“Zvanì – Il romanzo famigliare di Giovanni Pascoli”: quando il cinema entra in casa del “fanciullino”

7 Ottobre 2025

Con "Zvanì", Giuseppe Piccioni racconta il Pascoli più intimo: il poeta, le sorelle, la casa e il fanciullino; il romanzo familiare nei silenzi della sua vita.

“Zvanì – Il romanzo famigliare di Giovanni Pascoli": quando il cinema entra in casa del “fanciullino”

Con “Zvanì – Il romanzo famigliare di Giovanni Pascoli” Giuseppe Piccioni prova una cosa rara: trasformare la vita di un poeta in cinema di relazione, evitando tanto l’agiografia quanto l’algida biografia scolastica. Il film arriva in sala dal 2 ottobre con Academy Two dopo il passaggio veneziano e nasce come progetto pensato anche per la TV, ma con una messa in scena dichiaratamente cinematografica: al centro Federico Cesari (Pascoli) e Benedetta Porcaroli (la sorella Maria, detta Mariù), che tengono il timone emotivo di un racconto intimo e malinconico.

Le schede ufficiali e le prime recensioni parlano di un’opera “da vedere”, 110 minuti, con un comparto attoriale che include anche nomi popolari del nostro cinema; il lancio in sala è stato confermato dalle principali testate di settore.

Piccioni non si limita a illustrare una biografia: costruisce un romanzo famigliare che mette in asse lutti, sorellanza, vocazione e famiglia come rifugio e prigione. Non a caso il titolo usa il diminutivo affettivo “Zvanì”, il nomignolo con cui in casa Pascoli chiamavano Giovanni: una scelta che dichiara fin dall’inizio la prospettiva domestica e relazionale del film.

Venezia, la sala, il piccolo schermo

La traiettoria produttiva è chiara: presentazione a Venezia (Giornate degli Autori, sezione “Confronti”), uscita in sala con Academy Two, quindi approdo televisivo. Non è un dettaglio: “Zvanì” è congegnato per parlare ai lettori, agli studenti, agli spettatori curiosi, maneggiando una materia nota (Pascoli) con un tono accessibile ma non semplificato. Le letture critiche sottolineano il passo “classico” di scrittura e il taglio insieme poetico e sospeso del racconto, “un film di fantasmi” dove il passato non smette di bussare.

Un “film di fantasmi”

“Fantasmi” non in senso gotico: “Zvanì” lavora sulle presenze invisibili che abitano la casa, sui vuoti lasciati dai morti Pascoli (il padre Ruggero, prima di tutti), sulle parole che restano a metà. La critica ha parlato di seduta spiritica privata: il cinema come modo di convocare i non detti, dare un corpo alla tristezza operosa del poeta e alla dedizione di Mariù. In questa chiave Federico Cesari fa un Pascoli raccolto, nervoso, vibratile; Benedetta Porcaroli costruisce un controcanto di pudore, energia quotidiana, cura.

La famiglia come destino e il fanciullino

Per capire il film conviene ricordare due coordinate della biografia: la sequenza dei lutti (su tutti l’assassinio del padre nel 1867) e la poetica del “fanciullino” (1897), il bambino interiore che guarda il mondo con stupore e paura. La vita di Pascoli è un montaggio di perdite e ritorni alla casa (San Mauro, poi Castelvecchio), con le sorelle come cardini affettivi e organizzativi dell’esistenza. I profili divulgativi e le pagine scolastiche ricordano quanto quel trauma abbia alimentato nostalgia, ricerca di sicurezza, fragilità; il film vi torna con delicatezza, evitando di psicologizzare troppo ma lasciando che i gesti (lo studio, la tavola, le lettere) parlino da sé.

Mariù, la custode (e personaggio chiave del film)

Maria Pascoli, la sorella minore, è la custode: della casa, della quotidianità, dell’archivio. Vive accanto al fratello fino alla fine e, dopo la sua morte, preserva documenti e memorie, diventando una figura decisiva per l’eredità pascoliana. Il film le riconosce il giusto peso, uscendo dalla caricatura della “sorella-ombra” per riconoscerle intelligenza, sensibilità, forza pragmatica. Anche le fonti biografiche confermano il ruolo centrale di Mariù come curatrice della casa e del lascito del poeta.

Ida, la “Du”: voce che riemerge dalle lettere

Ida Pascoli, l’altra sorella, è la “Du” delle lettere: un profilo meno noto, ma oggi al centro di mostre e ricerche (Casa Pascoli, Parco Poesia Pascoli) che ne rivelano l’importanza nel romanzo famigliare del poeta. Quelle carte permettono di ascoltare una voce femminile complessa, affettiva, talvolta critica, preziosa per capire l’intreccio tra vita e opera. L’articolo mette in rilievo come il film intercetti questo reticolo epistolare: la famiglia come luogo che legittima e intrappola, spazio di dedizione e debito.

Come il film racconta la poesia

Piccioni sceglie scenari concreti: le stanze (il lavoro), la tavola (il rito domestico), la pagina (il montaggio della parola). È qui che “Zvanì” diventa cinema pascoliano: non l’illustrazione di versi celebri, ma la gestazione della voce — l’oscillazione tra desiderio di appartenenza e bisogno di distanza, tra famiglia e vocazione. Una clip diffusa nei giorni dell’uscita mostra proprio questo registro: sguardi trattenuti, pagina che chiama i corpi a un diverso ordine emotivo.

Dalla vita all’opera

Se Pascoli ha portato nella poesia i nodi della sua biografia — perdita, nido, paura, stupore —, il film porta nella biografia il ritmo e la musicalità delle sue immagini: candele, stoviglie, finestre, cortili. È un cinema di cose prima che di eventi, coerente con quella poetica del minimo e del quotidiano che i manuali associano al “fanciullino”. La scelta non smussa i contrasti (il Pascoli sociale e ribelle degli anni universitari affiora nelle note di contesto), ma li assorbe nel flusso della casa.

Gli attori: due volti, una famiglia

Federico Cesari: Giovannino e l’inquietudine composta

Federico Cesari costruisce un Pascoli lontano dall’oleografia: nervi scoperti, timidezza di corpo, slanci improvvisi. Le recensioni parlano di splendore misurato, capace di reggere primi piani lunghi e di non alzare mai la voce oltre il necessario. L’idea di “poeta fuori dal mondo” funziona perché non è postura: è imbarazzo reale davanti alla vita, quella discrepanza tra bisogno di nido e inquietudine che il film mette a fuoco.

Benedetta Porcaroli: Mariù, una forza quieta

Benedetta Porcaroli disegna una Mariù operosa, intensa, tutt’altro che ancella senza volto. Nelle interviste e nei materiali stampa si insiste sulla cifra domestica del racconto: Porcaroli lavora per sottrazione, fa sentire il peso delle abitudini e la pazienza della cura. È lei a tenere insieme i fili della casa, ed è intorno a lei che il film rivela il suo titolo: “romanzo famigliare”.

Una regia “classica”, ma non scolastica

Giuseppe Piccioni ha una filmografia in cui intimità e società si parlano (Fuori dal mondo, Questi giorni, L’ombra del giorno). Qui sceglie un tono medio: nessun virtuosismo, nessuna semplificazione. La fotografia avvolge, il montaggio respira, la musica non spiega: lascia spazio alla voce (e ai silenzi). Le critiche più entusiaste parlano di gioiello di emozioni, poesia, umanesimo; quelle più analitiche insistono sull’umore iniziale come chiave per tutta la pellicola.

Un biopic “condivisibile”

Nato anche per la TV, “Zvanì” preserva la sua dignità cinematografica: niente spiegoni, attenzione agli anelli di famiglia, una linea temporale che preferisce i ritorni alle “svolte”. Questo lo rende condivisibile: per chi cerca il racconto del poeta; per chi vuole capire da dove nascono certi versi; per chi è attratto dai legami che proteggono e feriscono.

La casa come archivio morale

Le case pascoliane — San Mauro, Castelvecchio — sono oggi musei e archivi vivi, dove studiosi e lettori esplorano carte e oggetti. Il film dialoga con questa idea di casa-archivio: ogni stanza è un indice tematico (il lavoro, il lutto, la tavola), ogni oggetto un rimando. Le iniziative recenti su Ida e il carteggio con il fratello ricordano che la memoria pascoliana è plurale, femminile, condivisa.

Il poeta non come santino, ma come figlio e fratello

Il centro non è il mito del poeta, ma il nodo: come si diventa voce restando figlio e fratello? La risposta del film è sobria: con fatica, con debiti mai chiusi, col bisogno di un nido che non sia chiusura. È qui che “Zvanì” trova la sua morbida radicalità.

Passaggi obbligati: tre finestre su “Zvanì” reale

1855, nasce a San Mauro di Romagna; 1867, l’assassinio del padre Ruggero sconvolge il nido; seguono anni di stenti, studi, insegnamento. La sua poesia tiene insieme linguaggio nuovo, immagini quotidiane e un sentire infantile che non è regressione, ma metodo di conoscenza.

Mariù archivista, Mariù personaggio

Dopo la morte del poeta, Mariù custodisce e ordina l’archivio, trasformando la casa in memoria pubblica. Il film la riconsegna alla storia come soggetto, non come funzione: la cura non è un atto ancillare, ma politica degli affetti.

Ida “Du”: il controcanto

Le lettere tra Ida e Giovanni, oggi in mostra e in studio, aprono scenari su gelosie, premure, ferite: il romanzo famigliare di “Zvanì” trova in questa documentazione un eco concreto.

Un’ultima parola sugli interpreti (e su come la critica li guarda)

Le testate generaliste e di costume hanno messo in evidenza l’alchimia tra Cesari e Porcaroli, capace di reggere un racconto “di due” senza effetti ridondanti. I materiali circolati in rete (clip, recensioni, schede) mostrano quanto Piccioni sappia gestire gli equilibri: la macchina da presa si fida degli attori, lascia loro il tempo di abitare i silenzi, di far entrare Pascoli non come citazione, ma come temperatura.

Scopri La voce (1902) di Pascoli, la poesia che ispira il film “Zvanì” sulla forza dell’amore materno

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