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Paolo Mottana, “Vi racconto come sarà la scuola del futuro”

Paolo Mottana, insieme a Giuseppe Campagnoli, immagina una scuola diversa inserita in una città diversa, in cui gli studenti non sono imprigionati

MILANO – La scuola non è soltanto il luogo in cui si formano le nuove generazioni ma è anche l’istituzione in cui riponiamo le nostre aspettative e le nostre promesse per il futuro. Ed è per questa ragione che Paolo Mottana, ordinario di filosofia dell’educazione all’Università di Milano Bicocca, ha voluto immaginare una scuola diversa, in cui i bambini imparano perché sentono il bisogno di imparare e seguono la via che detta loro la curiosità. Di questo parla in “La città educante. Manifesto della educazione diffusa. Come oltrepassare la scuola” (Asterios), scritto insieme all’architetto Giuseppe Campagnoli. Abbiamo intervistato Paolo Mottana. Ecco come dovrebbe essere la scuola secondo lui.

La sua analisi parte dagli spazi. Come sono gli spazi della scuola di oggi?

Gli spazi scolastici hanno oggi diverse caratteristiche pregiudiziarie. Per quanto riguarda l’esperienza di apprendimento, prima di tutto sono luoghi chiusi, separati dalla società e dal mondo. Sono gabbie in cui dominano separazioni di ogni tipo: di tempo, di orario, di spazio, di materie, di classi di età. Sono spazi che hanno la forma delle strutture totali nate all’alba del ‘700 come ospedali e carceri, create con la funzione di contenimento, non dell’apprendimento.

Perché tentiamo di isolare i bambini e i ragazzi?

Perché la nostra società è concentrata su tutt’altro, non certo sulla qualità della nostra vita. Pensiamo soltanto alla quantità di ciò che viene prodotto, a profitto tra l’altro soltanto di pochi. I ragazzi e i bambini ne pagano le conseguenze, così come la maggior parte delle persone. Dobbiamo pensare globalmente al nostro modo di vivere e forse partendo da un pensiero serio su bambini e ragazzi potremmo fare un po’ di strada in avanti.

I ragazzi meritano di meglio.

Sì, meritano di essere considerati soggetti a pieno titolo, degni di partecipare, magari accompagnati, alla vita sociale. Credo che la città dovrebbe prendere in considerazione questa presenza a partire da qualcosa che potremmo chiamare “punti base”, luoghi in cui ci si raccoglie e in cui si progettano esperienze, uscite, attività, al termine delle quali si ritorna alla base per rielaborare ciò che si è vissuto e imparato. Tuttavia, temo che questa prospettiva risulti fantascientifica, ma credo che questa sia la strada giusta. Noi abbiamo bisogno che i bambini tornino in circolazione e loro hanno bisogno uscire da quelle quattro pareti.

Quale sarà il nuovo ruolo dell’insegnante e come dovrà essere formato?

Nel mio libro ho provato a formulare delle ipotesi. La mia idea è che ci vorranno delle figure guida molto diverse dai docenti odierni. Io li ho chiamati mentori (che potranno essere insegnanti che si riposizionano in questi nuovi ruoli), che si occuperanno più che altro dell’animazione e dell’organizzazione. Avranno compiti su piccoli gruppi di ragazzi per organizzare le esperienze all’interno di un percorso che man mano diventerà sempre più autonomo da parte dei ragazzi stessi. Gli insegnanti tradizionali potranno fornire contributi o consulenze vere e proprie sulle materie, in funzione dei diversi obiettivi che ci si porrà in una programmazione che ovviamente non potrà più essere quella così sedimentata e classificatoria che oggi si trovano davanti gli studenti.

Come ci potremmo immaginare una lezione d’italiano?

L’italiano è uno strumento indispensabile per comunicare nella nostra società. Gli studenti saranno chiamati continuamente a usare la lingua, solo che la dovranno vedere più come strumento che come un fine. Secondo me non ha più senso fare una lezione di italiano in sé, calata dall’alto e imposta perché si suppone che a una certa età si debba imparare a leggere e a scrivere. Secondo me ha molto più senso che nasca una domanda che pian piano matura, a seconda delle attività che si fanno. Allora saranno opportuni anche momenti dedicati alla grammatica, alla lettura, alla scrittura.

Abbiamo insomma qualche problemi con i tempi dell’insegnamento.

La mia sensazione è che la scuola, essendo un contenitore per tenere separati i bambini e i ragazzi della società perché intralciano il flusso del nostro tipo di vita, abbia allungato enormemente i tempi di un apprendimento che, in situazioni di motivazione decente, potrebbe essere molto più breve. Potrebbero esserci dei momenti intensivi, in cui ovviamente si è pronti e preparati a imparare. Siccome vanno tenuti lì, invece, si fa in modo che imparino lentamente e che imparino molte cose inutili, invece di fare esperienze che potrebbero ampliare le loro conoscenze teoriche e pratiche. Le lezioni possono esserci, ma non si può più pensare che astrattamente, a un certo punto, l’insegnante decida di fare lezione di questo argomento o di un altro. Ogni conoscenza va contestualizzata in un reticolo di esperienze che abbia un senso.

Cambia la scuola, cambia il mondo. La scuola è la fucina dei cambiamenti.

Certamente. Immagini una città in cui bambini e ragazzi hanno di nuovo la possibilità di andare in giro liberamente. Pensi a quali cambiamenti, anche strutturali, bisognerebbe apportare, a partire da una viabilità diversa e da una vera ciclopedonalizzazione, dalla creazione di una città che renda possibile ai bambini e ai ragazzi muoversi liberamente. La loro presenza imporrebbe a tutti una riflessione profonda su come sta funzionando la nostra vita. Credo che la nostra vita scorra un po’ a lato della nostre esigenze più profonde, una delle quali io credo sia quella di stare insieme a bambini e ragazzi.

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