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Invalsi, esempio di come l’istruzione in Italia sia superata didatticamente

Il tentativo di valutare o meglio di verificare da parte del Ministero della Pubblica Istruzione italiana il livello culturale della scuola italiana di ogni ordine e grado tramite due test dell’Invalsi...

Il tentativo di valutare, o meglio, di verificare da parte del Ministero della Pubblica Istruzione italiana il livello culturale della scuola italiana di ogni ordine e grado tramite due test dell’Invalsi, di fondamentale importanza quali l’italiano e la matematica, ha provocato anche quest’anno una levata di scudi generalizzata tra i professori e non con argomentazioni varie che meritano una chiarificazione di cui hanno riferito anche i mass media nazionali. I Cobas sono scesi in piazza contro “l’insensato rito dei quiz indovinello”.

L’Anief (associazione professionale sindacale) ha contestato i test usati “per etichettare la scuola e valutare gli insegnanti”. A Milano gli alunni delle seconde classi della Scuola elementare Morosini non hanno effettuato le prove dei test perché gli insegnanti hanno scioperato. Scendendo poi sulle ragioni della contestazione parecchi hanno affermato che i testi Invalsi sono uno strumento conoscitivo inutile  in quanto si tratta di rispondere si o no ai quesiti posti e ai quali spesso gli studenti non sono in grado di rispondere.

Dal canto suo il portavoce della Rete Studenti medi ha affermato che: ”Per capire la scuola italiana non bastano i numeri, è necessario un confronto con chi vive la scuola”. In tanta divergenza di opinioni dove sta la verità? Chi ha ragione? L’Invalsi o chi si oppone ai test? E qual è la posta in gioco? Roberto Ricci – che dal 2002 prepara i test –  ha precisato che essi: “Non danno solo conto dei risultati e non servono ad appiccicare bollini alle scuole”, ma più specificamente ha aggiunto: “Le diverse variabili che possono pesare sui risultati(ambiente familiare, condizioni socio-economiche, territorio hanno un peso sì ma non per “discriminare” quanto valgono per mettere in rilievo i risultati con il “contesto sociale degli alunni e della scuola”.  

Più chiaramente ha precisato Anna Maria Ajello – presidente dell’Invalsi – lo scopo dei test  serve “a costruire  dei parametri del reale funzionamento della scuola italiana, dare alle singole scuole un punto di riferimento esterno e verificato” e più in generale a conseguire l’obiettivo di “far acquisire ai protagonisti dell’educazione la cultura della valutazione”. Dunque, il reale scopo dei test Invalsi serve al governo per verificare la qualità  della scuola italiana e alle famiglie per capire se gli insegnanti dei loro figli sono validi o no. In sostanza il ministro della pubblica  istruzione del governo in carica mira a introdurre un po’ di meritocrazia nella scuola italiana in quanto la scuola italiana è una delle pochissime al mondo a non essere sottoposta a valutazione. In questo senso le contestazioni degli insegnanti e delle organizzazioni  sindacali si capiscono benissimo: i docenti italiani non sono  abituati a essere sottoposti a controlli didattici dall’alto sul proprio operato come avviene pacificamente in altri paesi come, ad esempio, la Svezia.

L’attuale situazione scolastica italiana, in verità, è l’emblema di una mentalità autoreferenziale che si ostina a non volere prendere atto che l’istruzione com’è organizzata nel nostro Paese è superata didatticamente, è il frutto di una mentalità ugualitaristica che non colma il divario tra il sapere teorico-scolastico e le esigenze del mondo del lavoro contemporaneo. Oggigiorno in nome dell’autonomia didattica, l’insegnamento di qualsiasi docente italiano delle scuole medie di primo e di secondo grado ha il fine di fornire all’allievo un sapere teorico, calato dall’alto(salvo che negli istituti tecnici in cui lo studio è necessariamente finalizzato all’apprendimento di materie specifiche inerenti la professione o il lavoro). Un sapere così che non insegna a decodificare qualsiasi testo scientifico e letterario, è superato cronologicamente in un contesto globalizzato come quello odierno. Non è un caso che nelle classifiche internazionali serie come l’Ocse la scuola italiana occupi sempre più il fanalino di coda. Invece alcune delle proteste contro i test dell’Invalsi sono giuste.

Infatti, se  è fondata l’obiezione di chi ha affermato l’idea che: “Per capire la scuola italiana non bastano i numeri, è necessario un confronto con chi vive la scuola”; che è utopistico ritenere che gli studenti delle scuole elementari, e medio-superiori  sappiano rispondere a delle domande difficili per un  insegnante(immaginarsi per uno studente!) o, ancora,  che la tipologia di test a croce rivela l’abissale distanza fra la formazione scolastica e le esigenze del lavoro, bisogna onestamente ammettere che i motivi che hanno provocato il boicottaggio  dei test dell’Invalsi non riguardano esclusivamente la tipologia scelta, né una maggior libertà di scelta degli studenti per avere più competizione bensì l’atteggiamento di rifiuto assume il senso  di ogni forma di valutazione in sé. Insomma, chi protesta non vuol essere giudicato come qualsiasi lavoratore dal proprio datore di lavoro, né dagli studenti.

Ed è bene ribadirlo: questa cultura che nega ogni sorta di valutazione – retaggio del ’68 contraria a ogni verifica e ancor oggi maggioritaria nel campo scolastico – ha appiattito e impoverito il contenuto culturale della scuola italiana e dell’intero Paese. E’ significativo, a riprova di tale tesi, un episodio. Alcuni anni addietro l’ex ministro della Pubblica Istruzione Luigi Berlinguer é stato contestato  per avere avanzato una sola proposta: premiare economicamente alcun professori migliori. Il progetto – lo ricordo –  abortì proprio per la reazione contraria degli insegnanti di ogni ordine e grado.

Giuseppe Sangregorio

27 maggio 2014

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