ma vulnerabilità, dignità e un amore che resiste a tutto, perfino agli dèi.

“L’immortale. Il sistema di salvataggio del peggiore dei cattivi” – Volume 3, Mo Xiang Tong Xiu – Mondadori

Continua la sua operazione più ironica e al tempo stesso emotivamente coinvolgente: decostruire i cliché della narrativa wuxia e danmei, innestandoli in una storia che parla di responsabilità, desiderio e identità personale. L’idea di fondo della saga, un uomo catapultato all’interno di un romanzo che detestava, costretto a interpretare un ruolo da antagonista,si è trasformata, libro dopo libro, in un’indagine sorprendentemente complessa sulla possibilità di cambiare una storia già scritta.

Shen Qingqiu non è più solo il professore universitario che si sveglia nel corpo di un personaggio crudeltà-dipendente. In questo volume, il suo percorso di trasformazione arriva a un punto critico: sacrificare la propria libertà per salvare la sua setta significa riconoscere, finalmente, che quel mondo che inizialmente considerava un semplice gioco è reale, e merita il suo coinvolgimento. La prigionia a cui viene sottoposto lo costringe a confrontarsi con tutte le ombre che aveva voluto ignorare: è stato maestro di un ragazzo fragile che ora è diventato un sovrano dei demoni, ed è responsabile, almeno in parte, di quel dolore che ha portato Luo Binghe a diventare ciò che è.

Luo Binghe, d’altro canto, è il cuore più instabile e interessante della saga. Cresciuto nella fame affettiva e nella violenza, ha sviluppato un desiderio di possesso che nasconde una vulnerabilità quasi infantile. Ora che domina il Regno dei Demoni, può avere tutto, tranne ciò che desidera davvero: Shen Qingqiu non come maestro, non come salvatore, ma come partner alla pari. Mo Xiang Tong Xiu lavora questo rapporto con estrema attenzione psicologica: ogni gesto è un equilibrio instabile tra dolcezza e terrore, ogni dialogo è un duello di emozioni esplosive.

L’ambiguità del loro legame è costruita con un ritmo perfetto. Shen Qingqiu teme Binghe ma al tempo stesso lo comprende, ne percepisce il bisogno, la ferita aperta. E mentre tenta di tracciare un confine netto, tutto nel loro rapporto lo rende impossibile: gli sguardi trattenuti, la cura reciproca, la fiducia che nasce nonostante tutto. L’autrice ci mostra come i ruoli prestabiliti, maestro e allievo, eroe e villain, si sfaldino non appena entra in gioco la verità emotiva. A quel punto ciò che resta è un legame che sfugge alle definizioni e che proprio per questo affascina così tanto i lettori.

In parallelo, la trama allarga la prospettiva: segreti e intrighi che risalgono alle origini della setta, giochi di potere tra divinità, la domanda costante su chi meriti davvero la redenzione. Ciò che rende questa saga così irresistibile è la capacità di alternare momenti di leggerezza meta-narrativa, Shen Qingqiu commenta le dinamiche tipiche del genere, ironizza, si indigna, a scene intensissime di intimità emotiva o violenza mitologica.

La scrittura di Mo Xiang Tong Xiu sa essere brillante e crudele nello stesso momento. Costruisce battute fulminanti e poi, alla pagina successiva, lascia un colpo al cuore che disarma il lettore. È un equilibrio raro: non c’è mai una nota che stona, perché la complessità dei sentimenti dei personaggi è sempre al centro.

A muovere ogni capitolo è una domanda fondamentale: si può amare qualcuno che incarna tutto ciò da cui avresti dovuto scappare? E Shen Qingqiu, per la prima volta, inizia a rispondere non con il distacco ma con la vulnerabilità. Accetta che guardare Luo Binghe per ciò che è davvero significhi vedere un riflesso doloroso di sé stesso: le scelte sbagliate, le occasioni perse, l’insopprimibile desiderio di essere visti e accettati.

È un n volume di resa emotiva: i personaggi smettono di fingere, le maschere cadono, e ciò che resta è una storia d’amore cupa, tortuosa, ma ostinatamente viva. Un romanzo che mescola umorismo, pathos e azione, mantenendo sempre saldo il cuore del racconto: due persone che, pur essendo state costruite per distruggersi, trovano nel reciproco riconoscimento la loro unica salvezza.

È una tappa decisiva del viaggio, e lascia il lettore con la consapevolezza che, ormai, tornare indietro è impossibile. E che forse, dopotutto, è proprio questo l’inizio della verità.

“Brothersong”, TJ Klune – Mondadori

Con Brothersong, TJ Klune conclude la quadrilogia di Green Creek riportando al centro una domanda che ha sempre attraversato la saga: cosa significa davvero appartenere a qualcuno, a una famiglia, a un branco, a una persona? Il romanzo segue Carter Bennett, un personaggio che fino a questo momento ha vissuto nell’ombra dei legami più forti e più complicati degli altri protagonisti. Questa volta, Klune gli offre voce, spazio e una strada difficile, che ha il sapore di una fuga e la struttura di un rito di passaggio.

All’inizio del libro, Carter ha lasciato la sua famiglia non per egoismo, ma per sopravvivere a un dolore che non riesce più a contenere. Eppure, il suo tentativo di allontanarsi dal branco non fa che confermare la verità essenziale del romanzo: i lupi non esistono da soli, e più un lupo si isola, più sente il proprio cuore diventare un campo di battaglia. Carter è una creatura fatta di contraddizioni, forza e insicurezza, feroce lealtà e paura di non essere all’altezza. Klune affronta tutto questo con una sensibilità attenta, mai pietistica: ci mostra un personaggio che vuole proteggere chi ama ma teme di essere lui stesso la minaccia.

Il rapporto tra Carter e Gavin, che esplode definitivamente in questo volume, è uno dei motivi per cui i lettori hanno tanto atteso Brothersong. Gavin è un personaggio che porta sulla pelle e nell’anima un’intera vita di traumi, impossibile da semplificare o romanticizzare. La sua vulnerabilità è brutale, la sua solitudine quasi selvaggia. E Carter, per la prima volta, deve scegliere non solo di amare qualcuno, ma di comprenderne la complessità senza forzarlo a guarire per rassicurarlo. Il romance qui non è un percorso pulito, ma una lotta: due cuori che devono imparare a pulsare insieme senza annullarsi.

Uno dei grandi punti di forza della serie Green Creek è la capacità di fondere mitologia e quotidiano, magia e psicologia. Le dinamiche del branco non sono solo sovrannaturali: rappresentano la famiglia come sistema vivo, in cui protezione e soffocamento possono assomigliarsi. Klune non si tira indietro nel mostrare le crepe dell’amore: la fiducia va conquistata, la rabbia esiste e deve avere un nome, l’appartenenza non può essere un obbligo. Ogni personaggio è toccato dal trauma, ma nessuno è definito solo da esso.

C’è un equilibrio delicato tra ferocia e tenerezza, tra dolore e comicità. Come nei volumi precedenti, l’autore alterna scene che spezzano il fiato a momenti di leggerezza che funzionano come vere e proprie ancore emotive. Il dialogo è affilato, pieno di battute che diventano scudi, di dichiarazioni d’amore che somigliano a confessioni sussurrate nella notte.

L’elemento fantasy continua a essere metafora del vissuto interiore: il lupo che si trasforma è anche un modo per parlare di rabbia repressa, di identità da accettare, di corpi che finalmente diventano casa. La battaglia tra il bene e il male non è mai solo esterna: è il conflitto più profondo, quello che si combatte dentro di sé.

Klune, come sempre, non ha paura di sporcarsi con i sentimenti estremi. Ci sono scene in cui il cuore sembra sgretolarsi, altre in cui torna a battere con una gratitudine quasi fisica. Brothersong parla di traumi generazionali, di perdono che non è mai semplice, di amore queer che si afferma con la forza di una verità impossibile da negare.

È una conclusione potente, affettuosa, rispettosa dei personaggi. Non edulcora il loro percorso: mostra quanto sia difficile tornare dove si è stati feriti, ma anche quanto sia necessario farlo se si vuole davvero guarire. Alla fine, Carter trova quella casa da cui era fuggito, ma non perché gli altri siano cambiati, bensì perché finalmente accetta di essere amato senza condizioni.

Brothersong è un romanzo pieno di ululati che non chiedono permesso, di mani che si stringono nonostante tutto, di battiti che rimangono sincronizzati. Una chiusura che rende giustizia all’intero viaggio: forte, emozionante, e profondamente umana.

“Il caffè della luna piena” di Mai Mochizuki – Mondadori

“Il caffè della luna piena” di Mai Mochizuki è un romanzo che accoglie il lettore come farebbe un locale segreto, trovato per caso in una sera in cui si ha bisogno di risposte più che di una bevanda calda. Tra le strade di Kyoto e sulle rive del fiume, appare una roulotte che non si lascia scovare se non nelle notti illuminate dalla luna piena. È un luogo transitorio, ma intensamente simbolico: chi ci entra non cerca un caffè, cerca un orientamento. Eppure non è il cliente a decidere cosa ricevere: sono i gatti astrologi che scelgono per lui. È qui che il libro rivela subito la sua natura: non un fantasy nel senso più classico, ma una fiaba moderna che affida ai segni e agli incontri il compito di smuovere ciò che nella vita si è bloccato.

Il protagonista silenzioso del romanzo è lo chef della roulotte, un grande gatto tigrato con un talento speciale: scruta l’anima altrui attraverso le stelle. L’idea che a guidarci possa essere una creatura notturna, che vive tra magia e quotidianità, è una metafora che funziona perfettamente nella filosofia orientale che permea la narrazione: chi sa leggere l’universo è spesso chi in apparenza ci osserva dalla soglia.

Nel caffè non si può ordinare nulla: si accetta ciò che viene offerto, come nella vita accettiamo ciò che arriva quando smettiamo di controllare compulsivamente il destino. Mochizuki non lo dice apertamente, ma lo suggerisce in ogni scena: arrendersi non è rinunciare, è affidarsi alla possibilità di un percorso nuovo. La scrittura è semplice, limpida e mai banale: dietro la leggerezza del tono si avverte una consapevolezza spirituale forte, ma mai invadente.

Nel corso della storia incontriamo personaggi in cerca di una strada: Serikawa, una sceneggiatrice che ha conosciuto il successo troppo presto e ne è stata schiacciata; Akari, che ha perso l’amore e sé stessa insieme ad esso; Megumi, sospesa tra carriera e sentimenti; Mizumoto, costretto a rivedere il proprio passato dopo un incontro inatteso. Ognuno di loro porta con sé un dolore, una ferita invisibile che solo un occhio esterno sembra capace di vedere con chiarezza. Sono personaggi realistici, persone che potremmo incontrare nella vita di tutti i giorni, e questa vicinanza amplifica l’effetto di consolazione che il romanzo promette.

Il caffè, allora, diventa un luogo terapeutico, uno spazio in cui il conflitto interiore può finalmente emergere, e dove ciò che si beve o si mangia, un latte stellare, un pancake al burro del plenilunio, un gelato al chiaro di Venere e Luna, diventa rituale, medicina, linguaggio. Il cibo qui è esperienza emotiva: cura, memoria, evocazione di ciò che crediamo perduto.

La struttura del romanzo è episodica, ma non frammentaria: ogni storia personale aggiunge un tassello al messaggio centrale. È un libro che parla alla parte più fragile del lettore dicendole che la fragilità è, in realtà, un punto di partenza. La magia non è mai spettacolare o invadente: è sottile, quotidiana, nascosta negli incontri che ci cambiano, nelle parole giuste al momento giusto, nei ritorni inattesi.

Kyoto non è solo sfondo: è un personaggio a sua volta. Le sue vie antiche, i ponti, le lanterne, la natura che respira accanto alla modernità, creano un’atmosfera in cui il fantastico sembra inevitabile, un’estensione naturale del reale. Mochizuki riesce a rendere visibile il confine tra mondo e destino proprio nel momento in cui lo attraversiamo senza accorgercene.

“Il caffè della luna piena” è un romanzo sul perdersi, sul fermarsi e sul ricominciare. Non offre risposte assolute, ma suggerisce che la nostra strada esiste già, anche quando non riusciamo a scorgerla. Basta alzare lo sguardo verso la luna, o magari affidarsi a un gatto che conosce le stelle meglio di noi. È un libro che consola senza mai smettere di rispettare il dolore di chi legge, e che lascia nel cuore un tepore gentile, simile a quello di un abbraccio in una notte d’inverno rischiarata dal chiarore celeste. Un piccolo incanto, che dura il tempo di un sorso, ma resta molto più a lungo.

“Monstrilio” di Gerardo Sámano Córdova – La bottega dell’Invisibile

“Monstrilio” di Gerardo Sámano Córdova è uno di quei romanzi capaci di affrontare il lutto passando dalla porta più buia: quella del mostruoso. Una storia perturbante, quasi innaturale nella sua premessa, che però colpisce al cuore proprio perché ci parla della capacità umana di distorcere l’amore pur di non rinunciare a ciò che si è perduto. Magos, madre devastata dalla morte del figlio undicenne Santiago, compie un gesto folle: gli taglia un pezzo di polmone, lo accudisce come fosse un seme e lo trasforma, per nutrimento, desiderio e disperazione, in una creatura vivente. Monstrilio nasce così: non come miracolo, ma come rifiuto di accettare la fine.

L’idea narrativa, audace e disturbante, non si ferma all’immagine del corpo che continua a vivere: Córdova porta il lettore dentro una riflessione dolorosissima sulla maternità, sulla necessità di controllare ciò che amiamo e sulla colpa che ci scava dentro quando la realtà ci sfugge dalle mani. Monstrilio, inizialmente piccolo e apparentemente innocuo, cresce nell’ombra di una casa di Città del Messico. È animale, ma anche bambino. È figlio e al tempo stesso minaccia. È la proiezione tangibile del lutto di Magos, il suo desiderio che Santiago possa tornare, che quel pezzo strappato alla vita si riempia di nuovo di futuro.

La metamorfosi della creatura, che col tempo inizia a somigliare sempre di più al ragazzo perduto, è una delle parti più potenti del romanzo. Non si tratta solo di imitazione fisica: la domanda centrale è quanto di Santiago sia davvero tornato, e quanto invece sia solo un involucro modellato dalla disperazione materna. E ancora: cosa accade quando l’amore pretende che qualcuno sia esattamente come lo ricordiamo? Córdova non risponde in modo semplice. Anzi, ci mette davanti alla crudeltà delle nostre aspettative: ciò che chiediamo ai morti è spesso ancora più spietato di ciò che chiediamo ai vivi.

Monstrilio è anche un romanzo sui limiti della famiglia, sul modo in cui i legami che dovrebbero accogliere e proteggere finiscono per manipolare, nascondere, controllare. La creatura prova a imparare a essere umano, ma porta in sé un istinto primordiale che non si lascia addomesticare: la violenza. Ogni gesto affettuoso contiene un rischio. Ogni sorriso può trasformarsi in un morso. La tensione costante tra amore e distruzione è la colonna portante del racconto.

La prosa di Córdova è densa, visionaria e chirurgica allo stesso tempo. È una scrittura che mette a nudo i sentimenti senza mai indulgere nel melodramma, che affronta la perdita come una presenza fisica, un personaggio tra gli altri. Il romanzo si muove attraverso diverse città, dalla capitale messicana a Brooklyn, fino a Berlino, quasi come se il dolore avesse bisogno di migrare per sopravvivere, per cambiare forma, per trovare un nuovo linguaggio con cui farsi comprendere.

Ciò che colpisce di più è la sincerità del racconto: non c’è un tentativo di giustificare Magos, né di presentare Monstrilio come un semplice simbolo. Entrambi esistono nella loro contraddizione: una madre che ama fino a stravolgere la natura, un figlio che vuole imparare a essere buono ma è nato dalla carne della perdita, non dalla gioia della vita. Questo rende la storia profondamente inquietante e al tempo stesso struggente: chi siamo quando l’amore ci strappa alla ragione?

“Monstrilio” è un romanzo sul dolore che prende forma, sul desiderio che divora, sull’impossibilità di accettare la morte senza perdere una parte di sé. È anche un libro sull’identità: come si diventa umani quando il nostro inizio non è stato un atto d’amore ma un atto di disperazione? Córdova affronta questi interrogativi con sensibilità e coraggio, costruendo un’opera che rimane addosso, che lascia graffi sulla coscienza e un sapore di verità difficilmente cancellabile.

Non è una storia di mostri: è una storia su ciò che l’amore può trasformare in mostro. Un romanzo unico, che scava in profondità e non permette di distogliere lo sguardo. E che forse ci ricorda che il vero orrore, spesso, nasce da un cuore che vuole solo continuare a battere.

“Mille Autunni”. Volume 1 – La caduta” di Meng Xi Shi – Mondadori

“Mille Autunni. Volume 1 – La caduta” è l’attesissimo debutto italiano di una delle opere più raffinate e influenti della narrativa wuxia contemporanea di area danmei, pubblicata in Italia da Mondadori con traduzione di Margherita Carbonaro. Un romanzo che unisce la spettacolarità delle arti marziali cinesi a una scrittura elegante, attenta all’evoluzione psicologica dei personaggi, al filo sottile che separa il bene dal male e alla complessità delle relazioni umane. È una storia che affonda le sue radici nella tradizione epica dell’Estremo Oriente, ma che guarda con convinzione alla modernità del romanzo di formazione e della riflessione filosofica.

Al centro della narrazione troviamo due personaggi opposti, che bruciano entrambi di una forza interiore innegabile: Yan Wushi, capo della setta demoniaca Huanyue, maestro di arti marziali e osservatore cinico del mondo, e Shen Qiao, leader della scuola taoista del monte Xuandu, erede di una tradizione votata alla compassione e all’etica del bene. Yan Wushi vede nell’umanità soltanto egoismo e brutalità: la sua filosofia è quella del sospetto, della forza, dell’affermazione del sé. Shen Qiao è il contrario: dolce, devoto, convinto che virtù e moralità non siano illusioni ma un cammino necessario.

Il punto di rottura si consuma quando Shen Qiao perde tutto: sconfitto in duello, abbandonato in fin di vita, accecato e privo di memoria. È allora che Yan Wushi lo raccoglie dalla morte, non per carità, ma come esperimento filosofico e psicologico: vuole dimostrare che nessuno resiste al mondo senza corrodersi nel profondo. Curandolo e proteggendolo, lo mette alla prova costante, spingendolo al limite per smontarne le certezze e trascinarlo sul cosiddetto “sentiero demoniaco”.

La relazione tra i due protagonisti è il cuore pulsante del romanzo: fatta di sfide silenziose, incomprensioni, rispetto negato e desiderio di annientamento e riscrittura dell’altro. Il loro legame possiede la tensione di uno yin e yang narrativo, in cui le polarità si attirano mentre cercano di respingersi. La componente romantica, accennata, ma palpabile, si insinua nel testo come una promessa, come una domanda che non trova ancora risposta: può la luce modificare l’ombra? Può l’ombra contaminare la luce senza spegnerla?

La scrittura di Meng Xi Shi è ricca di pathos ma mai ridondante: ci sono scene di battaglia di grande impatto, descritte con dinamismo cinematografico, e momenti di quiete che rivelano la fragilità dei protagonisti. Il worldbuilding è solido, costruito attraverso i codici del wuxia, clan mistici, maestri invincibili, intrighi tra scuole rivali, ma sempre sotto la lente della crescita interiore.

Questa nuova edizione italiana, curata e imponente, rende finalmente giustizia a un titolo che ha già conquistato migliaia di lettrici e lettori nel mondo, soprattutto nel fandom danmei. Il registro rimane accessibile anche a chi si avvicina per la prima volta al genere, grazie al bilanciamento perfetto tra narrazione epica e indagine emotiva.

“Mille Autunni” è una storia sul potere, sulla caduta e sulla possibilità di rinascere diversi. È un romanzo che chiede al lettore se la bontà sia davvero più fragile della crudeltà, o se il dolore possa, paradossalmente, essere il terreno in cui germoglia una nuova forma di forza.

Con questo primo volume, Meng Xi Shi getta le basi di un’opera intensa, magnetica e malinconica. Una lettura imperdibile per chi ama il wuxia raffinato, le storie a lenta combustione e i personaggi che non si smette di interrogare neppure dopo aver chiuso il libro. Un incipit che promette mille altri desiderati autunni.

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