14“Vita privata” (titolo originale “Vie privée”, internazionale “A Private Life”) non è un semplice thriller, ma una storia che svolta verso una seduta di analisi, e una seduta di analisi che scivola, quasi senza preavviso, nel territorio del sospetto.
Rebecca Zlotowski costruisce un film che non vuole essere soltanto “un giallo con un colpo di scena”, ma un racconto sul modo in cui la mente difende se stessa, su come la colpa si traveste da logica, e su quanto sia facile convincersi che la verità stia sempre fuori, quando invece sta lavorando dentro.
Il film è stato presentato fuori concorso al Festival di Cannes 2025, con Jodie Foster protagonista in francese: un dettaglio che non è semplice curiosità, perché cambia la temperatura del personaggio e la percezione di ogni battuta, come se la lingua diventasse una maschera che non copre, ma rivela.
Zlotowski non cerca l’effetto “cold case”
Piuttosto, sceglie un enigma che ha la forma di una crepa nella quotidianità. La protagonista è Lilian Steiner, psichiatra o psicoanalista (a seconda delle definizioni che circolano intorno al film), una donna arrivata a un punto in cui l’autorevolezza professionale non basta più a proteggere la vita privata.
Quando viene a sapere della morte di una sua paziente, Paula, Lilian non riesce ad archiviare l’evento come un fatto tragico ma chiuso.
Si impunta. E più si impunta, più sembra che non stia inseguendo soltanto la spiegazione di una fine, ma la possibilità di rimettere ordine nel proprio fallimento, nel proprio senso di responsabilità, nelle relazioni che ha lasciato sfilacciare.
Una psichiatra, una morte sospetta e una discesa che assomiglia a un ritorno
Il punto di partenza è netto, quasi classico: una paziente muore e la terapeuta, invece di restare nel perimetro del lutto e della deontologia, sente che qualcosa non quadra. Paula, interpretata da Virginie Efira, viene data per suicida, ma Lilian Steiner non ci crede: sospetta un omicidio e decide di indagare. È un gesto che la espone, perché Lilian non è una detective e non ha alcun ruolo ufficiale.
Eppure, proprio questo scarto alimenta la tensione: l’investigazione non nasce da una procedura, ma da un’urgenza emotiva, da un’intuizione che potrebbe essere lucidità o autoinganno.
Da qui il film prende una piega che, a quanto emerge anche dalle letture critiche, non resta in un binario solo. C’è una componente hitchcockiana e “da mistero”, fatta di pedinamenti, intrusioni, tentativi di ricostruire la vita di Paula attraverso chi la circondava; ma c’è anche un tono che flirta con la commedia nera, con una certa eccentricità quasi da screwball contemporanea, dove la protagonista si muove in un mondo che la osserva, la giudica, la respinge, e intanto la costringe a guardarsi.
È come se il film dicesse: “vuoi la verità su Paula? Bene. Ma prima devi attraversare il modo in cui la stai usando per parlare di te.”
E poi c’è Parigi: non la cartolina, ma una città mentale, fatta di interni, studi, famiglie che stringono, spazi dove le persone si parlano senza ascoltarsi davvero. Il lutto della famiglia della paziente diventa un contrappeso morale: Lilian viene messa davanti a una domanda scomoda, quella che qualsiasi terapeuta teme, anche quando non la ammette: “ho sbagliato? ho mancato un segnale? potevo salvare qualcuno?”
“Rebecca Zlotowski”: il cinema come ossessione lucida
Guardando la traiettoria di Zlotowski, “Vita privata” non sembra un incidente di percorso, ma un punto coerente. Anche quando cambia registro, la regista ha spesso raccontato corpi e identità in movimento, l’ambivalenza dei desideri, i legami familiari come forza e come ferita. In occasione di Cannes, diverse ricostruzioni insistono sul rapporto personale e creativo con Jodie Foster: Zlotowski parla del ruolo come di qualcosa che ha cercato a lungo, quasi fosse un personaggio “da offrire” a un’attrice amata da sempre.
Non è un dettaglio promozionale: suggerisce l’idea di un personaggio disegnato per sfruttare una presenza, un carisma, una durezza e una vulnerabilità che Foster sa rendere credibili nello stesso fotogramma.
Il punto interessante è che questa scelta non porta a un film “di prestigio” nel senso più rigido del termine. Al contrario: a leggere le impressioni critiche, “Vita privata” si concede svolte strane, deviazioni quasi oniriche, momenti che sembrano sabotare la linearità della detection.
Non per confondere lo spettatore in modo gratuito, ma per mettere in scena il disordine della psiche: quando la protagonista entra nel labirinto, il labirinto non è più soltanto quello della paziente morta, ma quello dei ricordi, delle paure e delle proiezioni.
“Jodie Foster in francese”: una scelta che cambia la pressione del film
C’è qualcosa di particolarmente efficace, quando un’attrice che associ a un certo immaginario americano si sposta in un ruolo francese, in una lingua che obbliga a un altro ritmo. Foster interpreta Lilian Steiner con un’energia che non è mai soltanto “autorità”: è nervo. È una donna intelligente che non riesce a spegnere il ronzio del dubbio. E quando decide di indagare, non lo fa con l’aria della detective geniale, ma con una specie di testardaggine piena di crepe, come se la razionalità fosse un cappotto troppo elegante per la stagione emotiva che sta attraversando.
Una delle cose più intriganti, nel modo in cui il film viene descritto, è l’oscillazione: “Vita privata” pare giocare con l’idea di un giallo tradizionale e poi scartare, infilando ipnosi, visioni, immagini che hanno un sapore quasi surreale e che spostano l’attenzione su un passato che non è mai davvero passato. Questo rende Lilian un personaggio meno “spiegabile” e perciò più umano: non la segui perché è infallibile, la segui perché ti sembra che stia rischiando qualcosa di personale, ogni volta che mette un piede oltre la linea.
“Un cast che disegna un mondo”: famiglie, potere, fragilità
Accanto a Foster, il film mette insieme volti che non sono lì per fare da sfondo. Daniel Auteuil, Virginie Efira, Mathieu Amalric, Vincent Lacoste, Luàna Bajrami: un insieme che suggerisce un gioco di riflessi, con personaggi che possono essere alleati, indizi, minacce o semplicemente specchi deformanti. In un racconto in cui una psichiatra entra nella vita privata di una paziente, ogni persona incontrata è anche una versione possibile della protagonista: chi è rimasto impigliato nel dolore, chi ha trasformato il dolore in controllo, chi ha fatto della rispettabilità una maschera.
Il tema della famiglia, poi, sembra centrale non solo in relazione a Paula, ma anche nella vita di Lilian. La morte dell’altra donna diventa un detonatore che costringe la protagonista a tornare sulle proprie relazioni: l’ex marito, il figlio, il lavoro, i pazienti. Il film, da quello che emerge, non separa mai del tutto il caso dalla vita: l’indagine è una forma di movimento, e il movimento è una forma di resa dei conti.
“Che genere è, davvero?”
Thriller, noir, commedia nera, e un film che si diverte a cambiare pelle
Se dovessimo cercare una definizione unica, “Vita privata” sembrerebbe rifiutarla con una certa ostinazione. Alcune presentazioni lo collocano tra noir-policier, thriller e dramma; altre insistono sulla componente screwball e sul tono da commedia che si innesta nel mistero.
È interessante perché non è solo questione di etichette: è un modo di parlare del controllo. Il thriller tende a promettere che ogni cosa, alla fine, avrà un posto; la psicoanalisi, invece, sa benissimo che il posto non sempre esiste, e che spesso una spiegazione è una forma elegante di difesa.
Questo continuo cambio di pelle crea una tensione particolare nello spettatore: ti chiedi cosa stai guardando e, proprio mentre te lo chiedi, ti rendi conto che la protagonista sta vivendo la stessa cosa. Anche Lilian sta provando a decidere che storia è la sua: la storia di una professionista impeccabile? Quella di una donna che ha fallito? Quella di una testimone? Oppure quella di una colpevole?
“La Parigi del film”: un labirinto di stanze, carte, silenzi
L’ambientazione non sembra puntare sul pittoresco, ma su un senso di elegante oppressione. Il film parla di vite private, ma per farlo entra in luoghi dove la privacy è sempre relativa: studi medici, famiglie che reclamano risposte, uffici, archivi, case altrui. La verità, qui, non è un oggetto nascosto sotto una mattonella; è una cosa che si deposita tra le persone, nelle mezze frasi, nei rancori, nelle omissioni.
E in fondo il film sembra voler dire questo: la vita privata non è “ciò che non si vede”, è ciò che continui a portarti dietro anche quando fai finta di essere altrove. Per Lilian, la morte di Paula diventa un accesso a un corridoio che conduce inevitabilmente a se stessa.
“Durata, uscita e dettagli”: il film come oggetto concreto, prima ancora che simbolico
“Vita privata” è un film francese del 2025, con una durata che viene indicata intorno a 1 ora e 43/45 minuti a seconda delle schede. È stato presentato fuori concorso a Cannes 2025, un passaggio che spesso segnala opere “forti” sul piano autoriale, ma anche capaci di parlare a un pubblico più ampio rispetto al circuito esclusivamente festivaliero.
Per l’uscita in sala, alcune programmazioni francesi riportano la data del 26 novembre 2025; per l’Italia, invece, è recentissimo e ha visto la luce solo l’11 dicembre. La sensazione è che il film sia pensato per attraversare sia la stagione dei festival sia quella della distribuzione d’autunno-inverno, quando il pubblico è più disponibile a farsi prendere da storie adulte, stratificate, e insieme “godibili” nella loro meccanica di suspense.
