“Don Giovanni” all’Arena: il desiderio che sfida il limite

28 Ottobre 2025

Il mito del seduttore assoluto in un allestimento essenziale: "Don Giovanni" all'Arena di Verona. Un viaggio nel desiderio al centro dell'anfiteatro.

"Don Giovanni" all'Arena: il desiderio che sfida il limite

Prima di essere un titolo d’opera, Don Giovanni è un’idea, un archetipo europeo che si trova al bivio tra etica ed estetica.

È l’incarnazione del desiderio assoluto, il corpo ribelle che sfida le convenzioni e ogni limite morale ancor più di Casanova.

Nato in Spagna con Tirso de Molina, reinterpretato in chiave razionalista e atea da Molière, il mito raggiunse il suo vertice nel 1787 con il “Don Giovanni” di Wolfgang Amadeus Mozart e Lorenzo Da Ponte. Un dramma giocoso che è, in realtà, un’opera sul terrore e sul giudizio finale, in cui l’eros si fa musica cinetica e la figura del libertino si plasma come forza insubordinata della natura, destinata a sprofondare nella dannazione.

Il “festin de pierre” e l’irruzione della statua del Commendatore non rappresentano solo la vendetta ultraterrena: sono la materializzazione del limite, della coscienza che si fa pietra per ristabilire una legge infranta. È in questo scontro eterno tra impulso individuale e ordine cosmico che il “Don Giovanni” continua a interrogarci: sulla libertà, sulla colpa e sul confine sottile tra l’umano e il sacro.

Quando un’opera così carica di significato, che ha dato voce all’“uomo in rivolta” secondo la critica moderna, torna in scena, il luogo della messa in scena non è mai casuale: la monumentalità del mito si confronta con la monumentalità della storia. Ed è qui che la rappresentazione all’Arena di Verona acquista un valore unico.

Nel millenario anfiteatro romano, dove la pietra assorbe secoli di memoria e il teatro diventa un rito collettivo sotto il cielo notturno, il “Don Giovanni” si spoglia di ogni fasto superfluo per rivelare la sua essenza più autentica. L’allestimento di quest’anno, infatti, lavora sull’essenzialità visiva, sul contrasto tra luce e ombra, trasformando la stessa pietra dell’Arena nell’interlocutrice del libertino.

In questo scontro tra mito e materia, tra il genio di Mozart e la storia che vibra nella cavea, il “Don Giovanni” non è più solo un racconto del Settecento, ma un archetipo che risuona con una forza rinnovata, offrendo al pubblico un’esperienza totale: una meditazione collettiva sul destino, la sfida e la libertà.

Un archetipo europeo

Don Giovanni, il seduttore assoluto che “non chiede scusa” nasce in letteratura con Tirso de Molina e “El burlador de Sevilla y convidado de piedra” (ca. 1618–1630); testo che per primo getta le basi dell’archetipo.

La prima tradizione teatrale: da Siviglia a Parigi

Del Burlador non conosciamo con certezza la prima messinscena, ma sappiamo che circola in Spagna già negli anni Venti–Trenta del Seicento e che venne stampato nel 1630.

L’impianto è tragico-morale: dietro il brio del “burlatore” si stagliano peccato, colpa, castigo. È questa la matrice che Molière rielabora un secolo dopo nel suo “Dom Juan; ou le festin de pierre” (1665), una commedia nera e scandalosa che debutta a Parigi e viene presto ritirata, accusata di empietà e irrisione dell’ordine morale.

Nella sua versione, Dom Juan non è solo un sensale del desiderio: è un libertino filosofico, un ateo che alza la posta contro cielo e società, finché la statua del Commendatore non presenta il conto.

Il passaggio all’opera: Mozart/Da Ponte

Nel 1787 Mozart e Da Ponte trasformano il mito in un dramma giocoso di abissi: Don Giovanni debutta il 29 ottobre 1787 al Teatro degli Stati di Praga (Estates Theatre). È opera di risa e terrore, “commedia” che precipita nel giudizio finale, con il banchetto e l’irruzione di pietra del Commendatore. Da Ponte prende a modello (anche) un libretto di Giovanni Bertati e compone un testo che alterna balli e vertigine metafisica; Mozart scrive una partitura in cui il re minore plasma la figura del protagonista come energia insubordinata. Nasce l’icona moderna del seduttore: non più solo colpevole, ma forza di natura.

Altre eredità: dal Romanticismo a Zorrilla

Nell’Ottocento il mito vira verso il melodramma romantico: il Don Juan Tenorio (1844) di José Zorrilla tempera il dannato con la possibilità della redenzione per amore. La figura continua a rifrangersi tra palcoscenici e romanzi, oscillando fra giudizio e assoluzione, peccato e salvezza.

Che cosa rappresenta il “Don Giovanni”?

  1. Il desiderio come sfida (e come politica del corpo) Don Giovanni è un professionista della trasgressione. Non ama: vince. La sua etica è la quantità — “mille e tre” è una contabilità del potere — e la seduzione diventa un modo per scompaginare gerarchie, contratti sociali, ipocrisie di casta. In Tirso l’ordine si ristabilisce col castigo; in Molière il libertino razionalista smaschera anche l’ipocrisia dei devoti; in Mozart l’eros si fa musica cinetica, una vitalità che non conosce penitenza fino allo sprofondo.
  2. La statua che cammina: colpa, grazia, inferno Il Commendatore non è solo vendetta ultraterrena: è la coscienza che si fa pietra. La scena del convito — il “festin de pierre” — è uno dei dispositivi più potenti del teatro europeo: materializza l’idea che esista un limite (metafisico, etico, politico) che non si può impunemente violare. La variante romantica (Zorrilla) apre alla grazia; ma la linea forte della tradizione resta il castigo come ripristino di una legge infranta.
  3. L’ipocrisia come vero antagonista Da Molière in poi, il bersaglio non è soltanto Don Giovanni: è la società che lo circonda. Il servo Sganarelle è specchio comico ma anche spia della morale corrente; i devoti di corte sono bersagli della satira. In questa luce, Don Giovanni è al tempo stesso sintomo e rivelatore: il suo eccesso fa emergere il perbenismo come maschera del desiderio altrui.

Dal pensiero all’estetica

Le letture critiche di “Don Giovanni” attraversano i secoli come il personaggio stesso, mutando insieme alle domande morali ed estetiche dell’Europa. Nel testo originario di Tirso de Molina, scritto nella Spagna della Controriforma, domina un’etica del castigo: il “burlador” non offende solo le donne che seduce e abbandona, ma infrange l’intero ordine sociale e religioso. È l’uomo che viola il patto con Dio e con la comunità, incarnando il peccato come disobbedienza metafisica.

L’opera nasce dunque nel cuore di una cultura che crede ancora nella punizione come forma di grazia: la morte di Don Giovanni non è soltanto condanna, ma possibilità di redenzione attraverso la giustizia divina.

Con Molière, un secolo dopo, il mito cambia volto. “Dom Juan” diventa un libertino illuminista, un razionalista scettico che usa la seduzione come linguaggio filosofico e la provocazione come strumento politico. L’ateismo del personaggio — che in scena scandalizzò il pubblico parigino del 1665 — non è semplice empietà, ma una forma di pensiero critico contro l’ipocrisia della devozione di facciata. Qui Don Giovanni non è più solo il peccatore punito, ma il pensatore che osa contestare l’ordine stabilito.

Con Mozart e Da Ponte, infine, il mito si apre all’ambiguità moderna: l’eroe non è più un moralista né un ribelle, ma un’esteta. Vive per il piacere, per il gesto, per il momento in cui desiderio e musica coincidono. È questa dimensione estetica, più che etica, che affascina il Novecento: filosofi come Kierkegaard e Camus vedono in “Don Giovanni” la figura dell’“uomo in rivolta”, colui che sfida il senso stesso dell’esistenza senza cercare redenzione. Nelle mani di Mozart, la tragedia diventa armonia inquieta: la leggerezza dell’opera buffa si fonde con la profondità del dramma, e “Don Giovanni” diventa il simbolo di un’umanità sospesa tra colpa e libertà, tra il bisogno di senso e la vertigine del nulla.

L’Arena di Verona

Ascoltare un’opera all’Arena non significa solo assistere a uno spettacolo: significa partecipare a un rito collettivo. Al calare del sole, quando la pietra rosata assorbe la luce e il silenzio si prepara all’attacco dell’orchestra, si ha la sensazione che il tempo si fermi. Ogni rappresentazione è insieme celebrazione e custodia del passato, un atto di gratitudine verso ciò che siamo stati e verso ciò che, grazie all’arte, possiamo ancora diventare.

Negli ultimi anni, l’Arena ha saputo aprirsi a nuove forme di linguaggio: accanto al repertorio lirico classico — da “Aida” a “Carmen”, da “Nabucco” a “Tosca” — ospita anche concerti sinfonici e grandi eventi pop, accogliendo la contemporaneità senza rinunciare alla propria aura di sacralità.

Ogni spettacolo, dal punto di vista scenico e simbolico, rinnova la sfida di armonizzare il tempo antico con l’emozione moderna. Per questo l’Arena di Verona non è solo un monumento, ma un organismo vivo: un ponte tra civiltà e suono, un anfiteatro che continua a parlare — o meglio, a cantare — la lingua universale dell’arte.

Un allestimento che intreccia tradizione e nuova linfa

Quest’anno “Don Giovanni” torna all’Arena di Verona con un allestimento che punta sull’essenzialità visiva e sul dialogo con lo spazio monumentale dell’anfiteatro. La regia di Enrico Stinchelli evita i fasti decorativi delle edizioni storiche e lavora piuttosto sul contrasto tra luce e ombra, lasciando che la pietra dell’Arena diventi parte della scenografia.

Le luci di Ezio Antonelli disegnano ambienti mobili e simbolici: bagliori taglienti per le scene di sfida, sfumature ambrate per i momenti più intimi, e un uso costante delle ombre per suggerire la presenza del “fantasma” del Commendatore anche quando non è in scena. Non c’è ricostruzione storica della Siviglia seicentesca, ma una serie di spazi evocativi — archi, pedane, proiezioni discrete — che dialogano con la materia viva della pietra e con il cielo notturno sopra la cavea.

Il risultato è un “Don Giovanni” più rarefatto e teatrale, in cui l’Arena stessa diventa parte della drammaturgia. L’ampiezza del luogo non viene riempita da quinte o prospettive artificiali, ma da una regia che sfrutta la luce naturale del tramonto, i vuoti, le distanze, per dare respiro alla musica di Mozart.

In questa cornice, la seduzione e la colpa acquistano un valore quasi cosmico: il libertino non è solo l’uomo che sfida le regole, ma una figura che si muove dentro la luce e la tenebra, come se il cielo e la pietra fossero i suoi veri interlocutori. Il gioco tra chiarore e oscurità diventa il filo conduttore di un’opera che, all’Arena, non ha bisogno di effetti per essere spettacolare: basta il respiro del pubblico, il riverbero delle voci e la vibrazione del tempo che passa tra un’aria e l’altra.

Perche questa produzione merita attenzione?

Mettere in scena “Don Giovanni” all’Arena di Verona significa far convivere mito e materia, storia e presente. Il palcoscenico è la pietra stessa dell’anfiteatro, un corpo vivo che trattiene il respiro di secoli e restituisce al pubblico la sensazione di partecipare a un rito collettivo.

In questo spazio carico di simbolo, il libertino di Mozart e Da Ponte non è più soltanto un uomo che sfida le regole del desiderio, ma diventa un archetipo universale: la personificazione del conflitto eterno tra impulso individuale e ordine sociale. La regia di Enrico Stinchelli lavora su questa soglia sottile, costruendo un ambiente che è insieme interno ed esterno, reale e mentale.

Le arcate romane diventano quinte naturali, le luci di Ezio Antonelli tracciano linee mobili che separano e uniscono, e la notte stessa diventa parte della scenografia. Tutto si gioca nel dialogo tra luce e buio, tra spazio e silenzio: ogni gesto risuona nella pietra, ogni ombra diventa segno.

L’effetto è quello di un teatro sospeso, dove la scena non è più un luogo chiuso ma una zona di confine tra la vita e il giudizio.

La musica di Mozart trova in questa dimensione il suo respiro più ampio. L’acustica naturale dell’Arena amplifica la partitura fino a farne paesaggio: il suono si espande, avvolge il pubblico, lo immerge in una vibrazione che è insieme spettacolo e riflessione. L’esperienza diventa totale, quasi fisica, e il dramma si trasforma in una meditazione collettiva sul destino.

Ma ciò che rende questa produzione davvero interessante è la sua capacità di interrogare il presente senza alterare il mito. “Don Giovanni” resta sé stesso, ma il suo gesto — vivere senza freno, desiderare senza misura — risuona oggi con una forza nuova.

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