“Doppio Sogno”, Teatro dell’Opera di Roma: “Lohengrin”

22 Novembre 2025

Il "Lohengrin" di Wagner torna al Teatro dell’Opera di Roma (stagione Doppio Sogno) dopo 50 anni: una nuova produzione visionaria tra mito, identità e mistero.

“Doppio Sogno”, Teatro dell’Opera di Roma: “Lohengrin”

Nel cuore di Roma, al leggendario Teatro dell’Opera di Roma, prende forma una stagione che ambisce a sfidare le frontiere tra sogno e realtà. “Doppio Sogno” è il titolo scelto per la stagione 2025-2026, un riferimento diretto al racconto di Arthur Schnitzler dove i confini tra ciò che siamo e ciò che sogniamo si rovesciano l’uno nell’altro. Questo titolo non è solo una suggestione letteraria, ma una dichiarazione di intenti: il teatro non come evasione, ma come spazio vivo, che interroga, coinvolge, trasforma.

Una stagione che guarda avanti: “Doppio Sogno”

La stagione si presenta con numeri imponenti: 12 nuove produzioni – di cui 9 opere e 3 di danza – per un totale di 14 titoli operistici, 8 balletti in sede, 3 tournée del Corpo di Ballo e una tournée orchestrale.

Il pubblico troverà sul palco del Costanzi nomi prestigiosi, prime assolute, debutti inediti per la Capitale, e una forte collaborazione internazionale. L’apertura è prevista con “Lohengrin” di Richard Wagner, che torna a Roma dopo cinquant’anni, seguita da titoli prestigiosi come “La bohème”, Ariadne auf Naxos, “Roméo et Juliette”, “Tancredi”, “La Traviata”, “Le nozze di Figaro” e “Falstaff”.

“Doppio Sogno è il titolo che abbiamo scelto… – dice il Sovrintendente Francesco Giambrone – un riferimento … dove sogno e realtà si intrecciano e si rovesciano l’uno nell’altra”.

Non si tratta solo di evocazione poetica: è una visione che permea il programma. Un teatro che vuole essere utopia, ma anche impegno. Che non propone il sogno come fuga, bensì come veicolo per “interrogare la realtà… con lucidità e prendere posizione”.

In essa, l’arte diventa ponte tra passato e futuro, memoria e innovazione, radici e sovversione.

“Lohengrin” di Richard Wagner al Teatro dell’Opera di Roma

La stagione 2025-2026 del Teatro dell’Opera di Roma si apre con uno dei capolavori wagneriani: “Lohengrin”, che torna al palco del Costanzi dopo circa 50 anni.

L’opera, composta e libretto dallo stesso Wagner, fu eseguita per la prima volta il 28 agosto 1850 a Weimar.

La scelta di inaugurare con questo titolo non è casuale: segna un impegno forte verso la tradizione wagneriana, ma anche un’apertura a nuove visioni, in un Teatro che intende farsi “sogno” e “realtà” come recita il tema stagionale.

Tema e trama

Ambientata nel Ducato del Brabante, in un’epoca leggendaria tra IX-X secolo, l’opera racconta la vicenda della nobildonna Elsa von Brabant, accusata dal conte Friedrich von Telramund di avere ucciso suo fratello per usurpare il trono.

Quando il re convoca un drammatico tribunale, Elsa invoca un campione che venga in suo aiuto. Quando nessuno sa cosa aspettarsi, sulle acque del fiume appare un cavaliere trascinato da un cigno bianco.

Egli risponde al nome di Lohengrin, mandato dal Graal, che accetta solo a condizione che lei non chieda mai il suo nome né la sua origine; solo così lui potrà restare con lei.

Lohengrin combatte e vince contro Telramund, provando l’innocenza della giovane. Il conflitto si risolve, ma la domanda proibita verrà posta e il cavaliere dovrà ripartire, lasciando un vuoto che non potrà essere colmato.

Il dubbio, la tentazione, la domanda proibita

Elsa e Lohengrin si amano, ma la notte delle nozze nasce un’ombra: la gelosia e il sospetto instillati da Ortrud, moglie di Telramund, spingono Elsa a credere che Lohengrin nasconda un segreto terribile.

La domanda proibita — chi sei davvero? — diventa un’ossessione.

La rivelazione e l’addio

Quando finalmente la verità viene alla luce, il palcoscenico si trasforma in una soglia tra mondi. Lohengrin, con la calma tragica di chi ha già accettato il proprio destino, rivela ciò che avrebbe dovuto restare nascosto: il suo nome, la sua origine, la sua natura. Confessa di essere figlio di Parsifal, custode del Graal; un cavaliere sacro, destinato a intervenire negli affari umani solo a condizione che nessuno tenti di svelare la sua identità. È un essere di passaggio, un emissario del divino: può guarire, può proteggere, può amare — ma non può essere conosciuto.

E poi svela l’ultimo segreto, il più doloroso: il cigno che lo accompagna non è una creatura magica, ma il fratello di Elsa, vittima di un incantesimo crudele. In un istante la maledizione si rompe, il ragazzo ritrova forma umana, ma la gioia non ha il tempo di compiersi: il patto infranto costringe Lohengrin a partire. Elsa resta sola, circondata da ciò che resta dell’amore e della colpa, mentre il cavaliere si allontana così come era arrivato — misterioso, luminoso, irraggiungibile.

Il senso dell’opera

“Lohengrin” è una tragedia che si regge su un’equazione semplice e terribile: l’amore vive finché resta mistero; muore nel momento in cui viene interrogato. È un’opera che parla della fragilità della fiducia, del desiderio umano di cercare risposte anche quando le risposte rischiano di distruggere tutto. Elsa non è colpevole di mancanza d’amore: è colpevole di paura. Lohengrin non è un eroe irraggiungibile: è un uomo condannato al segreto.

Dentro questo nodo drammatico si muovono temi universali: l’identità nascosta che tutti custodiamo; la tensione tra fede e dubbio; il bisogno di sapere chi abbiamo accanto e, allo stesso tempo, il terrore di ciò che potremmo scoprire. Wagner trasforma la leggenda del cavaliere del cigno in una riflessione struggente sulla natura del legame umano: fino a che punto possiamo amare qualcuno senza volerne conoscere l’intera verità?

La risposta è tragica: a volte la conoscenza è il prezzo dell’addio.

“Lohengrin” lo mostra con la forza di un mito antico e la precisione di un dramma psicologico moderno. È una storia poetica, dolorosa e profondamente umana, dove l’amore non viene sconfitto dalla mancanza, ma dal timore di perderlo. E proprio per questo rimane indimenticabile.

Perché questa produzione è significativa

Il ritorno di “Lohengrin” al Teatro dell’Opera di Roma, dopo cinquant’anni di assenza dal Costanzi, è già di per sé un evento storico. Ma questa nuova produzione acquista un peso ancora maggiore perché segna l’ingresso di Damiano Michieletto nel mondo wagneriano romano: un regista noto per la sua capacità di leggere i classici attraverso un filtro contemporaneo, asciugando i simboli più tradizionali — come il celebre cigno — per sostituirli con metafore più attuali e disturbanti.

A guidare la parte musicale sarà invece Michele Mariotti, che ha dichiarato con chiarezza che “è arrivato il momento di Wagner”, rivendicando una scelta coraggiosa e necessaria per il rinnovamento della scena operistica italiana. Inserita nel contesto della stagione “Doppio Sogno”, questa messa in scena si allinea perfettamente al tema dell’anno: “Lohengrin” diventa così una riflessione sul confine mobile tra visibile e invisibile, sull’identità che si cela dietro un nome proibito e sulle apparenze che si frantumano non appena si tenta di decifrarle.

È un’opera che parla di mistero, desiderio e perdita, e che grazie alla lettura del Teatro dell’Opera trova un nuovo modo di interrogarci.

Spunti interpretativi

Nel cuore della vicenda c’è il tema dell’identità nascosta: Elsa invoca un salvatore senza conoscerlo, e quando infrange il tabù della domanda proibita precipita nella tragedia.

Qui Wagner tocca qualcosa di sorprendentemente moderno: il diritto al nome, il bisogno di sapere chi abbiamo davanti e quale prezzo comporti la ricerca della verità.

Attorno a questa tensione si muove anche il nucleo spirituale dell’opera, dove fede e dubbio convivono — non solo per Elsa, ma per lo stesso Lohengrin e per il pubblico, che si trova sospeso tra fiducia e sospetto.

Wagner rilegge la leggenda del cavaliere del cigno trasformando il mito in un dramma profondamente umano, dove la figura divina diventa simbolo della fragilità di ogni promessa d’amore.

E poi c’è la musica: la partitura di “Lohengrin” è un viaggio sonoro che segna la fine del Wagner “romantico” e l’inizio del Wagner più visionario. È un ponte verso il futuro, un’opera di passaggio in cui si sente già la tensione del linguaggio musicale che verrà.

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