Lunedì 29 settembre (ore 21:15) debutta in prima TV su Sky Cinema Uno, in streaming su NOW e disponibile on demand (anche in 4K sui dispositivi compatibili) il nuovo film di Silvio Soldini: “Le assaggiatrici”.
È una “Sky Exclusive” che porta sullo schermo, in lingua tedesca e con sguardo sobrio e intensamente emotivo, una pagina poco raccontata della Seconda Guerra Mondiale: le giovani donne costrette ad assaggiare i pasti destinati ad Adolf Hitler, nella sperduta Tana del Lupo in Prussia Orientale. Il film, interpretato da Elisa Schlott, Max Riemelt e Alma Hasun, è tratto dal romanzo omonimo di Rosella Postorino, Premio Campiello 2018, ispirato alla testimonianza dell’unica superstite, Margot Wölk.
Un film corale e rigoroso: cosa mette in scena
Soldini sceglie la via del dramma storico corale: non c’è compiacimento visivo, né l’ossessione di ricostruire il “grande affresco” bellico tanto amato dal Cinema; c’è invece un’enfasi sull’esperienza quotidiana del rischio, dove mangiare è un lusso, ma ogni boccone di cibo potrebbe costare la vita.
Ciò che risalta e sulla sorellanza che nasce nelle cucine blindate della Wolfsschanze. È un cinema di volti e attese, di paure trattenute, di sorellanza che nasce nelle cucine blindate della Wolfsschanze — la Tana del Lupo — e desideri che non osano dirsi.
Il focus si punta su Rosa, giovane berlinese sfollata in un villaggio vicino al quartier generale del Führer: arruolata tra le assaggiatrici, si muove tra la fame, il senso di colpa e l’imprevista attrazione per un ufficiale delle SS, una faglia emotiva che il film non tratta come scandalo, ma come urgenza di restare vivi laddove tutto porta alla morte.
Il lavoro di un grande team
Dietro la regia, una scrittura a più mani: soggetto di Cristina Comencini, Giulia Calenda e Ilaria Macchia; sceneggiatura firmata con Doriana Leondeff, Silvio Soldini e Lucio Ricca. Il film è una coproduzione tra Italia, Belgio e Svizzera, con Vision Distribution alla distribuzione e il sostegno di partner europei; musica di Mauro Pagani e fotografia di Renato Berta, nomi che segnalano la volontà di conciliare autorialità e accessibilità.
Gli attori
Elisa Schlott è la protagonista (Rosa); accanto a lei, Max Riemelt porta in scena un ufficiale delle SS lontano dallo stereotipo del “mostro funzionale” tipico di tanto cinema bellico: la sua figura racchiude l’ambiguità del potere seduttivo dell’autorità, la promessa di una tregua emotiva che però non può esistere davvero.
Il libro “Le assaggiatrici”
Pubblicato da Feltrinelli nel 2018, “Le assaggiatrici” di Rosella Postorino ha vinto il Premio Campiello e ha ottenuto numerosi altri riconoscimenti. È stato tradotto in oltre 30 lingue e ha riacceso l’attenzione su un tema laterale ma simbolico della guerra: il corpo femminile come zona di rischio e scudo per il potere.
Il romanzo non è un semplice “reportage romanzato”: è un romanzo d’esperienza interiore, dove la protagonista — di finzione — attraversa un territorio morale sdrucciolevole, fra sopravvivenza e compromesso, desiderio e vergogna.
L’adattamento di Soldini conserva questa ambiguità fertile: non “assolve” né “condanna” i sentimenti proibiti; li osserva nel loro attrito con il tempo storico.
La storia vera di Margot Wölk
La scintilla documentaria da cui parte tutto è la testimonianza di Margot Wölk. Nata a Berlino nel 1917, Wölk ruppe il silenzio solo nel 2012, a 95 anni, quando raccontò di essere stata una delle 15 assaggiatrici negli anni della Wolfsschanze — circa due anni e mezzo — nonché unica sopravvissuta alla fine della guerra.
Nei resoconti, ribadì la natura vegetariana dei pasti di Hitler e l’angoscia costante di ogni boccone. Gli articoli e i profili biografici pubblicati fra 2012 e 2013 hanno reso nota la vicenda al grande pubblico.
Tuttavia, nel 2025, alcuni storici – tra cui Felix Bohr – hanno espresso cautela sull’assenza di riscontri archivistici diretti rispetto a un “gruppo organizzato” di assaggiatrici alla Tana del Lupo, pur senza smentire in modo definitivo la memoria della testimone.
È una discussione che riguarda gli standards di prova storica più che il valore umano di un racconto di sopravvivenza. Il film, consapevole della dialettica tra storia e memoria, aderisce alla sostanza esperienziale della testimonianza e la rielabora in una narrazione che mette al centro le donne, la fame, la paura e i legami di necessità.
Le “chicche” del film
Guardare “Le assaggiatrici” significa lasciarsi attraversare da una serie di dettagli che diventano parte integrante della narrazione: la scelta della lingua originale, il tedesco, non è un vezzo di realismo ma un vero e proprio diaframma emotivo che allontana lo spettatore dalla comprensione. L’italiano resta fuori campo e l’altra lingua crea l’incomprensione, la distanza, lo straniamento.
Allo stesso tempo, il suono diventa protagonista silenzioso: cucine, carrelli, stoviglie, ogni rumore domestico si trasforma in un memento mori che ricorda quanto la morte possa nascondersi nel gesto più ordinario. E così sale la tensione.
Il ritmo del film è scandito dall’attesa: entrare in sala, sedersi, masticare, aspettare gli effetti del cibo. Non c’è eroismo in questa sequenza di azioni ripetute, ma solo la misura minima del tempo della paura. La solidarietà, qui, è faticosa, guadagnata giorno per giorno.
Il personaggio di Rosa si rivela soprattutto attraverso lo sguardo: capire quando guarda negli occhi e quando li abbassa significa leggere il conflitto tra il desiderio e l’istinto di sopravvivenza. Anche i vuoti di campo sono eloquenti: Hitler, il fronte, il “grande mondo” restano invisibili, eppure la loro assenza pesa più di qualsiasi presenza. Infine, ci sono i cibi: vegetariani, abbondanti, spesso troppo buoni per sembrare veri, circondati dalla miseria e dalla carestia. È un’oscenità dell’opulenza che diventa simbolo, un dettaglio che le cronache storiche hanno confermato e che qui acquisisce valore di metafora.
Tra storia e cinema
“Le assaggiatrici” non è un “film sui nazisti”, ma un film sulle donne e sul costo della sopravvivenza. Va ben oltre la Seconda Guerra Mondiale e osserva i corpi femminili nel loro percorso nevralgico, giungendo fino a oggi.
Non solo donne, non solo esseri umani; o, per meglio dire, mai esseri umani. Che si tratti di infermiere, operaie o, come in questo caso, assaggiatrici costrette a farsi scudo contro il veleno, le donne sono intese come esseri subalterni, subordinati, inferiori all’uomo. Corpi. Ma quei corpi sono anche archivi di traumi, portatori di memorie che il film non enuncia mai in maniera didascalica, lasciando che siano i gesti a dirlo.
“Le assaggiatrici” si pone anche dei dubbi legittimi e verosimili per misurare la densità morale attraverso il filtro che Primo Levi descrisse come “zona grigia”: uno spazio in cui il desiderio può fiorire anche in condizioni moralmente indicibili. Non giustifica e non assolve, ma riconosce la fragilità umana e la necessità di amare — o anche solo di avere un contatto — pur convivendo col timore.
Dal Campiello al set
Il passaggio da romanzo premiato a film d’autore europeo merita un’occhio di riguardo. Non escludiamo che, grazie a SKY, possa circolare nei festival e brillare nel cinema internazionale.