Settembre ha il suono dei trolley che rientrano, degli orari che ricominciano, delle sveglie che tornano a suonare troppo presto. Per molti, è il mese della ripartenza, della routine che riaffiora, del lavoro che reclama attenzione.
Ma se c’è una cosa che può rendere sopportabile anche il più lungo tragitto in metro o il ritorno alla scrivania, è un libro capace di rapirti, anche solo per poche pagine.
Libri da leggere nel tempo sospeso del pendolarismo, in pausa pranzo o alla fine di una giornata stancante, quando l’unico rifugio possibile è una storia ben scritta.
Alcuni sono dolci, altri struggenti, altri ancora affilati come lame. Ma tutti, in modi diversi, sanno tenerti compagnia nei giorni in cui la leggerezza sembra lontana.
6 libri da leggere che renderanno più dolce il tuo rientro a lavoro
Che si tratti di salire su un treno affollato o di cercare un angolo di silenzio tra le mail, leggere uno di questi libri è come aprire una finestra nel mezzo della routine.
Ti ricorda che, anche nei giorni più ripetitivi, esiste ancora la possibilità di stupirsi, di commuoversi, di sentirsi vivi. E che non serve andare lontano per viaggiare davvero: basta scegliere la storia giusta e portarla con sé, tra una fermata e l’altra, come un amuleto contro la fatica del rientro.
C’è un momento, nella vita di chi scrive, in cui il ritorno diventa origine. Non il ritorno nostalgico, ma quello creativo: lo sguardo che si posa di nuovo sui luoghi dell’infanzia e li trasforma in racconto.
In “L’argine” Irene Solà, autrice acclamata per Canto io e la montagna danza, ci regala un romanzo d’esordio sorprendente e già perfettamente riconoscibile, in cui la materia della narrazione nasce dalla vita quotidiana e si espande in direzioni imprevedibili, tra realismo, invenzione e suggestione lirica.
Dopo tre anni a Londra, Ada torna a casa. I mesi estivi diventano il tempo lento e sospeso in cui le relazioni, i silenzi e le piccole storie si sedimentano. Il ritorno è anche un invito alla scrittura, e così Ada comincia a raccontare: di Vicenç e del suo amore mai sopito, di una faina sui tetti, di una mucca che si chiama Samantha, di antichi saperi e prigioni, di pesci siluro che nuotano nel buio del pantano di Sau.
“L’argine” non è un romanzo tradizionale. È piuttosto una costellazione di racconti che si tengono insieme come frammenti di memoria, come affreschi sparsi di un mondo intimo ma collettivo.
I personaggi non sono solo figure narrative: sono presenze, fantasmi, ricordi, futuri possibili. Ogni storia ha la forza di una fiaba e la concretezza della terra.
La scrittura di Irene Solà è già, in questo primo libro, sperimentale e carnale, poetica e concreta. C’è un ritmo che mescola il parlato con l’evocazione lirica, c’è una lingua che sa farsi gioco, che esplora, che osa. È una scrittura che non si accontenta di raccontare: vuole trasformare il mondo attraverso la parola.
Ada scrive per ritrovare un senso. Ma scrivendo, finisce per trasformare tutto ciò che osserva. La casa, la valle, la famiglia, gli animali, persino l’aria calda dell’estate: ogni cosa entra nel racconto e ne esce diversa, reinventata.
Non c’è nostalgia nel gesto narrativo, ma una volontà di trascrivere la complessità del vissuto, e di farlo con leggerezza e intensità insieme.
È un libro che parla di ritorno, sì, ma anche di radici che si spostano, di corpi che restano e di parole che volano. E in questo, Irene Solà anticipa perfettamente i temi dei suoi lavori successivi: la natura come personaggio, la coralità delle voci, la forza della lingua come materia viva.
Irene Solà è oggi una delle voci più originali della narrativa catalana contemporanea. Con Canto io e la montagna danza ha vinto premi internazionali ed è stata tradotta in tutto il mondo. Ma già in questo suo primo libro si intravede quella tensione poetica e visionaria che la critica ha poi riconosciuto come cifra distintiva.
“L’argine” è il seme da cui tutto ha preso forma. Un libro da leggere come si sfoglia un album di fotografie: lentamente, lasciando che ogni immagine apra una storia.
È una dichiarazione d’amore per la scrittura e per la vita nei suoi dettagli più minimi, un’opera che non urla, ma che lascia un’eco profonda. Irene Solà ci invita a guardare con occhi nuovi ciò che credevamo di conoscere. E a riscoprire, nel familiare, tutto il potere dell’immaginazione.
“La femminanza” di Antonella Mollicone
In un mondo che cambia sotto i colpi della Storia, tra dittature e ricostruzioni, tra amori sofferti e scelte coraggiose, le donne continuano a parlarsi, a tramandarsi, a proteggersi.
“La Femminanza”, romanzo di Antonella Mollicone, è un inno delicato e potente a questa sorellanza silenziosa e resiliente, che si intreccia con mezzo secolo di storia italiana per raccontare ciò che spesso resta fuori dai libri di scuola: la vita vissuta dentro le case, le ferite nascoste nei corpi, la libertà cercata nei gesti quotidiani.
Siamo nella Rocca, un piccolo paese del basso Lazio, nel 1920. Camilla Maletazzi, erede silenziosa di una famiglia altolocata, custodisce nel cuore un dolore indicibile, troppo profondo per essere raccontato. Sarà Peppina, la levatrice e chiudiocchi, a tenderle la mano e introdurla alla Cerchia, un gruppo informale di donne che cura, ascolta, tramanda e accoglie.
In quella stanza fatta di parole, tisane e saperi antichi, Camilla troverà non solo conforto, ma anche la chiave per vivere pienamente il suo matrimonio, la sua maternità, la sua storia. Il romanzo si apre su Camilla, ma presto la narrazione si espande: è Viola, sua figlia, cresciuta nel dopoguerra, a raccoglierne l’eredità.
Nella Cerchia, Viola troverà la forza di sfidare le aspettative del suo tempo, tra la voglia di studiare e la trappola dell’amore che vuole imprigionare. E sarà proprio grazie alla voce delle altre donne, madri, contadine, artigiane, levatrici, che scoprirà che il vero amore, come la vera libertà, non ha paura della forza altrui.
Con una scrittura intensa, viva e radicata nei dettagli del quotidiano, Mollicone costruisce una saga femminile che attraversa l’Italia del Novecento, restituendoci i passaggi cruciali di una nazione in cambiamento attraverso lo sguardo delle donne. Donne che non fanno la guerra, ma la sopportano.
Che non siedono al governo, ma cambiano la società con piccoli gesti, generazione dopo generazione. Una delle parole chiave del romanzo è “femminanza”: un neologismo che unisce sorellanza, maternità, amicizia, memoria, cura.
Nella Cerchia si parla un linguaggio tutto femminile, fatto di intimità e potere, di corpo e coscienza, di narrazione e solidarietà. È una lingua antica e futura insieme, che resiste al fascismo, alla guerra, alla tentazione dell’oblio.
Camilla e Viola sono due facce della stessa eredità: due donne diverse, in epoche diverse, ma unite dalla stessa necessità di non sentirsi sole, di trasformare il dolore in possibilità. È in questo che La Cerchia riesce a parlare al presente, pur essendo un romanzo storico: perché la fatica di conciliare libertà e amore, desiderio e destino, resta quanto mai attuale.
Il libro si ispira ai racconti orali di molte famiglie del centro Italia, e in particolare alle figure delle levatrici e delle guaritrici, un tempo centrali nella vita dei piccoli paesi. Peppina, personaggio inventato ma verissimo, rappresenta la sapienza femminile che passa di bocca in bocca, mai scritta ma profondamente radicata.
Una memoria fatta di mani, di segreti, di rimedi. Che diventa, grazie a Mollicone, materia letteraria.
“La Femminanza” è un romanzo denso di emozioni, di Storia e di storie, che racconta con delicatezza e profondità cosa significa essere donne, ieri e oggi.
Antonella Mollicone firma un esordio maturo e toccante, capace di coniugare la dimensione intima con quella collettiva, la narrazione con la memoria, la fragilità con la forza senza tempo della cura. Un libro da leggere con lentezza, con gratitudine. E magari da tramandare, come si fa con le ricette, i rimedi, e le verità dette sottovoce.
“Il cartone di mio padre” di Lukas Bärfuss
A volte non è un trauma, né una perdita, né una rivelazione. È una scatola. Una semplice scatola di cartone, abbandonata per venticinque anni in una cantina, che diventa il detonatore di un’indagine vertiginosa sull’identità, sull’eredità, su ciò che riceviamo anche quando non lo vogliamo.
Con “Il cartone di mio padre”, lo scrittore e drammaturgo svizzero Lukas Bärfuss firma uno dei memoir più originali e potenti degli ultimi anni: un atto di accusa contro il mito della trasmissione familiare, ma anche un disperato tentativo di comprensione.
Dentro quella scatola c’è tutto ciò che resta di un uomo che “si diceva fosse suo padre”. Non affetto, non orgoglio, ma carte, fallimenti, debiti, sentenze.
Il ritratto di un’esistenza fallita, marginale, che però impone, al figlio, una pesante eredità simbolica. Perché il vero lascito non sono i beni, ma i vuoti. E Il cartone di mio padre li illumina uno per uno, con una prosa tagliente, densa, priva di sentimentalismi.
Bärfuss non scrive per fare pace con il passato. Scrive per smontarlo, per guardarlo in faccia senza retorica. L’autore parte da una vicenda personale ma presto allarga lo sguardo: la figura del padre diventa metafora di un intero sistema culturale e sociale basato sul privilegio, sul possesso, sull’eredità come meccanismo invisibile di potere e oppressione.
Con riferimenti che spaziano dalla Bibbia a Darwin, da Wittgenstein al diritto romano, il libro si trasforma in un saggio narrativo, filosofico, radicale. Non è solo la genealogia familiare a essere messa in discussione, ma la genealogia come concetto, come struttura.
Chi eredita cosa? Perché? E a quale prezzo? La potenza del libro sta nella sua lucidità: Bärfuss non consola, non edulcora, non cerca alibi. Il suo memoir è una lama: taglia i legami familiari, i valori borghesi, le convenzioni narrative. Fa i conti con la povertà, con la vergogna, con il peso di una paternità mai voluta e mai ricevuta, e allo stesso tempo ci costringe a chiederci: cosa ereditiamo davvero, quando ereditiamo? E chi decide il valore, o il veleno, di ciò che ci viene lasciato?
In questo senso, “Il cartone di mio padre” è anche una critica spietata al concetto di proprietà, di nazione, di identità tramandata. Una riflessione necessaria in un mondo che sta cercando, faticosamente, di immaginare nuovi modi di appartenere e di esistere.
Nato nel 1971, Bärfuss è tra gli autori più significativi della scena letteraria e teatrale svizzera. Le sue opere affrontano spesso temi etici, politici e sociali con uno sguardo critico e spregiudicato. Con “Il cartone di mio padre” ha rotto un tabù culturale e biografico, affrontando il legame con la figura paterna non con tenerezza, ma con verità scomoda.
“Il cartone di mio padre” è un libro che non si dimentica. È un memoir, ma anche un manifesto. Una confessione, ma anche una demolizione.
Lukas Bärfuss riesce a raccontare il personale come struttura, l’intimo come politica, e ci consegna un’opera dura, necessaria, che mette in crisi le fondamenta su cui spesso costruiamo l’identità. Un libro per chi non teme le domande difficili. E per chi crede che anche la genealogia debba passare, prima o poi, da una resa dei conti.
“L’imperatore della gioia” di Ocean Vuong
Ci sono libri che arrivano come carezze, altri come pugni. Poi ci sono quelli che, come “L’imperatore della gioia”, ti attraversano come una ferita che cura, lasciandoti in bilico tra dolore e gratitudine.
Con questo nuovo romanzo, Ocean Vuong, poeta e autore rivelazione di “Brevemente risplendiamo sulla terra”, firma una storia che è al tempo stesso un inno alla fragilità e una riflessione lirica sulla possibilità di rinascere, anche quando tutto sembra perduto.
Siamo a East Gladness, Connecticut, in una sera di pioggia che segna un confine: Hai, diciannove anni, sul bordo di un ponte, pronto a lasciarsi andare, incontra Grazina, anziana vedova lituana, sopravvissuta alla guerra, alla perdita, al tempo.
È l’inizio di un legame inatteso, che cambia tutto. Inizia con un gesto di salvezza e si trasforma in una convivenza di anime sopravvissute, due vite ai margini che si riconoscono e si raccontano.
Con una scrittura che resta tra le più poetiche della narrativa contemporanea, Vuong scava nel dolore per trovare la possibilità della bellezza. Hai è un ragazzo spezzato, incapace di credere ancora in sé stesso, figlio di una madre che non ha potuto capirlo.
Grazina è la memoria vivente di un’Europa ferita, di un tempo in cui anche sopravvivere era un atto rivoluzionario. Insieme, costruiscono un rifugio fragile ma reale, fatto di silenzi condivisi, cibo preparato con lentezza, letti rifatti con cura.
Ogni gesto, ogni frase, ogni dettaglio, nel romanzo, è una ribellione alla brutalità del mondo. Vuong racconta la compassione, la gentilezza, la tenerezza come forme di resistenza.
Il titolo stesso, “L’imperatore della gioia”, è una provocazione poetica: chi ha perso tutto può ancora essere re, se regna su un regno di piccole cose salvate.
Vuong ha dichiarato di voler riscrivere il grande romanzo americano da un’altra prospettiva: non più l’ascesa, il successo, la conquista, ma la sopravvivenza, la cura, la normalità conquistata con fatica.
Hai è queer, asiatico, povero, senza radici stabili: tutto ciò che la narrativa classica americana ha spesso marginalizzato. Ma proprio da questo margine nasce una nuova epica dell’umano: più vera, più tenera, più radicale. Il libro è attraversato da una malinconia dolcissima, ma anche da improvvisi lampi di ironia, di tenerezza disarmata.
Vuong non idealizza, ma non indurisce mai lo sguardo. E ci ricorda che la poesia può nascere anche dal fango, anche dai ponti in una sera di pioggia.
Nato in Vietnam nel 1988 e cresciuto negli Stati Uniti, Ocean Vuong è poeta prima che narratore. La sua scrittura, anche in prosa, conserva il respiro lirico e la precisione emotiva della poesia. Con questo romanzo ha confermato il suo posto tra le voci più incisive della letteratura contemporanea, capace di unire l’intimità più vulnerabile a una visione politica ampia, inclusiva, necessaria.
“L’imperatore della gioia” è un libro che consola senza nascondere, che spezza il cuore senza essere mai ricattatorio, che abbraccia chi legge con la tenerezza di chi sa cosa vuol dire stare sull’orlo.
Ocean Vuong ci regala una storia di amore e di possibilità, che rifiuta ogni retorica e trova la sua forza nelle crepe. Un romanzo che parla al nostro tempo con voce limpida e profondamente umana. Un romanzo che resta.
“Il sogno del giaguaro” di Miguel Bonnefoy
Ci sono storie che nascono tra i gradini di una chiesa e finiscono per abbracciare un intero paese. Così accade in “Il sogno del giaguaro” dove lo scrittore franco-venezuelano Miguel Bonnefoy intreccia memoria personale e immaginazione letteraria, trasformando la sua genealogia familiare in una saga epica e poetica.
Un libro che è al tempo stesso romanzo storico, racconto popolare e lettera d’amore al Venezuela. Tutto comincia con una mendicante muta a Maracaibo, che trova un neonato abbandonato. Quel bambino, Antonio, crescerà tra miseria e dignità, attraversando ogni gradino della scala sociale: venditore ambulante, facchino, poi domestico in un bordello, infine, chirurgo di fama nazionale.
A guidarlo sarà l’amore per Ana Maria, prima donna medico della regione, e insieme daranno alla luce una figlia che porta il nome del loro paese: Venezuela. Bonnefoy riesce nel miracolo narrativo di trasformare ogni vita individuale in metafora collettiva.
I suoi personaggi non sono solo esseri umani: sono emblemi, sogni, radici. Antonio rappresenta la lotta per la dignità; Ana Maria, la conquista silenziosa delle donne; Venezuela, la figlia, è il ponte tra patria e futuro, tra la selva e la città, tra Sudamerica e Europa.
Attraverso le pagine del quaderno di Cristobal, ultimo erede di questa straordinaria stirpe, il lettore attraversa generazioni di dolori e speranze, inseguendo una storia che è anche quella di un intero paese, dalle ombre del colonialismo agli slanci della modernità, passando per guerre, passioni e viaggi intercontinentali.
Miguel Bonnefoy scrive con una voce ibrida e inconfondibile: figlia del realismo magico sudamericano e della nitidezza formale della grande letteratura francese.
Il risultato è una prosa calda, traboccante, ma sempre misurata, capace di evocare la povertà senza retorica, l’amore senza cliché, la Storia senza lezioni.
C’è in ogni capitolo il respiro di Gabriel García Márquez, la malinconia di Allende, la tensione lirica di Carpentier , ma Bonnefoy non imita: rielabora, innova, rieluce. E costruisce un romanzo che commuove, che affascina, che racconta le origini non come nostalgia, ma come fucina di possibilità.
Miguel Bonnefoy ha dichiarato che la saga raccontata in questo libro è ispirata ai suoi stessi antenati, in particolare a una figura medica realmente esistita, e a un quaderno ereditato da un familiare. Lo ha trasformato in romanzo per dare voce alle memorie mute della sua genealogia, e soprattutto per raccontare il Venezuela non attraverso la politica, ma attraverso le emozioni, i gesti, i sogni quotidiani.
“Il sogno del giaguaro” è una saga travolgente e poetica, che ci ricorda quanto la letteratura possa essere spazio di memoria, di ricostruzione, di riscatto.
Con una scrittura avvolgente e personaggi indimenticabili, Miguel Bonnefoy ci accompagna in un viaggio che parte dal fango e arriva alla luce, dalle storie sussurrate a voce bassa alle pagine che restano. Un libro che è, in fondo, un atto d’amore per la propria terra e per tutti i destini straordinari che iniziano nel silenzio.
Scene da una domesticazione di Camila Sosa Villada
C’è chi ama per bisogno, chi per incanto, chi per ribellione. Camila Sosa Villada racconta invece un amore che è tutti questi insieme, e che si fa campo di battaglia tra desiderio e norma, libertà e prigione affettiva. Con “Scene da una domesticazione” l’autrice de “Le cattive” torna con un romanzo che è al tempo stesso intimo e politico, carnale e lucidissimo, e che mette in scena i mille e uno modi di amare quando l’amore è anche un atto di resistenza.
Protagonista è lei, attrice trans tra le più celebri e rispettate al mondo, che ha costruito la sua carriera con coraggio, talento e ostinazione.
Lui è un avvocato, affascinante, borghese, desiderato da tutti. Eppure è lui che lei sceglie, lui che decide di amare, lui con cui costruire, contro ogni consiglio, ogni allarme, una casa, una quotidianità, una famiglia. Ma è proprio lì, in quella apparente pace, che nasce l’inferno domestico.
Perché in quel rifugio, che prometteva affetto e stabilità, si annidano le aspettative eteronormative, la pressione dell’“essere come tutti”, il lento processo di addomesticamento che trasforma la ribellione in rinuncia.
La protagonista: brillante, libera, irriverente, si ritrova a vivere una normalità che non le appartiene, mentre sul palco, nel portare in scena La voce umana di Cocteau, riscopre la ferita e la potenza della voce di chi ama troppo.
Camila Sosa Villada usa la relazione sentimentale per scardinare i miti dell’amore romantico e della famiglia tradizionale, restituendoci una narrazione queer che non è solo rappresentazione, ma rottura.
Non c’è vittimismo né idealizzazione: c’è una scrittura potente, sensuale, dolente e lucidissima, capace di far emergere la complessità delle relazioni e la trappola delle strutture sociali che le definiscono.
Il romanzo è scritto con uno stile elegante, teso, cinematografico, dove ogni parola ha il peso di una scelta e il ritmo di una battuta teatrale.
Il corpo è sempre al centro: corpo che desidera, che si adatta, che si ribella, che si trasforma. Ogni pagina pulsa di erotismo e di fragilità, e la voce narrante, così umana, così indifesa, accompagna il lettore nei territori scivolosi della dipendenza emotiva, dell’amore tossico, della speranza impossibile.
Nel romanzo, la protagonista sceglie di portare in scena La voce umana di Jean Cocteau, un monologo straziante sull’abbandono e sull’impossibilità di essere amati fino in fondo.
La scelta non è casuale: come Cocteau, Villada mette in scena una voce sola contro il mondo, una donna che ama con tutto il suo corpo, anche quando l’amore la fa a pezzi. Ma a differenza di Cocteau, qui la voce si alza anche contro il sistema, contro la domesticazione, contro l’illusione borghese del “per sempre”.
“Scene da una domesticazione” è un romanzo feroce e tenerissimo, che racconta l’amore come lo vivono i corpi queer, senza compromessi né edulcorazioni.
Camila Sosa Villada firma un testo necessario, capace di parlare al cuore e al pensiero, e di rimettere in discussione ogni forma imposta di affetto, di convivenza, di felicità.
Un romanzo che attraversa il lettore con la stessa intensità con cui la protagonista attraversa la scena: nuda, vulnerabile, inesorabilmente viva.