Perché Squid Game piace così tanto? Anatomia di un successo che non è solo intrattenimento Nel settembre 2021, quando Squid Game ha fatto il suo ingresso su Netflix, nessuno avrebbe immaginato che una serie sudcoreana, girata con un budget relativamente modesto e con attori per lo più sconosciuti al pubblico occidentale, avrebbe conquistato il mondo intero.
Eppure è successo. In poche settimane, Squid Game è diventata la serie più vista di sempre su Netflix, scatenando analisi, meme, travestimenti di Halloween e, ovviamente, infinite repliche del gioco del “Red Light, Green Light” (la nostra campana) nei cortili scolastici di mezzo mondo. Ma cos’ha reso Squid Game così irresistibile? Perché una storia tanto cruda, violenta e spietata ha conquistato il pubblico globale? In occasione dell’uscita della terza stagione il 27 giugno proviamo a rispondere: per farlo, bisogna scavare sotto la superficie di sangue e tute verdi.
Squid Game: La serie che ha affascinato tutti, ma perché piace così tanto?
Squid Game non è solo una serie ad alta tensione: è un grido. Un grido disperato e lucidissimo contro un sistema che trasforma il debito in schiavitù e la sopravvivenza in competizione. Piace perché parla a tutti, da ogni latitudine. Perché tocca il nervo scoperto di una generazione precaria, ansiosa, frustrata. Piace perché fa paura, e a volte, guardare in faccia le nostre paure più profonde è l’unico modo per affrontarle. È per questo che Squid Game ha smesso di essere solo una serie: è diventata un simbolo. E nei simboli, si sa, ci si rifugia. Anche quando fanno male.
Il fascino dei giochi dell’infanzia
Squid Game parte da un’idea potentissima: prendere dei giochi infantili e trasformarli in strumenti di morte. La serie non si perde in premesse complesse: un gruppo di persone sull’orlo del baratro economico accetta di partecipare a una competizione segreta in cui il premio è una somma di denaro da capogiro… e il prezzo, la propria vita.
È un meccanismo narrativo che mescola elementi noti, da Battle Royale a Hunger Games, con l’originalità di un’estetica pop inquietante e di una critica sociale che non fa sconti. La semplicità dei giochi (la campana, il tiro alla fune, il biscotto dalgona) crea un contrasto disturbante con la violenza che ne deriva, tenendo lo spettatore incollato allo schermo: chi morirà? Chi tradirà? Chi sopravvivrà? Ogni episodio è un cliffhanger in potenza.
La critica sociale
Il vero cuore pulsante di Squid Game non è la suspense, ma la critica sociale. La serie è una riflessione brutale sulla disuguaglianza, sull’indebitamento cronico, sull’individualismo tossico e sul valore della vita umana in una società dove tutto, anche la dignità, ha un prezzo.
I concorrenti del gioco non sono mostri: sono uomini e donne comuni, vittime di un sistema che li ha spinti sull’orlo del baratro. In Squid Game, i debiti non sono solo un problema economico: diventano una condanna esistenziale.
Il pubblico si riconosce nei personaggi perché rappresentano archetipi universali: l’uomo divorziato che ha fallito come padre ( Gi-hun ), l’immigrato sfruttato ( Ali ), la giovane scappata dalla Corea del Nord ( Sae-byeok ), l’anziano malato lasciato indietro ( Oh Il-nam ). Tutti rappresentano, a modo loro, la crisi del sogno meritocratico: il fallimento del “se ti impegni, ce la farai”.
L’estetica della serie
Un altro motivo del successo di Squid Game è senza dubbio la sua estetica: le tute verdi, le maschere geometriche, i colori pastello degli ambienti, il contrasto tra l’infanzia evocata e la crudeltà mostrata. Ogni dettaglio visivo è pensato per colpire, per creare icone facilmente riconoscibili, per rendere ogni scena una potenziale immagine virale.
Non è un caso che il design della serie sia diventato materiale da cosplay, merchandising, challenge su TikTok e Instagram. La violenza spettacolare e l’art direction iper-curata rendono la visione quasi ipnotica: si resta incollati per vedere cosa accadrà, anche se, o proprio perché, fa male.
Il dolore che diventa intrattenimento
Nella società dello spettacolo, la sofferenza è diventata contenuto. Squid Game lo capisce benissimo e lo ribalta: i giocatori non sono solo in gara per vincere, ma sono osservati da ricchi annoiati che scommettono su di loro come cavalli da corsa. È un’allusione feroce a come il dolore altrui diventi intrattenimento, dai reality show al voyeurismo delle notizie tragiche.
Questo aspetto, pur disturbante, attrae lo spettatore: Squid Game ci mette davanti a uno specchio scomodo. Non siamo poi così diversi dai VIP che guardano i giochi: vogliamo sapere chi muore, chi tradisce, chi vince. Ma a differenza loro, forse possiamo ancora empatizzare.
Il fascino del protagonista
Gi-hun, il protagonista, non è un eroe tradizionale. È indebitato, pasticcione, spesso codardo, eppure non smette mai di cercare una via di riscatto umano. Il suo percorso emotivo ci coinvolge perché non è una parabola lineare: è un’altalena di scelte giuste e sbagliate, dettate dalla disperazione e dall’amore. La sua vittoria finale, amarissima, è una delle più riuscite inversioni di aspettativa della serialità recente: non c’è trionfo, non c’è redenzione, solo consapevolezza. E la consapevolezza è il vero punto d’arrivo di una serie come questa.